29 giugno 2022
Chi è lo Zarathustra di Nietzsche? In Saggi e discorsi di M. Heidegger.
Questa sera leggiamo il saggio di Heidegger, tratto dai Saggi e discorsi, dal titolo Chi è lo Zarathustra di Nietzsche? A pag. 66. Sembra una cosa facile rispondere a questa domanda. Nietzsche stesso infatti ci fornisce la risposta, in enunciati chiari, anzi evidenziati dal corsivo. Tali enunciati si trovano nell’opera di Nietzsche che è dedicata espressamente alla figura di Zarathustra. Il libro consiste di quattro parti, è stato scritto negli anni 1883-85 e si intitola: Così parlò Zarathustra. Nietzsche ha voluto accompagnare questo libro con un sottotitolo, che suona: Un libro per tutti e per nessuno. “Per tutti” non vuol dire certo: per chiunque, per il primo venuto. “Per tutti” significa: per ogni uomo in quanto uomo, per ognuno ogni volta e nella misura in cui arriva a considerarsi, nella propria essenza, come degno di pensarsi. Ora, chi è lo Zarathustra? È qualcuno che parla. È un parlatore. Di che tipo? Un oratore popolare o magari un predicatore? No. Il parlatore Zarathustra è un Fürsprecher, un portavoce e un avvocato. In questo termine incontriamo una parola molto antica della lingua tedesca, e invero essa ci si presenta con un senso molteplice. “Für”, propriamente, significa “vor”, davanti. /…/ Il Fürsprech, l’intercessore, parla dinnanzi agli altri e guida il discorso. Ma “für” significa anche: a favore, in difesa di. Il Fürsprecher è infine colui che interpreta e spiega ciò di cui e per cui parla. Zarathustra è un avvocato in questo triplice senso. Ma che cosa proclama? In favore di chi parla? A pag. 67. Verso la fine della terza parte di Così parlò Zarathustra c’è un pezzo intitolato “Il convalescente”. Il convalescente è Zarathustra. Ma che cosa significa, qui, convalescente? Il verbo genesen (guarire, recuperare la salute), è lo stesso che il verbo greco νέομαι, νόστος. Questo verbo significa “tornare a casa”; la nostalgia è la pena della lontananza, il dolore di chi è via da casa. Il “convalescente” è colui che si raccoglie per tornare a casa, cioè per dirigersi alla dimora del suo destino. Il convalescente è in cammino verso se stesso… La questione della sofferenza qui è importante. Poco più avanti dice Che cosa significhi “sofferenza”, poi, Nietzsche lo spiega in questi termini: “Tutto ciò che soffre vuol vivere”, cioè tutto quello che è nel modo della volontà di potenza. Questo vuol dire: “Le forze formatrici si urtano”. Il “circolo” è il segno dell’anello il cui lottare ritorna su se stesso e così ottiene sempre il ritmo dell’uguale. La volontà di potenza, contro che cosa urta? Qui teniamo conto anche di alcune cose che dice Severino a questo riguardo. La volontà di potenza urta, cioè “soffre” nei confronti di ciò che non può modificare. La volontà di potenza è volontà creatrice, deve volere continuamente cose nuove; l’immodificabile è ciò di cui soffre. Che cos’è l’immodificabile? È ciò che fu. Tutte le cose che sono state è come se andassero ad accumularsi aumentando sempre più e a formare un qualche cosa contro cui la volontà di potenza si scontra, perché non può nulla nei confronti di ciò che è stato, non può modificare il passato. Quindi, Nietzsche si è trovato in questa condizione: la volontà di potenza non può andare oltre questo punto, si arresta di fronte all’immodificabile. Ora, l’immodificabile è tante cose, è anche Dio per esempio, è l’eterno, o l’essere, nel senso dell’essere dell’essente: gli essenti mutano, ma l’essere di questi essenti rimane lo stesso. In questa prospettiva Zarathustra si presenta come il portavoce del fatto che ogni essente è volontà di potenza, la quale, come volontà creatrice che urta contro se stessa, soffre, e così vuole se stessa nell’eterno ritorno dell’uguale. L’unico modo perché questo passato possa di nuovo cadere sotto il dominio della volontà di potenza è che questo passato ritorni, cioè, ritorni ciò che è il voluto, ritorni ad essere voluto di nuovo, e sempre di nuovo. A pag. 68. La parola decisiva: “Tu sei il maestro dell’eterno ritorno”, non è Zarathustra che la dice a se stesso. Gliela dicono i suoi animali. Essi sono subito nominati all’inizio della prefazione dell’opera, e poi più chiaramente alla fine della stessa prefazione. Qui è detto: “…mentre il sole stava nel pieno meriggio… si mise a scrutare il cielo – aveva infatti udito sopra