INDIETRO
29-4-2015
Forse dovrei aggiungere un elemento a ciò che dicevo la
volta scorsa intorno alla mia posizione nei confronti della psicanalisi. La
ricerca che sto conducendo, che ho condotto e che continuerò a condurre mi ha portato
in una posizione che potrei definire al di qua della psicanalisi, al di qua nel
senso che mi sono trovato a considerare che le condizioni per la costruzione di
un discorso, di una teoria, anche della psicanalisi ovviamente, è ciò che mi ha
condotto alla struttura del linguaggio allontanandomi quindi da ciò che
comunemente viene inteso con psicanalisi. Questo allontanamento non è
assolutamente negativo, è soltanto un ritrovarsi a considerare quelle cose che
si sono perse lungo il cammino, della psicanalisi ma non soltanto, e cioè il
domandare, non tanto intorno ai discorsi che fanno le persone, anche, ma
soprattutto una domanda intorno alla stessa teoria: che cosa vuole dire? che
cosa fa? in base a quali considerazioni trae la verità che utilizza per procedere?
Uno dei motivi per cui ho ripreso ultimamente Heidegger è il modo in cui pone
delle domande, e c’è una cosa che diceva che mi ha interessato: qualcosa
diventa un problema quando viene elisa la domanda, quando non c’è più la
domanda allora, tolto il domandare, ciò che rimane è il problema e il problema
è ciò che comunemente attende una soluzione. Attende una soluzione attraverso
un sistema, un marchingegno che generalmente si chiama algoritmo. Algoritmo è
quella sequenza finita di procedure che consentono la risoluzione di problemi,
sequenza di procedure che è sempre la stessa che si può applicare a varie
situazioni, che ha il compito di risolvere il problema appunto. Ma forse la
questione più interessante, Heidegger in questo caso non ha torto, è la
domanda, ma una domanda se condotta alle estreme conseguenze si trova a
domandare anche di se stessa, in definitiva si trova a domandare come funziona
il pensiero stesso, e come questo pensiero può costruire delle storie, dei
racconti, quindi delle teorie. Credo che il modo forse più efficace per
proseguire un’interrogazione, come stiamo facendo intorno al potere sia,
considerando bene il funzionamento del potere all’interno del discorso,
intendere alcuni degli elementi fondamentali, per esempio la nozione di verità,
di significato; l’esercizio del potere è sempre un esercizio di verità, chi
impone il potere generalmente suppone che ciò che sta imponendo sia vero, sia
degno, abbia un valore, quindi la questione della verità insieme con quella di
significato di cui ci siamo già occupati ma possiamo occuparcene ancora in modo
più preciso, appare essenziale per intendere ancora di più, ancora meglio la
questione del potere. Il potere appare prioritario su qualunque cosa, è ciò che
letteralmente pilota le fantasie, potremmo dire che ciascuna fantasia è
costruita in base a questo obiettivo, cioè raggiungere il potere, tenerlo,
mantenerlo, esibirlo e agirlo. Appare in effetti che ciascuna fantasia abbia
questo obiettivo, utilizzando i modi più disparati ma questo potrebbe essere
per il momento irrilevante, ciò che invece continua a essere rilevante è che
gli umani apparentemente non possono non farlo e giungevo a dire che non
possono non farlo perché sono parlanti, e quindi questo non potere non farlo
deve essere qualche cosa che attiene alla struttura stessa del linguaggio, per
cui ero giunto a considerare ancora che non è possibile eliminare questo, è
possibile però tenerne conto, cioè sapere che cosa si sta facendo. Mi pare la
cosa fondamentale. Potrebbe apparire poco in effetti se si può fare soltanto
questo, però non è detto che questa sia l’ultima parola ovviamente in quanto
possono inventarsi altri modi, altre vie, altri strumenti per affrontare la
questione, ciascuna volta si inventano delle storie, degli altri racconti, non
per risolvere un problema ma per continuare, per potere proseguire a parlare,
dopo tutto questo è l’unico obiettivo del linguaggio, continuare a produrre
sequenze linguistiche. C’è una modalità che è tipica più che della psicanalisi
