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29 maggio 2019

 

Fenomenologia dello spirito di G.W.F. Hegel.

 

Siamo a pag. 28, Capitolo III. L’immediato sapere determinato dello spirito, la coscienza… La coscienza come l’immediato essere determinato dello spirito. Io ho coscienza quando qualche cosa mi si determina. …ha i due momenti del sapere e dell’oggettività negativa del sapere. Che è un altro modo per dire che c’è il sapere e il sapere che si rivolge all’oggettività negativa, cioè al suo negativo, a ciò che non è, per tornare al sapere. Mentre in questo elemento si sviluppa lo spirito ed ostende i suoi momenti, ecco che a loro sopravviene quella opposizione, ed essi compaiono tutti quanti come figure della coscienza. La scienza di questo itinerario è scienza dell’esperienza che la coscienza fa… La scienza dell’esperienza è questo movimento che va dal sapere all’oggettività e che dall’oggettività ritorna in sé. …la sostanza, insieme col suo movimento, vien considerata oggetto della coscienza. La sostanza non è una cosa, ci sta dicendo, ma è l’oggetto della coscienza. È un primo modo per intendere una questione importante in Hegel. Non che Hegel negasse la realtà delle cose, ma sicuramente ha avvertito che quella cosa, che chiamiamo realtà, di fatto appartiene alla coscienza, non c’è una realtà fuori dalla coscienza. Essa non sa né comprende se non ciò che è nella sua esperienza; infatti ciò che è nell’esperienza è solo la sua sostanza spirituale, e invero come oggetto del suo Sé. Ma lo spirito diviene oggetto, poiché è questo movimento: divenire a sé un altro, ossia oggetto del suo Sé, e togliere questo esser-altro.  Per riprendere i suoi termini, questo in sé estroflettendosi si fa oggetto, oggetto a se stesso, quindi, altro da sé. È come se in questo movimento l’in sé diventasse l’oggetto di se stesso. Ed esperienza vien detto appunto quel movimento dove l’immediato, il non sperimentato, cioè l’astratto, appartenga all’essere sensibile o al semplice solo pensato, si viene alienando, e poi da questa alienazione torna a se stesso; così soltanto ora, dacché è anche proprietà della coscienza, l’immediato è presentato nella sua effettualità e verità. L’immediato, da sé, non è nulla se non c’è questo movimento, se non torna a se stesso, se non torna a se stesso come concetto, quindi, come esperienza. Infatti, il suo titolo è La scienza della esperienza della coscienza: per avere esperienza di qualche cosa occorre che io concettualizzi qualche cosa. Per concettualizzare occorre che questo immediato sia un qualche cosa, ma perché possa essere un qualche cosa deve uscire da sé e tornare su di sé in quanto concetto. L’ineguaglianza che nella coscienza ha luogo tra l’Io e la sostanza che ne è l’oggetto… Cioè, fra l’Io e quella sostanza, che sappiamo essere lo spirito. Quindi, c’è l’Io e poi l’oggetto rispetto all’Io, il non-Io. Si mantiene sempre, e non può mai non esserci per Hegel, questa disuguaglianza tra ciò che si pone e ciò che è il ciò che si pone in una sua riflessione. Riflessione che possiamo anche intendere nella sua accezione più comune, cioè come un ripensamento, un riflettere sulla cosa; non soltanto come il riflettersi di qualcosa su se stesso, ma anche il pensarci, vale a dire, concettualizzare, trasformare in concetto, trasformare, quindi, in esperienza. Questa ineguaglianza è la loro differenza fra l’Io e il suo oggetto, che non è altro che l’Io reso oggetto e che poi torna sull’Io, che sarebbe il negativo in generale. Il negativo può venir riguardato come la manchevolezza di entrambi;… Cioè: entrambi, sia l’Io che l’oggetto, sono di per sé manchevoli, è soltanto la relazione tra i due che li rende il concreto, un’unità. …ma è la loro anima, o ciò che li muove entrambi; ragion per cui alcuni antichi ebbero a concepire il vuoto come motore, concependo sì il motore come il negativo, ma questo non ancora come il Sé. Come invece l’ha concepito lui. Quindi, questo vuoto, questa assenza di unità fra i due elementi… perché, in effetti, questi due elementi - lui ha detto bene parlandone in termini di manchevolezza – mancano. Se uno dovesse prenderli, come si è fatto sino a Kant, come il vero e il falso, il vero qui