di sé lo stridio acuto di un uccello. Ecco, un’aquila volteggiava in larghi circoli per l’aria, ad essa era appeso un serpente, non come una preda ma come un amico: le stava infatti inanellato al collo”. In questo misterioso abbraccio presentiamo già in che modo inespresso nel volo circolare dell’aquila e nelle spire del serpente si intreccino il circolo e l’anello. /…/ L’animale più orgoglioso sotto il sole (l’aquila) e l’animale più intelligente sotto il sole (il serpente) – erano in volo per esplorare il terreno. /…/ Così viene in luce che Zarathustra deve anzitutto divenire quello che è. Davanti a tale divenire, Zarathustra indietreggia spaventato. Lo spavento serpeggia in tutta l’opera che a lui è dedicata. Questo spavento determina lo stile, è il procedere esitante e sempre di nuovo rallentato dell’intera opera. Questo spavento soffoca in Zarathustra ogni sicurezza e ogni arroganza fin dall’inizio del cammino. /…/ Se Zarathustra deve prima diventare il maestro dell’eterno ritorno, non potrà cominciare immediatamente con questo insegnamento. Perciò, all’inizio del suo cammino, si incontra un’altra parola: “Io vi insegno il superuomo”. Nella parola “superuomo” dobbiamo anzitutto allontanare tutte le risonanze false e svianti che l’accompagnano nella mentalità comune. Con il termine “superuomo” Nietzsche non indica per nulla un esemplare particolarmente perfetto dell’uomo attuale. Né intende una specie di uomini che metta da parte ciò che è umano ed eriga a legge il puro arbitrio e a regola una sorta di furia titanica. Il superuomo è invece, prendendo il termine esattamente alla lettera, quell’uomo che va oltre l’uomo così com’è stato e com’è, soltanto per portare finalmente l’uomo attuale in quella sua essenza che ancora gli manca e stabilirlo in essa. Una nota postuma relativa allo Zarathustra dice: “Zarathustra non vuole perdere nulla del passato dell’umanità, vuole gettare ogni cosa nel crogiuolo”. Non vuole perdere nulla del passato. Da qui la celebre frase di Nietzsche: “ciò che fu, io volli che fosse”. La riprenderemo tra poco. Perché l’uomo così com’è e com’è stato non è più sufficiente? Perché Nietzsche riconosce il momento storico in cui l’uomo si accinge ad accedere al dominio della terra nella sua totalità. Nietzsche è il primo pensatore che, nella prospettiva della storia universale quale si configura per la prima volta, pone la domanda decisiva e la pensa fino in fondo in tutta la sua portata metafisica. La domanda suona: l’uomo in quanto tale, nel suo essere quale si è determinato fino ad oggi, è preparato ad assumere il dominio della terra? Se non lo è, quali mutamenti deve subire, in modo che possa “assoggettare” la terra e così adempiere la parola di un antico Testamento? /…/ Una cosa dovremmo subito notare: questo pensiero, che è rivolto a pensare la figura di un maestro che insegna il superuomo, concerne noi, concerne l’Europa e la terra intera, non soltanto ancora oggi, ma soprattutto domani. La cosa sta così, e non importa che si accetti o si respinga questo pensiero, che lo si trascuri o che se ne costruiscano delle erronee imitazioni. Ogni pensiero essenziale fa la sua strada intatto attraverso tutti i suoi partigiani e i suoi oppositori. /…/ Resta da considerare, invero, se il domandare oltre il pensiero di Nietzsche possa essere uno sviluppo e una prosecuzione di tale pensiero, o non debba piuttosto risolversi in un passo indietro. Qui c’è un problema, e cioè il fatto che Heidegger non ha mai problematizzato la questione del linguaggio e, quindi, la volontà di potenza per lui rappresenta, dicendolo, un enigma. L’enigma è qualche cosa che interviene nel momento in cui non si hanno argomentazioni sufficientemente soddisfacenti per proseguire e, allora, interviene l’enigma. Il superuomo va oltre il tipo dell’uomo quale si è determinato fino ad oggi, e quindi è un passaggio. Per poter seguire, imparando, il maestro che insegna il superuomo, occorre – per rimanere nella metafora – che arriviamo al ponte. Possiamo pensare il passaggio in un modo relativamente completo se teniamo presenti tre cose: 1) Ciò da cui colui che passa si allontana. 2) Il passaggio stesso. 