in quanto tale, degli psicanalisti, e cioè di utilizzare la psicanalisi come
chiave di interpretazione, come modello per dare significati alle cose, questo
passa in modo molto evidente e lo diceva molto bene Stefania sabato, sono gli
psicanalisti in prima istanza che hanno introdotto questo modo di accusare
tutti gli altri di essere malati, di avere qualche problema, di avere le varie
carenze affettive, problemi con l’altro, con il padre, con la mamma, la nonna
eccetera. Il primo che ha avviato questa modalità è stato Freud …
Stefania: vorrei solo precisare, penso che c’è un passaggio
che bisogna precisare cioè un conto è dare una sorta di valutazione di una
certa modalità, altro è caricare questa rappresentazione di una certa modalità,
caricarla di tutte le tonalità che hanno a che vedere o da un lato con la colpa
perché una certa psicanalisi proprio rispetto al … fare diventare quella che è
una modalità non una responsabilità di quel dire ma una colpa … Dall’altro far
diventare un “sintomo” questo sì in senso freudiano far diventare qualcosa che
attiene a una malattia cioè ci sono stati dei passaggi in questo a partire dai
freudiani in poi …
Freud dice che tutto ciò che viene obiettato alla
psicanalisi, tutte le critiche e le difficoltà teoriche che le persone rilevano
all’interno della teoria psicanalitica di fatto sono “resistenze” alla
psicanalisi. Questa è un’affermazione molto impegnativa, ha la stessa struttura
di quell’altra che dice che se una persona non crede in dio è perché non ha
ricevuto il dono della fede, e se non ha ricevuto il dono della fede peggio per
lui, non c’è una grande differenza, e cioè entrambe muovono da una posizione
molto religiosa e forse si potrebbe dire molto arrogante, perché affermare che
le obiezioni alla psicanalisi sono una resistenza alla psicanalisi è una
sciocchezza di proporzioni bibliche. Così come tutte le varie formulazioni che
sono state fatte a partire da questa cosa che dice Freud, e cioè che se una
persona non fa una certa cosa allora è perché c’è, per esempio, un sintomo.
Forse la questione è un po’ più complicata, questa non è che non funzioni, una
qualunque analisi funziona perfettamente nel senso che l’analista dice una
certa cosa, quell’altro gli crede e chiuso il discorso e ci sono anche degli
effetti ma non è possibile valutare un modo di pensare, una teoria dagli
effetti che questa produce, per una serie di ottimi motivi che sono stati anche
considerati attentamente da molte persone, è un non senso praticamente. Rimane
il fatto che interrogare la psicanalisi è interrogare certamente un modo di
pensare, è interrogare una struttura che è metafisica, che torno a dire non è
che non funzioni, se con funzionamento intendiamo che le persone che si trovano
a svolgere un’analisi ne traggono beneficio, si può trarre beneficio da
infinite cose, una di queste è anche la psicanalisi, fa qualcosa di più di
altre? In teoria sì, ciò che fa di più dovrebbe essere mettere la persona nelle
condizioni di sapere perché pensa quello che pensa, è sapendo questo che può
giungere a sapere perché si trovava a credere una serie di cose e credendo una
serie di cose fare di conseguenza un’altra serie di cose: ciò che ciascuno fa e
pensa poi si ripercuote nella sua condotta ovviamente. La questione tuttavia è
complessa, complessa perché si tratta a questo punto di stabilire un concetto
di “normalità”, è necessario per potere stabilire ciò che deve essere eliminato
e ciò che non deve essere eliminato, è un discorso molto complesso perché tutta
la tradizione sociale, civile, va in questa direzione e cioè stabilire di volta
in volta che cosa è bene e che cosa è male, anche se poi non viene enunciata in
questi termini però l’idea è che qualche cosa debba essere eliminata, perché
quando si dice che qualche cosa deve essere elaborata, articolata eccetera
molte volte, non sempre ovviamente ma molte volte si intende proprio questo,
deve essere eliminato. Perché una persona dice che un certo sintomo non lo
vuole, gli crea dei problemi eccetera, può darsi certo. Ogni tanto si parla di