e il falso di là, ecco, in questo senso sia l’uno che l’altro sono manchevoli. Questa relazione tra i due è la loro anima, è ciò che li rende vivi, è ciò che li rende quello che sono. Ora, se da prima questo negativo appare come ineguaglianza dell’Io verso l’oggetto… L’Io verso l’oggetto: quindi, si nega in quanto Io per farsi oggetto per poi ritornare su di sé. …esso è pure l’ineguaglianza della sostanza verso se stessa. L’ineguaglianza del pensiero che si estroflette e che torna come pensato. Ciò che sembra prodursi fuori di lei, ed essere un’attività contro di lei, è il suo proprio operare, ed essa mostra di essere essenzialmente Soggetto. Cioè: colui che agisce. Potremmo dire che è l’agire stesso del linguaggio, è il linguaggio che

agisce in questo modo: dico qualche cosa, questo qualche cosa, per essere un qualche cosa, si estroflette sul suo significato; una volta che è giunto al suo significato ritorna e diventa quello che è, cioè, quello che intendevo dire. Avendo la sostanza ciò mostrato compiutamente, lo spirito ha reso uguale alla propria essenza il proprio essere determinato;… L’essenza dell’idea è un qualche cosa che non è ancora determinato, è un’idea vaga. Una volta che viene determinata, è come se, dice bene qua, ha reso uguale alla propria essenza il proprio essere determinato. Qui, in queste poche parole, dice tutto, perché l’idea, un qualche cosa di indeterminato, è quella che è solo se può essere determinata; una volta determinata, diventa davvero un’idea, quella idea. È sempre il movimento di cui stiamo parlando: un qualche cosa di indeterminato, un qualche cosa che dico, diventa quello che è soltanto se lo determino, se lo concettualizzo, se lo penso, cioè, se ritorna dall’in sé al per sé; soltanto in questo movimento diventa il Sé, diventa se stesso. …lo spirito è allora termine oggettivo di se stesso, proprio come esso è; e l’astratto elemento dell’immediatezza e della separazione del sapere e della verità è sorpassato. Lo spirito, l’idea, è termine oggettivo di se stesso, cioè fa di se stesso il proprio oggetto, in quanto l’idea non è più un’idea indeterminata ma diventa il pensiero dell’idea. L’astratto elemento dell’immediatezza: ciò che appare nell’immediato che ancora non è stato posto come un per sé. … e della separazione del sapere e della verità è sorpassato: comunemente prima di Hegel si è sempre pensato che l’elemento astratto immediato fosse un elemento separato – questa cosa è vera e la sua negazione è falsa. Quindi, questa separazione del sapere dalla verità, dice Hegel, è sorpassata, non c’è più questa separazione del sapere dalla verità, perché questa separazione comporta il mantenere questi elementi in quanto astratti – la verità è tenuta ben salda lontana dal falso – mentre sorpassare questa posizione è ciò che consente di cogliere il movimento, potremmo dire, del linguaggio mentre si fa, mentre si dice. Hegel ci sta spiegando, ovviamente a modo suo, che cosa succede mentre si parla, che cosa succede mentre qualche cosa si dice, ma perché possa essere un qualche cosa – perché se dico dico qualche cosa – deve estroflettersi e tornare su di sé in quanto qualche cosa. È la stessa cosa che poneva Peirce, la A è B: la A deve estroflettersi sulla B per essere A, sennò non è niente, è la B che dice che cos’è la A; ma questa B, se non ci fosse stata la A, non sarebbe mai esistita, così come la A non sarebbe mai esistita senza la B. Quindi, vedete come ciascuno rimane quello che è, la A rimane la A e la B rimane la B, non c’è mai la fusione tra i due; come dire, per usare le parole di Hegel, sono delle figure, e rimangono delle figure, ciascuna con la sua caratteristica – la A non scompare mai nella B - ma anche momenti della relazione, momenti che appartengono a un intero. L’essere è assolutamente mediato… Quando parla di mediazione parla della coscienza, è la coscienza che media. …è sostanziale contenuto che altrettanto immediatamente è proprietà dell’Io; è, a sua volta, un Sé, ovverossia è il concetto. Quindi, ci sta dicendo, l’essere è una proprietà dell’Io. L’essere non è più qualche cosa che è fuori dell’Io, ma l’essere a sua volta un Sé, ovverossia è il concetto. Vedete qui come si pone la