3) Il luogo dove va colui che passa. Questo terzo elemento è ciò a cui noi, e anzitutto colui che passa, e prima ancora il maestro che lo deve mostrare, dobbiamo guardare. Se manca la pre-visione del “verso-dove”, il passare oltre resta senza guida, e ciò da cui colui che passa deve staccarsi rimane nell’indeterminato. /…/ Per colui che passa, e ancor più per colui che, come maestro, deve mostrare il passaggio, cioè per Zarathustra stesso, il “verso-dove” rimane sempre in una lontananza. La lontananza rimane. In quanto rimane, essa rimane in una vicinanza, cioè in quella vicinanza che custodisce il lontano come lontano, perché pensa al lontano e si volge verso di esso. Tiene il lontano vicino, nel pensiero, lo pensa continuamente. La vicinanza rimemorante del lontano è ciò che la nostra lingua chiama Sehnsucht, nostalgia. Nella parola Sehnsucht noi vediamo erroneamente una connessione con il “cercare” e il “sentire un impulso”. Ma l’antica parola Sucht significa: malattia, sofferenza, dolore. La nostalgia è il dolore della vicinanza del lontano. Il luogo verso cui va colui che passa è quello a cui si volge la sua nostalgia. Colui che passa e già colui che lo mostra, il maestro, è come sappiamo, sulla via del ritorno alla sua essenza più propria. È il convalescente. Nella terza parte di Così parlò Zarathustra, al pezzo intitolato “Il convalescente” segue immediatamente il brano intitolato “Della grande nostalgia”. /…/ “Un divino soffrire è il contenuto della terza parte di Zarathustra”. Nel brano “Della grande nostalgia” Zarathustra parla con la propria anima. Secondo la dottrina di Platone, che è rimasta basilare per tutta la metafisica occidentale, nel dialogo dell’anima con se stessa risiede l’essenza del pensare. Il dialogo dell’anima con se stessa è il pensiero pensante, che pensa se stesso, secondo Gentile. …il parlante raccoglimento che l’anima stessa percorre nel suo cammino verso di sé, tutt’intorno alle cose che essa vede. Questo raccoglimento dell’anima, che si raccoglie per pensare se stessa. “Anima mia, io ti insegnai a dire “oggi” come se fosse “un giorno” e “un tempo” e a danzare al di sopra di ogni “qui” e “lì” la tua danza circolare. Le tre parole “oggi”, “un tempo” e “un giorno”, sono scritte maiuscole e poste tra virgolette. Il modo in cui Zarathustra le pronuncia indica ciò che, d’ora in poi, Zarathustra dovrà dire a se stesso nel fondo del suo essere. Che “un giorno” e “un tempo”, futuro e passato, sono come l’“oggi”. Ma l’oggi è dal canto suo come il passato e l’avvenire. Tutte e tre le fasi del tempo convergono come l’uguale verso l’uguale, in un unico presente, in un continuo “ora”. Il continuo “ora” la metafisica lo chiama eternità. /…/ Zarathustra, quando insegna questo detto alla sua anima, è il maestro dell’eterno ritorno dell’uguale. Questo ritorno è l’inesauribile pienezza della vita gioiosa e dolorosa. Ad essa è rivolta “la grande nostalgia” del maestro dell’eterno ritorno dell’uguale. Il passo successivo riguarda la vendetta. Qui, nel brano “Delle tarantole”, Nietzsche fa dire a Zarathustra: “Giacché: che l’uomo sia redento dalla vendetta – questo è per me il ponte verso la speranza suprema e un arcobaleno dopo lunghe tempeste”. La vendetta. Da dove arriva la vendetta? Lo dice a pag. 73. La vendetta non è qui una questione morale, e la redenzione dalla vendetta non è un compito proposto all’educazione morale. Né si può pensare che la vendetta e il desiderio di vendetta rimangano qui oggetti della psicologia. Nietzsche vede l’essenza e la portata della vendetta in termini metafisici. Ma che cosa significa, in generale, vendetta? Se ci atteniamo anzitutto, con la necessaria leggerezza di prospettiva, al significato letterale della parola, possiamo trovare in esso una indicazione. Rache (vendetta), rächen (vendicare), wreken, urgere significano: urtare, spingere, spingere innanzi, inseguire, dar la caccia a. In che senso la vendetta è un dar la caccia? Invero, essa non cerca semplicemente di catturare qualcosa e di prenderne possesso. E nemmeno cerca semplicemente di uccidere ciò di cui è in caccia. La caccia che conduce la vendetta è fin da principio un contrapporsi a ciò su cui vuole vendicarsi. Essa vi si contrappone in questo senso, che abbassa il suo opposto al fine di porsi, di fronte a ciò che è abbassato, in posizione di superiorità e di restaurare così il proprio valore, ritenuto l’unico valido. Questa è la vendetta. Se pensate al passato, si tratterebbe di togliere valore a questo passato e, quindi, acquisire io valore a fronte del passato. La sete di vendetta è infatti