etica, forse la questione dell’etica potrebbe essere completamente
riconsiderata, a partire da che cosa? Questa è una bella domanda, a partire da
che? In genere si parte da ciò che si sa o si presume di sapere, che sia
qualcosa che si è pensato, qualcosa che si è letto è indifferente, però si
parte comunque sempre da un qualche cosa e questo qualche cosa da cui si parte
è ciò che è ritenuto vero, ciò che è ritenuto degno, un assioma, una dignità
come diceva Vico, qualche cosa che è degno di essere posto come punto di
partenza da cui muovere. Per tornare a ciò che dicevo all’inizio, una delle
cose che mi ha interessato particolarmente di Heidegger è invece il fatto che
si trovi, non per caso ovviamente, a rimettere in discussione proprio questi
elementi da cui si parte, questi elementi che in genere non vengono interrogati
perché se venissero interrogati questo potrebbe costituire un problema:
potrebbero mostrarsi non così “degni” da costituire un punto di partenza,
allora sorge immediatamente l’obiezione “da qualche cosa bisogna pure partire”,
certo, questo è indubbio però un conto è partire da qualche cosa che si ritiene
per qualche motivo essere vero altro è muovere da qualche cosa che
consapevolmente si sa perfettamente non essere né vero né falso ma
semplicemente un elemento che viene utilizzato per costruire il discorso e
niente più di questo. Questa modalità è tutt’altro che semplice perché come
dicevo pone di fronte a questo “domandare”, un domandare che fondamentalmente è
irrispettoso, non rispetta nulla, neanche se stesso, perché anche questo
domandare non è esente dalla domanda. Che cos’è una domanda? Per Heidegger è
qualche cosa che è tipico degli umani, potremmo dire dei parlanti perché
occorre parlare per potere porsi una domanda, se no non c’è nessuna
possibilità. La domanda si attende da qualche cosa un’altra cosa, si attende
che una certa cosa rinvii a qualche cosa, che è esattamente la definizione di
significato e cioè un rinvio, una cosa rinvia necessariamente a qualche
cos’altro per essere quella che è, cosa che potrebbe apparire paradossale.
Questa è una questione importante, una apparentemente paradossalità che è
insita e strutturale al dire, alla parola: ciascuna parola per essere quella
che è occorre che sia differente da sé, ma per essere differente da sé è necessario
che sia identica a sé. Da questa via non c’è uscita, non si può che prendere
atto di questo aspetto del funzionamento del linguaggio, d’altra parte occorre
sempre tenere conto che questi concetti di identità, di differenza, sono
concetti linguistici, sono per così dire delle invenzioni del linguaggio che
vengono utilizzati per potere proseguire a dire, senza questa concetti, di
identità per esempio, non sarebbe possibile proseguire a parlare perché ciascun
elemento se non fosse riconosciuto ma stabilito, perché è uno stabilirlo che è
identico a sé, non potrei utilizzarlo per inserirlo in una combinatoria e di lì
procedere, perché questo elemento sarebbe simultaneamente tutti gli altri e
quindi non sarebbe utilizzabile: l’identità ha a che fare con l’utilizzabilità.
Questi aspetti sono quelli che è inevitabile trovarsi a considerare nel momento
in cui ci si affaccia alla questione del linguaggio, e ovviamente affacciarsi a
una cosa del genere mette in gioco, non cancella né elimina, ma mette in gioco praticamente
tutto e impone in un certo senso di approcciare tutte le questioni, comprese le
teorie, in modo totalmente differente, e cioè considera e non può non
considerare una teoria, qualunque essa sia, come un racconto, un racconto che
vale tanto quanto un qualunque altro. Posta in questi termini ovviamente la
questione diventa anche molto più interessante perché impone di non esimersi di
continuare a domandare, non per avere la risposta che dovrebbe chiudere il
discorso, perché la domanda, anche nella stessa accezione in cui ne parla
Heidegger non è sicuramente posta in questi termini, ma è un domandare che apre
su altre questioni che è esattamente il modo in cui funziona il linguaggio.