questione dell’oggetto. L’oggetto non è qualche cosa che è fuori di me, non è propriamente il non-Io, nell’accezione fichtiana del termine, cioè un qualche cosa che è separato da me; no, l’oggetto non è altro che l’Io che si estroflette. Verrebbe da dire che si estroflette sull’oggetto ma, a questo punto, non è neanche corretto; è l’Io che estroflettendosi diventa oggetto e retroflettendosi fa dell’Io quello che è, cioè un Io cosciente. Senza questa estroflessione e retroflessione l’Io non avrebbe possibilità di coscienza, non avrebbe la possibilità di sapere. Infatti, tutta la Fenomenologia dello spirito non è altro che un modo per intendere come funziona il sapere, come accade che si sappia qualche cosa, e lui ce lo sta spiegando in questo modo. Il loro movimento che in tale elemento si organizza in un intiero, è la logica o filosofia speculativa. La filosofia speculativa non è altro che l’organizzarsi dei vari momenti nell’intero, quando cioè cessano di essere astratti e vengono colti come l’intero, come il movimento intero. Questo movimento intero, colto nella sua totalità, è quello che poi diventerà il Sapere Assoluto, quando cioè tutto è saputo. Il tutto saputo però non comporta la fine per Hegel, assolutamente no; è un punto ideale, certo, dove tutto è saputo, ma è il momento dell’avvio per un modo di pensare diverso. Certo, potremmo anche dire in termini linguistici, ponendo la questione in modo più semplice: questo sapere tutto non è altro che il concreto, cioè il linguaggio. Quindi, nel momento in cui il linguaggio si svolge, si articola, ci sono dei momenti che corrispondono a un sapere che ogni volta è particolare ma sempre debitore di un sapere totale. Il linguaggio è il concreto in quanto ogni volta che apro bocca il linguaggio è lì tutto, che io lo sappia oppure no, ma è lì tutto, perché se non fosse così io non potrei parlare. Ecco, quindi, che ogni volta questo sapere assoluto appare; per Hegel invece occorre attendere, così come per Severino. Anche per Gentile: ogni atto comporta un sapere assoluto, ogni atto giunge a un sapere assoluto, lo mette in atto, perché se non fosse così non ci sarebbe un atto e non ci sarebbe un altro atto dopo di lui. Poiché dunque quel sistema dell’esperienza dello spirito ne comprende soltanto l’apparire… L’esperienza dello spirito: ciò che lo spirito esperisce, è l’apparire di qualche cosa. … il processo che conduce da esso alla scienza del vero che è nella forma del vero, sembra meramente negativo;… Cioè: questo processo deve passare dal negativo, da ciò che quella cosa che io esperisco non è. …e potrebbe darsi che si volesse evitare di avere a che fare con il negativo (inteso) come il falso, e si pretendesse di venir condotti senz’altro alla verità; a che impacciarsi del falso? Perché dobbiamo star lì a perder tempo? Se è falso è falso. Sopra si è fatto cenno di quel modo che vorrebbe cominciare subito con la scienza; a ciò si conviene ora rispondere più particolarmente, mostrando quale sia la natura del negativo (inteso) come il falso. Le rappresentazioni che si hanno circa questo punto costituiscono il principale impedimento a penetrare nella verità. Sta dicendo che eliminare il falso è il più grande impedimento al conoscere la verità. Ciò offrirà l’occasione di parlare della conoscenza matematica che il sapere afilosofico considera come l’ideale che la filosofia dovrebbe cercare di raggiungere, senza esservi per altro riuscita, nonostante ogni tentativo. Il vero e il falso appartengono a quei pensieri determinati che, privi di movimento… Questo è importante per Hegel: il vero e il falso sono fissi, non c’è nessun movimento fra di loro. …vorrebbero valere come particolari essenze delle quali l’una sta di qua, l’altra di là rigidamente isolate e senza reciproca comunanza. … C’è un falso, quanto poco c’è un cattivo. Il falso in assoluto, così come il cattivo in assoluto. Falso e cattivo non son mica perfidi come il diavolo, tant’è vero che, volendoli prendere per diavoli, di essi si verrebbe a fare dei soggetti particolari; mentre essi, in quanto falso e cattivo, sono soltanto degli universali pur avendo, l’uno rispetto all’altro, una propria natura. Il falso (ché solo di esso qui