ispirata dal sentimento di chi è vinto e ha subito un danno. Negi anni in cui creava Così parlò Zarathustra, Nietzsche scrisse questa nota “Consiglierei a tutti i martiri di riflettere se non sia per caso la sete di vendetta che li ha spinti al passo estremo”. Questa fa da contraltare a quell’altra affermazione relativa al “porgi l’altra guancia”, come forma suprema di superiorità assoluta nei confronti dell’avversario. Che cos’è la vendetta? Possiamo ora dire provvisoriamente: la vendetta è quel dar la caccia che si contrappone e che abbassa il suo opposto. Dovete sempre avere presente, quando parliamo di Nietzsche, il funzionamento del linguaggio. Certo, Nietzsche non ne parla e neanche Heidegger, che forse avrebbe dovuto o potuto, chi lo sa? Che cos’è il suo opposto? Rispetto al mio dire è ciò che il mio dire dice; quindi, abbassarlo e rendermi padrone del τί rispetto al λέγειν τί, al ciò che il dire dice. Abbassarlo, quindi, togliergli valore e, quindi, dominarlo. Per arrivare a vedere la vendetta in questo modo, almeno in una certa misura, esaminiamo secondo quale impronta essenziale appare l’essere dell’essente entro la metafisica moderna. Questa impronta essenziale dell’essere si esprime in una forma classica attraverso poche frasi che Schelling ha scritto nel 1809 nelle sue Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana e gli oggetti che vi sono connessi. Le frasi suonano: “In ultima e suprema istanza, non c’è altro essere che il volere. Il volere è l’essere originario e solo a questo (il volere) si applicano tutti i predicati di quello (dell’essere originario): assenza di fondamento, eternità, indipendenza dal tempo, affermazione di sé. Tutta la filosofia è solo uno sforzo di trovare questa “espressione suprema”. /…/ Il fatto che qui, in generale, l’essere dell’essente appaia dovunque come volontà non dipende dalle opinioni che alcuni filosofi si sono fatte sull’essente. Che cosa questo apparire dell’essere come volontà davvero significhi, non è un problema che potremo mai risolvere con l’erudizione; questo significato lo si può scoprire solo in un pensare che domanda, lo si può apprezzare nella sua dignità di problema solo assumendolo come ciò che è da-pensare, custodendolo così, come il pensato, nella memoria. L’essere dell’essente appare nella metafisica occidentale, ed è da essa propriamente espresso, come volontà. Ora, l’uomo è uomo in quanto pensando si rapporta all’essente e così è tenuto nell’essere. L’essente ha sempre un essere, è qualcosa. Rapportandomi agli essenti, io sono già nell’essere, ho a che fare con l’essere continuamente. Ma, secondo la parola di Nietzsche, il pensiero di passato e di oggi è determinato dallo spirito di vendetta. La vendetta contro ciò cui la volontà di potenza non può nulla: il passato. Nella seconda parte di Così parlò Zarathustra, nel già menzionato brano “Della redenzione”, Nietzsche fa dire al suo Zarathustra: “Ma questo, soltanto questo, è la vendetta stessa: l’avversione della volontà contro il tempo e il suo “così fu””. Il fatto che una definizione dell’essenza della vendetta metta in evidenza in essa il suo carattere di contrarietà e di opposizione, e quindi ciò che in essa è avversione e voler-contro, corrisponde bene a quel peculiare dar la caccia che abbiamo prima indicato come caratteristico della vendetta. Ma Nietzsche non dice semplicemente che la vendetta è avversione. Questo è vero anche dell’odio. Nietzsche dice: la vendetta è avversione della volontà. Ma “volontà” è il termine che indica l’essente nella sua totalità, e non soltanto il volere dell’uomo. Nella caratterizzazione della vendetta come “avversione della volontà”, il suo dar la caccia che si oppone rimane fin da principio all’interno del rapporto all’essere dell’essente. Che la cosa stia così diviene chiaro se facciamo attenzione a ciò contro cui è diretta l’avversione della vendetta. La vendetta è “l’avversione della volontà contro il tempo e il suo “così fu””. Questo è il nucleo della questione. A una prima, e anche a una seconda e a una terza, lettura di questa definizione dell’essenza della volontà, sottolineata, tra la vendetta e il “tempo” non può che apparire sorprendente, incomprensibile e in definitiva arbitraria. Non può essere diversamente, se non si riflette più a fondo su quel che significa qui il termine “tempo”. Nietzsche dice: la vendetta è “l’avversione della volontà contro il tempo…”. Non dice contro qualcosa di temporale. E neppure: contro un particolare carattere del tempo. Dice semplicemente: “avversione contro il tempo”. È vero che immediatamente seguono le parole “contro il tempo e il suo “così fu””. Ciò però significa: la vendetta è l’avversione contro il “così fu” nel tempo. A pag. 76. La vendetta è l’avversione della volontà contro il tempo, e cioè contro il suo passare e il suo carattere di cosa passeggera. Questo è per la volontà qualcosa contro cui essa non può nulla, e contro cui il suo volere urta continuamente. Il tempo e il suo “così fu” è la pietra d’inciampo, che la volontà non può rovesciare. Il tempo come passare è l’avverso di cui la volontà soffre. /…/ L’avversione contro il tempo abbassa ciò che è passeggero. Il divenire. Ciò che è terreno, la terra e tutto quanto vi appartiene, è quello che propriamente non dovrebbe essere, e che fondamentalmente non possiede un autentico essere. Già Platone chiamava tutto ciò il μή ὅν, il non-essente. Il non-essente o non-ente è ciò che si oppone all’ente, ma è anche ciò che dà all’ente la sua enticità. Ma ciò che dà all’ente la sua enticità è l’essere, e allora questo non-ente di trova nella posizione di essere, di qualcosa che è. Vedete, in tutto ciò la necessità da parte di Nietzsche, ma anche del pensiero in generale, di affermare una cosa. Sappiamo che il dire è distinto da ciò che il dire dice. Posso controllare il dire? Intanto, per controllare il dire quanto meno devo sapere che cosa il dire dice; quindi, devo dire ciò che il mio dire non è per potere fermare il dire; ma, facendo questo, ho già trasformato il dire in un’altra cosa. Questa trasformazione del dire in un’altra cosa comporta una serie di problemi, ma in prima istanza il problema che non posso fermare il dire. Che cosa significa che non posso fermare il dire? Lo devo determinare, ma se lo determino non è più quello, non è più il mio dire; tuttavia, non posso non determinarlo, e allora lo determino. Naturalmente, determinandolo, lo determino come ciò che non è. Ma perché devo fare questo? È il linguaggio che mi costringe a farlo, perché se non lo determino non lo posso utilizzare. E perché lo voglio utilizzare? Per potere continuare a parlare, sennò cesso di parlare e questo al linguaggio non garba. Devo determinarlo per poterlo usare, devo poterlo usare per potere continuare a parlare. Ecco perché mi trovo sempre preso nella necessità di determinare, anche sapendo che posso determinare solo con l’indeterminato. Qual è l’idea di Nietzsche qui? È un’idea, certo, balzana, ma fino a un certo punto. L’idea è questa: questo divenire, che è il passare, che conduce al passato e che, quindi, condurrebbe a qualche cosa contro cui cozza la volontà di potenza, perché contro il passato non può fare niente, a meno che, come dicevo prima, questo passato non ritorni sempre, e allora è sempre un voluto. Questo è uno dei modi per intendere quella frase di Nietzsche, Ciò che fu, io volli che fosse, ma c’è anche un altro modo più interessante, che è quello che accoglie la responsabilità di tutto ciò che ho fatto, ma qui Heidegger non ne parla, Nietzsche meno che mai. Qual è il problema, che qui Heidegger coglie subito: l’idea di Nietzsche è quella di trasformare il divenire, il passare, nell’essere, in qualche cosa di stabile, fermo, sicuro. Ma questa, si chiede giustamente Heidegger, non è il colmo della volontà di potenza, fermare anche il passato, dominare anche il passato? È il colmo della volontà di potenza. Quindi, dice Heidegger, questo potrebbe portarci a confutare il pensiero di Nietzsche, nel senso che, sì, tu vuoi occupare anche questo spazio che è negato alla volontà di potenza, ma come lo fai? Trasformando il passato in qualche cosa di dominabile, cioè, sottoponendolo alla volontà. Però, in questo modo lo fai diventare qualche cosa che è immobilizzato, fermo. Perché è fermo, immobilizzato? Perché altrimenti non posso utilizzarlo. Non posso rivolerlo se non so che cos’è, devo sapere che cos’è, sapendo che cos’è l’ho determinato, l’ho bloccato in un significato. A pag. 79. Appena poniamo questa domanda, nasce subito l’impressione che noi si voglia attribuire a Nietzsche, come il suo pensiero più proprio e caratteristico, proprio ciò che egli vuole superare, e che si nutra l’opinione che mediante tale attribuzione il