Ogni volta che si dice qualche cosa, questo qualche cosa è quello che è perché
rinvia a un’altra cosa, ché non sarebbe niente se non fosse un significato, un
segno. Se il linguaggio come appare funziona così, allora ogni altra cosa
funziona così, anche un racconto: un racconto è fatto per costruire altri
racconti, di per sé non significa niente se non ci fossero questi altri
racconti e per questi altri racconti la stessa cosa e così via all’infinito. Di
conseguenza, parlare per esempio di verità o di certezza come accade in alcuni
casi diventa molto problematico, perché a questo punto lo stesso termine
“certezza” viene messo in discussione cioè viene interrogato, gli si domanda di
sé, di dire qualcosa di sé, facendo questo ovviamente la “certezza”, essendo un
sostantivo femminile singolare ha un significato qualunque si voglia dare, e
ciascuno dei termini che interviene all’interno del significato ne ha altri e
così via. È stata la semiotica che ha colto in modo molto preciso questo
aspetto, più o meno negli anni in cui Freud stava lavorando o subito dopo;
l’idea era questa: c’è un elemento, un nucleo semico, che potremmo indicare
come il significato del dizionario, però questo significato del dizionario da
solo non fa nulla, occorre che ci sia un contesto, cioè dei semi contestuali
che diano a questo primo significato il significato che ha poi effettivamente
all’interno di un discorso, senza questi semi contestuali, cioè senza questa
apertura su altri significati, un qualunque significato è niente. Tutte queste
cose conducono indirettamente a quella cosa che comunemente si chiama clinica
psicanalitica per un motivo: reperire questi elementi all’interno del proprio
discorso, non sto dicendo che sia facile, tutt’altro, reperire questa struttura
del linguaggio, tenerne conto e trovarsi nella condizione di non poterne non
tenere conto, questo pone in una posizione assolutamente particolare nella
quale ciascuno ha la possibilità di sapere che cosa sta succedendo mentre
parla. Sapere e non potere non sapere che ciò che sta facendo non è e non può
essere altro che un gioco linguistico, un racconto che si svolge al solo fine
di costruire un altro racconto e così via all’infinito, e avendo a questo punto
anche gli strumenti, la capacità di riflettere su varie questioni che possono
comparire come la questione della verità per esempio. Potrebbe essere
interessante riprendere alcune cose che scrive Heidegger intorno all’essenza
della verità, e sarebbe interessante oltre che divertente riprendere anche le
obiezioni che fa Carnap a Heidegger, quando Heidegger fece la sua prolusione
che è quella della conferenza che si chiama che Cos’è metafisica? del
1929 a Friburgo, c’era la sala pienissima di filosofi, di personaggi, di
curiosi perché Heidegger era già molto famoso, tra i vari personaggi che
assistevano a questa conferenza c’erano Carnap, Wittgenstein, Neurath e se non
vado errato anche von Neumann. Carnap muove delle obiezioni, obiezioni da
filosofo analitico, da filosofo del linguaggio, la filosofia del linguaggio è
una cosa strana perché l’obiezione di fondo che fa Carnap è che l’affermazione
che si trova a fare Heidegger, fatta in quella conferenza e in moltissime altre
occasioni e cioè affermazioni intorno al “nulla” che per Heidegger c’è, anche
se dà un’accezione particolare ovviamente, per Carnap questa affermazione è un
non senso perché non è formulata correttamente, e allora Carnap la riformula in
questo modo: “esiste una x tale che questa x è nulla”, ora questa formulazione
cosa dice? che “esiste una x tale che questa x, è che cosa? è nulla.” Quindi
neanche una x, quindi possiamo scrivere che “esiste una x tale che questa x non
è x” e questa è una contraddizione e quindi la proposizione viene annullata.