si vuol parlare) sarebbe l’altro, il negativo della sostanza, la quale, in quanto contenuto del sapere, è il vero. Questo è il modo di pensare comune, ancora oggi, peraltro. Ma la sostanza stessa è essenzialmente il negativo, vuoi come semplice distinguere, ossia come Sé e sapere in genere. La sostanza, che non è altro che il contenuto dell’idea, è già essa stessa il negativo, perché per avere un contenuto questa idea deve spostarsi su un’altra cosa, e cioè sul suo contenuto, per esempio. Il Sé è già la negatività della sostanza; se la sostanza non fosse negativa a se stessa non ci sarebbe stato il movimento verso un’altra cosa. Se il vero e il falso sono fissi, immobili, identici a sé, che movimento c’è? Una volta stabilito questo abbiamo chiuso il discorso, non si va più da nessuna parte. Si può ben sapere falsamente. Alcunché vien saputo falsamente, significa: il sapere è in ineguaglianza con la sua sostanza. Ma proprio tale ineguaglianza è il distinguere in generale, che è momento essenziale. Cosa vuol dire che il sapere è in ineguaglianza con la sua sostanza? Qual è la sostanza del sapere? Non è altro che l’idea, il concetto che io mi faccio di qualche cosa; ma per farmi questo concetto già sono preso in una ineguaglianza tra quello che ho detto e il concetto di ciò che ho detto, cioè il suo significato. Quindi, questa ineguaglianza è già presente, è già lì, ogni volta che si parla. Poco più avanti. Nell’espressione: in ogni falso c’è qualcosa di vero, quei due termini vengono presi come l’olio e l’acqua che, senza mescolarsi, si trovano insieme solo esteriormente. Proprio per riguardo al significato, proprio per indicare il momento del completo esser-altro, le espressioni dell’ineguaglianza non devono venir più usate non appena il suo esser-altro sia tolto. Qui c’è Severino. Rileggo: le espressioni dell’ineguaglianza non devono venir più usate non appena il suo esser-altro sia tolto. L’ineguaglianza tra l’immediato apparire e il concetto: questa ineguaglianza scompare; se dovesse rimanere l’ineguaglianza è come se dovessero rimanere separati, usando i termini di Severino. Questo suo essere-altro viene tolto, quindi, non c’è più ineguaglianza e diventa il concreto, perché questo suo essere-altro viene superato. La cosa più semplice da pensare è l’in sé che estroflettendosi diventa per sé e poi ritorna all’in sé. Quindi, questa ineguaglianza tra l’in sé e il per sé scompare nel momento in cui si ritorna all’in sé, cioè si giunge al concreto: non c’è più nessuna ineguaglianza, nessuna separazione; questa separazione, questa ineguaglianza, viene tolta. Così le espressioni: unità di soggetto e oggetto, di finito e di infinito, di essere e di penare, ecc., hanno l’inconveniente che i termini soggetto, oggetto, ecc., significano ciò che essi sono al di fuori della loro unità; e nell’unità, quindi, non sono da intendersi così, come suona la loro espressione: altrettanto il falso, non più come falso, è un momento della verità. Tutte queste dicotomie, queste separazioni, scompaiono nell’Aufhebung, nel superamento; non c’è più la distinzione, questi elementi non sono più distinti. Come faceva anche Peirce: nel momento in cui A e B sono in relazione tra loro, non sono più separati né separabili, diventano un’unità, unità che è fatta della relazione di questi due elementi, che rimangono figure ma momenti di questa unità, di questo concreto. Il pensiero dogmatico nel campo del sapere e nello studio della filosofia non è altro che l’opinione, secondo la quale il vero consiste in una proposizione che è un resultato fisso… Ci sta dicendo che il vero non è una proposizione, non è un’asserzione – questo è il vero, A è B. …o in una proposizione che viene saputa immediatamente. A questioni come le seguenti: quando sia nato Cesare, quante tese facciano uno stadio, e quale stadio, ecc., si deve dare una risposta netta; proprio come è esattamente vero che nel triangolo rettangolo il quadrato dell’ipotenusa è eguale alla somma dei quadrati dei cateti. Ma la natura di una tale così detta verità è diversa dalla natura di verità filosofiche. Questo perché certe verità si attengono a un certo gioco; la verità filosofica, così come la pensa Hegel, si interroga