pensiero di questo pensatore risulti confutato. Cioè, lui stesso ha fatto quello che vuole combattere. Ma qual è la questione, che Nietzsche chiaramente non poteva affrontare, Heidegger probabilmente sì, ma comunque non lo ha fatto? Nietzsche con questa modalità vorrebbe superare la metafisica, il pensare metafisico. Il pensare metafisico è quello che stabilisce come stanno le cose, è quello che separa una cosa dall’altra. Quindi, recuperando il passato come qualcosa che io ho voluto, questo passato non avrebbe più, almeno apparentemente, il carattere di qualcosa di separato da me sul quale non ho più il controllo, ma continuo a controllarlo perché lo voglio continuamente. Questa separazione della metafisica e di ciò che non sarebbe metafisica… Per Heidegger la posizione di Nietzsche è metafisica, perché sovverte la cosa ma rimanendo nell’ambito metafisico. Ma la questione è che la metafisica non deve essere superata, nel senso di abbandonata, la metafisica fa parte del linguaggio, la metafisica è quella cosa che mi dice che dicendo una certa cosa, quella cosa è quella: se dico Cesare è quella e non un’altra, cioè, è separata da ciò che Cesare non è. La tengo apparentemente separata, per poterla usare, perché se non compio questa operazione io non posso usare la parola Cesare. Quindi, non si tratta di un superamento della metafisica, si tratta di rimettere la metafisica al suo posto, come l’in sé e il per sé. Qui le indicazioni di Hegel sono fondamentali; eppure, non vengono mai tenute in conto, perché non si tratta di tenere separate le cose… Questa è la metafisica, la volontà di tenere separate le cose; ricordate Platone: l’uno e i molti, il buono e i cattivi, separati. Questo non supera mai la metafisica perché questa è la metafisica. Ma se poniamo la metafisica come l’in sé e nel per sé troviamo il rilancio della metafisica, ciò che è necessario alla metafisica per esistere. Perché se la metafisica è, in effetti, questa separazione, occorre che esistano i due termini della separazione, che la metafisica tiene separati. Invece, noi li uniamo, come voleva Hegel, tramite l’Aufhebung, e allora la metafisica non è più qualche cosa da separare, ma è semplicemente una delle condizioni per il funzionamento del linguaggio. Per dire Cesare ho bisogno di determinarlo, sì, certo, metafisicamente, perché devo escludere che Cesare sia miliardi di altre cose. Per fare questo devo utilizzare la metafisica, perché fa parte del linguaggio. Che cosa fa, invece, la volontà di potenza? Qui arriviamo alla questione che a noi interessa. La volontà di potenza è la volontà di immaginare che Cesare sia quello che sia, bloccando ciò che Cesare è, cioè le sue determinazioni, una o qualche determinazione, cioè, impedendo che il significato sia l’ἀπείρων, l’indeterminato. E, allora, posso pensare che Cesare sia quella cosa lì che io voglio che sia. Si utilizza lo stesso procedimento che si utilizza comunque parlando: per indicare Cesare devo utilizzare la metafisica, cioè, devo escludere che Cesare sia tutte le altre cose che non è. Ma questa operazione viene fatta all’interno del funzionamento del linguaggio, perché io so che sto facendo come se… Il come se… è l’analogia: l’analogia è un “come se”. Nell’analogia il primo rapporto rispetto al secondo rapporto, (A:B=C:D): il secondo è come se fosse il primo, è un come se… Tutto il parlare degli umani è sempre necessariamente e ininterrottamente un “come se”, facciamo “come se” Dicendo Cesare ovviamente utilizzo una formulazione metafisica perché lo individuo, lo determino, come se fosse determinato nel modo che io credo che sia, che io voglio che sia. Questo è il pesare comune, la differenza sta nel sapere una cosa del genere oppure no. Non c’è un’altra differenza, entrambi pensano metafisicamente quando si riferiscono a Cesare: lo determinano e, determinandolo, compiono un’operazione metafisica, cioè lo separano da ciò che Cesare non è. Ma sappiamo che Cesare non è separabile da ciò che Cesare non è, perché se togliamo ciò Cesare non è, scompare anche Cesare; ma per poterne parlare devo fare questo, sennò non parlo. Come dicevo prima, posso saperlo oppure no, posso sapere che ogni volta che parlo dico delle cose come se fossero, penso, voglio o spero che siano, ma sapendo che non è così; oppure, non lo so, e allora ecco che Cesare diventa quello che io credo che sia e il