Tutto questo è anche un esercizio di straordinaria efficacia per quanto
riguarda il modo di pensare, e cioè di costruire argomentazioni, ché pensare
poi è questo, costruire argomentazioni alle quali argomentazioni può accadere
di credere, può accadere nel senso che accade sempre. Ma torniamo alla
questione del problema, se c’è un problema non c’è più la domanda, la domanda
viene elisa, tolta la domanda dice giustamente Heidegger rimane il problema,
problema che attende una soluzione, cioè credo che sia così quindi è così, e
quindi devo provarlo, devo trovare delle cose che confortino questa
affermazione e le troverò sicuramente, se le voglio trovare ne trovo comunque.
Se il discorso incontra il problema a questo punto ha una battuta di arresto in
attesa della soluzione, ma la cosa interessante è che da quel momento in poi
pensa che ci sia una soluzione in un qualche modo, un algoritmo che risolva la
situazione in modo da potere procedere senza più mettere sotto forma di domanda
ciò stesso da cui è partito. Ma dicevo dell’aspetto clinico, anche se questa
parola “clinica” Verdiglione l’aveva ripresa dal greco, uno dei significati è
piegare, infatti riferiva questo alla piega della parola, al piegare la parola
parlando: parlando la parola si piega e mostra dei risvolti. È possibile certo,
tenete conto che di ciascuna affermazione teorica, il massimo che possiamo
affermare è che non è impossibile che sia così, qualunque altro tipo di
affermazione è un problema, ché può succedere certo, ma il fatto che possa
succedere non autorizza nessuno a porre questa affermazione come un universale
e cioè come qualcosa che non può non accadere. Qualche volta avevo citato
quella frase celeberrima di Lacan: “l’inconscio è strutturato come un
linguaggio”, è possibile, però posta in questi termini è una formulazione
universale nel senso che in base anche ad altre cose che dice ovviamente non
c’è la possibilità che l’inconscio non sia strutturato come un linguaggio, se
c’è inconscio è strutturato come un linguaggio. Non sto discutendo se questa
affermazione sia vera o falsa, non è questo che interessa, interessa il modo in
cui è stata costruita questa proposizione, che significato gli è stato
attribuito e per quale motivo, cosa lo sostiene? Immaginate di potere fare
questa stessa operazione nei confronti di qualunque pensiero venga in mente a
una persona, potrebbe accadere, dico potrebbe, qualcosa di assolutamente straordinario
e cioè questa persona non è più in condizioni di credere alcunché, in
particolare alle cose che lei stessa afferma e in questa posizione, chiamiamola
così, è assolutamente impossibile che qualche cosa si fissi all’interno del
proprio discorso, cioè che il discorso si attesti su qualche cosa, e se il
discorso in nessun modo può attestarsi su alcunché allora cambia tutto, ma
radicalmente tutto, e questo è il risvolto clinico. Non è una questione
semplice ovviamente, anzi ritengo che forse sia una delle cose più difficili
che siano mai state pensate, non ho neppure la certezza che sia praticabile, ma
si tratta di trovare gli strumenti, i modi e i termini per agire tutto questo,
fare in modo che la persona sia tutto questo, sia questo modo di pensare, che
non abbia più la possibilità di attestarsi su nulla. Ma parlando si attesta,
cioè pone dei significati, quindi pone degli elementi “come se” fossero
identici a sé, li utilizza come se fossero identici a sé al solo scopo di
proseguire a parlare, ma sapendo e non potendo non sapere che questo è soltanto
il modo che ha il linguaggio per potere proseguire, per potere continuare a
parlare, niente più di questo. Quindi il lavoro potrebbe proseguire in questa
direzione: cercare di intendere meglio la questione della verità e del
significato per intendere meglio come si costruiscono le proposizioni, tendendo
conto che tutto questo porta a quell’altra considerazione di cui dicevo
all’inizio, e cioè ciascuna fantasia, che non è altro che un discorso che viene
costruito, ha come direttrice da seguire sempre la questione del potere perché
scambia la necessità di affermare qualcosa per potere proseguire, quindi di
stabilirlo, scambia questo stabilire quell’elemento per la sua esistenza
assoluta, in accezione metafisica, cioè esistere fuori dal linguaggio.