sulle condizioni di questi giochi, della matematica, della geometria o di qualunque altro gioco; vale a dire, a quali condizioni io posso costruire un gioco? È questo che fa la filosofia. Al punto 42. Quanto alle verità matematiche, verrebbe ancor meno ritenuto geometra colui che sappia a memoria i teoremi di Euclide estrinseca-mente, senza sapere la loro dimostrazione, senza saperli, per esprimerci per contrasto, intrinseca-mente. Nello stesso modo, potrebbe ritenersi come insoddisfacente la cognizione, acquistata misurando parecchi triangoli rettangoli, che i loro lati stanno nel noto reciproco rapporto. Tuttavia, anche nella conoscenza matematica, l’essenza della dimostrazione non ha ancora il significato e la natura di essere momento del resultato stesso;… Nella matematica tutti i procedimenti che portano al risultato non contano niente, conta solo il risultato. Che è esattamente di ciò che pensa Hegel rispetto alla filosofia. Quando parla di filosofia intende il pensare, il pensare autentico, direbbe Heidegger. In quanto resultato, il teorema si considera bensì come un teorema vero. Ma questa sopraggiunta circostanza non riguarda il suo contenuto, sì bene soltanto la sua relazione al soggetto: il movimento della dimostrazione matematica non appartiene all’oggetto, ma è un operare esteriore alla cosa. Questo è importante. La dimostrazione non appartiene all’oggetto, la dimostrazione non dice che cosa appartiene a quell’oggetto, non ci dice nulla dell’oggetto in quanto tale. Questa dimostrazione è un operare esterno alla cosa, all’oggetto che vuole dimostrare; non c’entra nulla con l’oggetto, è un gioco che si fa. Come diceva Wittgenstein: una volta che ho fatto la mia dimostrazione sono stato bravo ad applicare tutte le regolette, niente più di questo. Poco più avanti. Ma la conoscenza filosofica, in primo luogo, contiene entrambi i tipi del divenire, mentre la conoscenza matematica presenta nel conoscere come tale soltanto il divenire dell’esserci… Il divenire dell’esserci: il divenire di ciò che è presente, qui e adesso. …ovverossia il divenire dell’essere della natura della cosa. In secondo luogo quella unifica anche entrambi questi movimenti particolari. La nascita interna o il divenire della sostanza è un passare, senza soluzione, nell’esteriorità e nell’esserci; è un essere per altro; e, viceversa, il divenire dell’esserci è il restituirsi all’essenza. La nascita interna, cioè il conoscere qualche cosa, il sapere qualche cosa, o il divenire della sostanza, cioè il farsi sostanza, è un passare in questo movimento continuo, senza soluzione, nell’esteriorità e nell’esserci. Questa conoscenza che passa dall’immediato al mediato, come direbbe Severino; solo che per Hegel torna a ciò che è immediato facendolo diventare altro: solo a questo punto è immediato. il movimento è così il duplice processo e divenire dell’intiero… Quindi, il movimento è questo duplice processo, di andata e ritorno, e divenire dell’intero: diviene perché diviene un’altra cosa, perché non è più questi due elementi, è un’altra cosa, è la relazione tra questi due elementi, è il superamento di questi due elementi per un’altra cosa; quest’altra cosa è la relazione tra questi due elementi che, una volta in relazione, non sono più gli stessi di prima. …vale a dire, ciascun momento pone l’altro momento e ciascuno ha poi in sé entrambi i momenti come due aspetti. Essi, presi insieme, costituiscono l’intiero in quanto dissolvono se stessi e si fanno momenti suoi. Che è esattamente quello che dicevo: si dissolvono in quanto se stessi in questa relazione, non sono più gli stessi, diventano un’altra cosa, si fanno momenti di questa relazione; rimangono anche come figure, rimangono quello che sono, ma si fanno momenti della relazione, che è l’intero. Nel conoscere matematico la considerazione è un operare che, per la cosa, viene da fuori; ne segue quindi che la cosa vera viene alterata. Sta dicendo che considero gli elementi in quanto astratti. Quindi, la cosa vera, che è vera all’interno del concreto, quindi del tutto del movimento, viene alterata, non è più vera. È esattamente l’opposto di ciò che si pensa comunemente, cioè che l’astratto sia la cosa considerata