discorso è finito. Il “come se” è ciò che veicola ininterrottamente tutto il parlare degli umani, che poi è l’analogia, che è il fondamento di tutto, è la chiacchiera, quello che i più credono essere vero, come diceva Aristotele. A questo punto della lettura interviene la questione dell’enigma. A pag. 80. La metafisica sussiste allora anche quando la gerarchia platonica tra soprasensibile e sensibile viene rovesciata, e il sensibile viene esperimentato in un modo più essenziale e più ampio, in un senso che Nietzsche indica con il nome di Dioniso. Le due figure classiche della grecità: Apollo, l’apollineo, il fermo, il solare, tranquillo; Dioniso è tutto il contrario, è l’ebbrezza, è la hybris, la sfrenatezza. Giacché la pienezza verso cui si volge “la grande nostalgia” di Zarathustra è l’inesauribile permanenza del divenire, nella cui forma la volontà di potenza vuole se stessa nell’eterno ritorno dell’uguale. Questo è il modo con cui Nietzsche recupera il divenire, anzi, lo stabilisce. Ci sarebbe da fare tutto un discorso rispetto alla posizione di Severino circa il divenire. Lui utilizza questa posizione di Nietzsche nello Zarathustra per confermare la sua tesi, e cioè che non c’è nessun divenire. Il divenire in Platone ha un nome, che in greco si chiama epanfoterizein, l’oscillare tra essere e il non-essere, tra l’uscire dal nulla e tornare nel nulla: questo è il senso dell’ἐπαμφοτερίζειν di Platone. Questa è l’evidenza; infatti, tutti vediamo, basta che io muova un dito e già le cose cambiano, è un divenire anche quello, ma, dice Severino, questa evidenza è la follia, perché se affermo che le cose escono dal nulla e tornano nel nulla, vuol dire che l’essere è nulla, nel senso che viene dal nulla, si produce dal nulla. È come se mantenesse la sua origine. Che poi, come potrebbe l’essere provenire dal nulla? Attraverso un processo di creazione, cioè di Dio. A pag. 81. “Eterno ritorno dell’uguale” è il termine che indica l’essere dell’essente. “Superuomo” è il termine che indica l’essenza dell’uomo che corrisponde a tale essere. Ma perché dice “Eterno ritorno dell’uguale” è il termine che indica l’essere dell’essente? L’eterno ritorno dell’uguale è la volontà di potenza. È la volontà di potenza che imprime al divenire, in questo caso al passato, il suo statuto di essere. E, quindi, ogni essente ha come essere, ciò che lo fa essere un essente, la volontà di potenza. E su questo non aveva neanche torto; in effetti, qualunque ente è quello che è in virtù della volontà di potenza. È la volontà di potenza che muove il pensiero, è la volontà di potenza che dice che cos’è una certa cosa. Volontà di potenza, cioè, volontà di trasformare qualunque cosa in un utilizzabile, per potere continuare a parlare. A pag. 82. Nietzsche stesso sapeva che il suo “pensiero più abissale” (l’eterno ritorno dell’uguale) rimane un enigma. È dunque tanto più impensabile, per noi, credere di poter risolvere l’enigma. L’oscurità di questo pensiero estremo della metafisica occidentale non deve indurci a schivarlo con delle scappatoie. Di scappatoie, fondamentalmente, ce ne sono solo due. Si può in primo luogo dire che quest’idea di Nietzsche è una specie di “mistica”, e che perciò non è di competenza del pensiero. Oppure si può dire: quest’idea è vecchia come il mondo. Essa si riduce all’antichissima rappresentazione ciclica della storia del mondo. Nell’ambito della filosofia occidentale, la si può rintracciare per la prima volta in Eraclito. Questa seconda scappatoia, come tutte quelle del suo genere, non dice assolutamente nulla. A che cosa può servirci il fatto di stabilire, a proposito di una certa idea, che essa si trova “già” per esempio in Leibniz o in Platone? Che significato ha questa informazione, se essa lascia ciò che hanno pensato Leibniz e Platone nella stessa oscurità in cui rimane l’idea che si pretenderebbe di chiarire attraverso questi riferimenti storiografici? Tuttavia, per ciò che riguarda la prima delle due scappatoie, quella secondo cui l’idea nietzscheana dell’eterno ritorno dell’uguale sarebbe una sorta di fantasia mistica, proprio l’epoca attuale dovrebbe insegnarci una cosa diversa; a condizione di ammettere però che il pensiero ha il compito di portare in luce l’essenza della tecnica moderna. Che cos’è l’essenza del moderno motore, se non una configurazione dell’eterno ritorno dell’uguale. Ma