Naturalmente ci sono un certo numero di testi di cui ci si può avvalere, i
testi sono utili, ma sono utili a condizione che leggendo un testo, mentre lo
si legge, se ne scriva un altro, è questa la posta in gioco in un certo senso,
non fornisce soltanto elementi, strumenti, informazioni qualche volta anche
certo perché no? ma soprattutto fornisce l’occasione per scrivere un altro
testo. Questa è un’affermazione tipicamente semiotica. Ecco vi ho accennato a
queste cose giusto per discuterne con voi sul modo di proseguire questi
incontri che stiamo facendo, che auspico possano diventare sempre più
interessanti, nel senso che aprano incessantemente ad altre questioni, perché
una domanda ovviamente non può non trovare una risposta, la esige, è la
struttura stessa del linguaggio, c’è l’elemento da cui si parte, ci sono tutti
i vari passaggi, e la conclusione. Il modo metafisico di procedere è immaginare
che questa risposta cui si giunge sia “la” risposta, cioè un qualche cosa che
esiste fuori da quella stessa struttura che l’ha costruita. Una conclusione è
soltanto l’occasione per porre altre domande, cioè apre ad altre domande, ma
per aprire ad altre domande occorre che ci sia una battuta di arresto, un
qualche cosa che viene stabilito: così funziona il linguaggio, per continuare a
parlare devo prendere una parola come se fosse identica a sé solo per
continuare a parlare, perché se non lo facessi quella parola sarebbe niente e
quindi non sarebbe utilizzabile, per cui non potrei parlare. Come spesso accade
le cose sono anche così, rispetto al gioco che si sta facendo certo, sono anche
così ma non soltanto, è un po’ il discorso che si fa con il discorso paranoico
che afferma con assoluta certezza che le cose stanno così: “sì, stanno così, ma
anche in quell’altro modo” “stanno così ma anche …” Questo “anche” apre la
possibilità di continuare a parlare, ma se le cose sono soltanto così il
discorso è chiuso e allora succedono tutte quelle cose che Freud descrive con
dovizia di dettagli …
Intervento: volevo fare una domanda, se tra linguaggio
scritto e quello parlato c’è una differenza?
Il linguaggio è come un sistema operativo che fornisce le
istruzioni per costruire sequenze in base a queste istruzioni, le sequenze
vengono costruite in un certo modo, tenendo conto di certe regole, queste
istruzioni consentono quindi il riconoscimento di queste sequenze e consentono
anche di mettere le sequenze una a fianco all’altra per costruirne altre
ancora. Questo allegoricamente, potremmo dire invece più retoricamente che il
linguaggio può intendersi come ciò che consente agli umani di dirsi tali per
esempio, e insieme con questo qualunque altra cosa. Il linguaggio parlato e il
linguaggio scritto sono differenti, forse ci sono fantasie differenti che
intervengono, probabilmente anche finalità differenti, ma la differenza è
sempre e comunque anche in questo caso una costruzione, perché se uno è
sufficientemente abile può giungere a dimostrare con ottime argomentazioni che
il linguaggio scritto e quello parlato sono la stessa cosa, dopo di che
giungere a dimostrare con ottime argomentazioni che il linguaggio scritto e
quello parlato sono cose totalmente diverse …
Intervento: Socrate ha detto cose ma visto che non ha
scritto nulla …
Platone nella Lettera 7 è preciso, non di meno ha scritto
tantissimo.