per se stessa conduca al vero, considerata astrattamente; mentre lui sta dicendo che no, se la considero astrattamente questo porta al falso; soltanto se la inserisco nell’intero allora colgo il vero. Ricordate “questa lampada che è sul tavolo”: il vero è “questa lampada che è sul tavolo”, che non è una lampada, perché se io comincio a pensare alla lampada già la astraggo. È “questa lampada che è sul tavolo”, una proposizione che inserisce la lampada all’interno di un intero, di un mondo. Se io astraggo la lampada dal mondo, questa lampada non è più quella lampada di cui parlavo dicendo “questa lampada che è sul tavolo”. Punto 44. Ma la manchevolezza peculiare di tale conoscenza riguarda tanto la conoscenza medesima, quanto la sua materia in generale. – Per quel che riguarda la conoscenza, la necessità della costruzione, anzitutto, non viene intesa nei giusti termini. Essa necessità non scaturisce dal concetto del teorema, anzi viene imposta; e si deve ciecamente ubbidire alla prescrizione di tirare certe linee, mentre se ne potrebbero tirare infinite altre; tutto questo con una ignoranza pari soltanto alla fede che ciò andrà a buon fine per la condotta della dimostrazione. Poco più avanti. Così la dimostrazione percorre una via che si fa cominciare a un punto qualunque, senza sapere in che rapporto stia con il resultato che deve venir fuori. Una tale dimostrazione assume nel suo corso certe determinazioni e certi rapporti e ne scarta altri, senza che si possa immediatamente render conto della necessità per cui ciò avviene; una finalità esteriore regge un tale movimento. Cioè, la necessità di arrivare al teorema; tutto il resto non importa. L’evidenza di questo manchevole conoscere, della quale la matematica va superba facendosene un’arma anche contro la filosofia, si basa sulla povertà del fine e sulla deficienza del contenuto della matematica, ed è quindi così fatta, da suscitare disprezzo da parte della filosofia. Si disprezzano entrambi, l’un con l’altro. Fine o concetto della matematica è la grandezza. La misurabilità, la calcolabilità, è su questo che si fonda la matematica. Ma questa è appunto la relazione inessenziale e aconcettuale. Perciò qui il movimento del sapere procede in superficie, non tocca la cosa stessa… Come diceva prima, la dimostrazione non tocca mai la cosa, non la raggiunge nemmeno. …l’essenza o il concetto, e non è quindi per nulla un atto concettivo. O, come direbbe Heidegger, la scienza non pensa, non concettualizza ciò che fa, lo mette in atto, lo mette in pratica attraverso modelli. La materia intorno alla quale la matematica garantisce il suo consolante tesoro di verità è lo spazio e l’Uno. Lo spazio è l’esserci nel quale il concetto iscrive le sue differenze come in un elemento morto e vuoto dove esse sono altrettanto immote e prive di vita. Ma l’effettuale non è un qualcosa di spaziale, come vien considerato dalla matematica; di una tale ineffettualità costituita come le cose della matematica non si impacciano né la concreta intuizione sensibile, né la filosofia. In un elemento così ineffettuale non può capire che un vero ineffettuale, fatto di proposizioni rigide e morte; dopo ognuna di queste proposizioni si può far punto; la seguente ricomincia per conto proprio, senza che la prima accenni a muoversi verso l’altra, e senza che a questo modo sorga una connessione necessaria attraverso la natura della cosa stessa. Continua a ribadire lo stesso concetto, che è poi il modo con cui si pensa oggi: le cose sono tenute astrattamente separate, senza accorgersi delle connessioni che ci sono tra le cose, connessioni che emergono soltanto nel concreto. Si potrebbe fare un esempio molto semplice partendo da Freud: le paure, le angosce, ecc., se non si considerano come momenti di un insieme, di un intero, non si intende nulla, non portano da nessuna parte. Occorre intendere questi elementi che compaiono come momenti di un tutto; è soltanto questo intero che rende conto delle connessioni che consentono a questi elementi di essere così spaventosi, ecc. Senza queste connessioni, disconnettendo tutto questo, è chiaro che si continua ad avere paura, perché non si sa nulla di questa paura, per dirla in modo spiccio.