l’essenza di questa macchina motrice non è nulla di macchinale e tanto meno qualcosa di meccanico. Altrettanto impossibile è interpretare l’idea nietzscheana dell’eterno ritorno dell’uguale in un senso meccanico. Che Nietzsche interpreti ed esperimenti il suo pensiero più abissale in termini dionisiaci attesta soltanto che egli poteva pensarlo ancora solo metafisicamente e in nessun altro modo. Ma non dice nulla contro il fatto che questo pensiero più abissale nasconda qualcosa di non pensato, che nello stesso tempo rimane impenetrabile al pensiero metafisico. Che cosa rimane non pensato nella metafisica? L’ho detto prima: la metafisica non è altro che un momento di due momenti che sono lo stesso, come l’in sé e il per sé. Questa idea di Hegel non è mai stata considerata veramente appieno; perché se lo fosse stata allora anche queste questioni sarebbero state risolte con una certa facilità. La metafisica non si può superare, la metafisica non è altro che l’idea che si possa determinare qualcosa attraverso l’indeterminato; quindi, tenere separato ciò che determino da ciò che non è determinato. Così come tengo separato Cesare da ciò che Cesare non è, ma sappiamo che ciò che senza il Cesare non è, neanche Cesare esisterebbe. Quindi, non li posso tenere separati. Ecco perché la metafisica cede a un certo punto, perché la metafisica è questo: il volere tenere separato ciò che è determinato da ciò che non è determinato, dall’indeterminabile. Qui c’è tra l’altro un riferimento interessante alla questione della tecnica. La tecnica come eterno ritorno dell’uguale, come fantasia. Innanzitutto, un altro inciso. Che cos’è che ritorna sempre? Che cos’è che non è mai andato via, per cui ritorna continuamente? È il linguaggio, naturalmente. Non c’è altro. È solo il linguaggio che è sempre stato lì e che sempre ritorna, incessantemente. Il tentativo della metafisica è quello di controllare questa oscillazione tra l’essere e il non-essere, l’ἐπαμφοτερίζειν di cui vi dicevo, di dominarlo, di gestirlo, di controllarlo, in modo da impadronirsi di tutto, in definitiva. Ciò che fa la tecnica è un riprodurre continuamente sempre lo stesso, in fondo. La tecnica non produce nulla di nuovo in quanto tale, è un continuo riproporre sempre un qualche cosa di utilizzabile. È questo che si ripete all’infinito: la produzione di utilizzabili. Ogni volta che produce qualcosa, questo qualcosa deve essere un utilizzabile. Abbiamo saltato un po’ di cose, ma l’essenziale era questo. Un’altra cosa a pag. 79. “Imprimere al divenire il carattere dell’essere – questa è la suprema volontà di potenza”. Dell’essere, cioè, dell’immutabile; quindi, avere un controllo sul divenire. Nietzsche non vuole togliere il divenire, vuole controllarlo. La suprema volontà di potenza, cioè quanto vi è di più vivo in ogni vita, è rappresentare il passare come divenire permanente nell’eterno ritorno dell’uguale, rendendolo così stabile e costante. Il divenire che diventa stabile e costante, quindi, dominabile: questa è l’estrema volontà di potenza, lo dice anche Heidegger. Però, possiamo intendere la volontà di potenza in modo più interessante, come abbiamo fatto, e cioè come la volontà di determinare il λέγειν rendendo determinato il τί. Il τί sarebbe l’ἀπείρων, l’indeterminato per definizione, perché è l’infinito. Come dire che l’idea, la fantasia è quella di determinare il finito, certo, attraverso l’infinito, ma determinando anche l’infinito, che diventa così un altro finito. È questo che è sempre un “come se”: utilizzo l’infinito come se fosse finito. Ma non posso che utilizzarlo in questo modo e, come dicevo prima, posso saperlo oppure no. Se non lo so allora credo che sia così, credo che il significato sia proprio quello e nessun altro; se no, lo determino sempre alla stessa maniera, però so che questa determinazione non è nient’altro che un “come se”, non un “è così”, è soltanto un “come se”. Tutto il dire degli umani è un continuo e incessante, interminabile “come se”, non è mai “è così”. Per potere pensare che “è così” occorre che il τί diventi determinato. Il problema è che se così fosse questo τί determinato non è più ciò che fa esistere il λέγειν. Cesare e tutto ciò che Cesare non è: in pochi passaggi, accade che, se voglio eliminare tutto ciò che Cesare non è, elimino anche Cesare. Di fatto, eliminando l’indeterminato elimino anche il determinato.