Beatrice: sono tante le cose che interessano, una via
potrebbe proprio essere questa quella del nichilismo che impera nella nostra
società. Però mi interessava la questione sempre semiotica, quella di Greimas
dei semi contestuali cioè di ciò che accade quando si affermano le cose che si
affermano qui e adesso …
La Semantica strutturale è un ottimo testo da
leggere. La semiotica ha avuto una grande fortuna negli anni 70/80 e dicevamo
con Sandro prima, forse non è casuale che anche la psicanalisi in quegli anni
abbia avuto così tanta fortuna, perché era agganciata alla semiotica, alla
questione intellettuale, culturale, alla politica, questa l’ha resa uno
“strumento” tra virgolette, per cogliere meglio, per approcciare meglio ciò che
ci circonda, era questa la scommessa negli anni 70/80 della psicanalisi e io
credo che questo abbia contribuito notevolmente alla sua fortuna in quegli
anni. Sandro: un dettaglio: ha avuto una fortuna perché la psicanalisi è
stato il primo movimento che ha obiettato … la borghesia è sparita. La
psicanalisi ha obiettato a quelli che erano i valori … la psicanalisi può avere
i termini se pone le questioni in maniera “corretta” tra virgolette, di
intendere quella che Severino chiama la “tendenza parlamentare” … cosa che ha
perso perché il feticcio della psicanalisi è il disagio, il sintomo però al di
là di questo …
Stefania: per alcuni versi è stata fatta una certa
applicazione della psicanalisi solo esclusivamente a un discorso di sanificazione
… Freud dice “tutti quanti noi siamo portatori del sintomo”, Lacan “il legame
sociale è il sintomo” … è una degenerazione di questo discorso …
Tu cosa proponi Stefania?
Stefania: tu mi trovi impreparata, posso considerare che
queste riflessioni che tu ci hai donato della clinica psicanalitica a me sembra
che questa rappresentazione che tu mi hai dato io la vedevo raffigurata è
chiaro non posso universalizzare, generalizzare perché ciascuna persona che
viene a sedersi o a sdraiarsi … Non si può certo generalizzare mi sembra però
che l’aspetto importante da cogliere dalle cose che tu hai detto è l’operazione
che noi facciamo al momento in cui ci mettiamo in una certa posizione di
ascolto clinico, non è certo quella di dare delle risposte ma con tutta la
fatica quella di rilanciare la domanda … e cercare di cogliere o i punti di
dissonanza, o qualche breccia su cui richiamare l’attenzione per provare a
ricostruire tutto quel discorso così bello e chiuso su se stesso … L’altro lato
laddove ti trovi delle narrazioni che sono delle emorragie di parole … Perché
da quella emorragia non scaturisce una domanda allora quello che bisogna
cercare di fare nella emorragia di parole è creare invece proprio un
annodamento … Mettere un punto perché solo se c’è un punto può arrivare una
domanda … se non metti una punteggiatura là dove c’è questa emorragia è un
fluire … è un torrente … un ascolto analitico parte da come viene strutturata
la narrazione … è un torrente di parole che non articola la domanda ) no, no
anzi spesse volte è fatto proprio per questo per evitare di articolare la
questione … torrente di parole …
È il discorso isterico che spesso ha questa forma. Ciò che
dicevo è la descrizione di ciò a cui un percorso occorre che giunga, non il
modo in cui parte. Se una persona inizia un’analisi perché per esempio ha paura
dei topi, allora è chiaro che occorre lasciare parlare questa persona, e per
molto tempo prima che si accorga soltanto del fatto che sta parlando, che già è
una cosa complicata, e il compito dell’analista è impedire che il discorso si
attesti su una qualunque cosa, si attesti cioè si fermi lì, affermi una verità.
Un analista impedisce che questo accada perché se consente che questo accada
allora non c’è più altro da dire rispetto a quella cosa. Come dicevi
giustamente, ogni analisi è differente da un’altra, ma l’obiettivo a cui
l’analista si attiene è sempre lo stesso: impedire che il discorso si attesti
su una qualche certezza, qualche verità, in tutti i modi possibili, anche con
un’interpretazione delle volte, che pure non significa niente, anche
un’interpretazione può servire a questo. Può accadere che un’analista
interpreti qualche cosa ma non perché sta dicendo che cosa significa ciò che
l’altro sta pensando ovviamente, ma perché quella interpretazione, in quel
momento, può dare l’opportunità, l’occasione alla persona di riflettere in un
altro modo e fare procedere il discorso, in questo senso qualunque cosa può
essere utile.
Stefania: un altro elemento e questo credo lo sappiate
perché è nell’ultimo testo che io avevo preparato per il convegno di novembre …
Io penso che uno degli aspetti del disagio della civiltà, del disagio dell’uomo
e metto me in primis è un eccesso di teoria cioè la teoria è un elemento
estremamente, uso una parola che non mi piace “patologicizzante” perché la
teoria cristallizza e ti dà le motivazioni e se le appoggia anche rispetto a un
qualcosa che molto spesso è uno mascheramento … io parto da questo presupposto,
lo chiamo “presupposto” nel senso che lo pongo nel mio modo tenere un’analisi
io tengo questo pensiero, detto ciò quindi questo è il mio punto di
elaborazione … a me piacerebbe pensare che la teoria venisse usata come la
usano ad esempio i fisici, io non conosco niente di fisica ma ho un amico e
credo di conoscere il metodo cioè le teorie sono sempre considerate delle
rappresentazioni che servono, cioè sono dei mezzi, la teoria è un mezzo non è
il fine … talvolta la psicanalisi perché cade in una veste, qualora cada in una
veste psicologicizzante pensa la sua teoria non sia un “come se” pensa che
quella teoria lì sia propriamente la verità, è qua lo snodo mentre invece io
penso più umilmente spero …
Intervento: che ci sia la verità assoluta al di là della
teoria? È questa la teoria che ti guida?
Stefania: no, perché dici così? perché mi metti in bocca
cose che io non ho detto? No, io penso che le teorie possono essere usate come
dei mezzi che servono per procedere ma senza la presunzione di pensare che
quella teoria sia la verità o ancora peggio che sia proprio ciò che coincide
con la realtà … i fisici mica pensano che le “stringhe” dell’universo esistano,
le usano come degli strumenti operativi che è proprio tutta un’altra cosa …
Lacan con il “simbolico, il reale, l’immaginario” non è che il simbolico,
l’immaginario, il reale corrispondano alla cosa che c’è, non è una
rappresentazione, è un modo di dire, proprio di raccontare un certo percorso,
certo se comincio a pensare che quello corrisponda pienamente alla verità certo
che lì si scambia pienamente il modo di intendere le cose … secondo me è quella
una sfumatura una sfumatura che è sostanziale …
Sì in effetti sarebbe da riflettere molto bene su questo,
perché quello che dici in realtà è complicatissimo …
Stefania: lo so che è complicatissimo, non so se lo ho
spiegato bene …
L’hai espresso benissimo, è complicato concettualmente per
tutti i vari elementi che intervengono, e questa potrebbe essere una direzione
da seguire, incominciare a interrogare come dicevo all’inizio i presupposti, e
come si costruisce un’argomentazione. Quando si pone un presupposto dopo non
c’è più nessuna domanda, per questo per questo dicevo all’inizio che mi
piacciono alcune cose di Heidegger, non tutte, ma alcune cose sì, ma il modo di
domandare questo lo trovo straordinario, anche perché non così lontano per
alcuni aspetti da quello che aveva iniziato a fare Freud, ovviamente con
obiettivi diversi, formazioni totalmente differenti, però per quanto riguarda
la domanda è come se avessero intravisto un qualche cosa che ha una rilevanza
immensa e che è il caso di proseguire.