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29-4-2009

 

Eleonora, fai un riassunto di ciò che abbiamo detto negli ultimi due o tre incontri. Cosa hai inteso in tutto ciò che abbiamo detto? Se dovessi spiegare a qualcuno perché il linguaggio è prioritario cosa diresti? Se dovessi mostrare l’importanza del linguaggio cosa diresti?

Intervento: lo farei soffermare sulla condizioni per cui sono possibili tutte queste cose nel senso che Intervento: partirei dal “fatto” che stiamo parlando, ci sarebbero tutte queste considerazioni se effettivamente non potessimo parlare? E se non ci fossero queste considerazioni allora anche il fatto della naturalità del linguaggio, che sarebbe l’ovvia risposta, potrebbe cadere nel senso che se non potessimo considerare queste cose e affermare queste cose non potremmo neanche considerare e quindi affermare per esempio che stiamo parlando, quindi accorgerci del parlare ecco io comincerei di qui dalle considerazioni, dai pensieri che proprio perché parlanti gli umani possono fare, è ovvio che la persona potrebbe insistere sulla necessità della naturalità della parola però ciò cui vorrei arrivare è che senza queste considerazioni non potrebbe giungere a questa conclusione per esempio così scontata che riguarda la naturalità del parlare …

Come siamo arrivati a considerare il linguaggio? Perché ci è parso così importante? Siamo partiti dalla psicanalisi, da ciò che fa la psicanalisi, abbiamo soltanto radicalizzate alcune tesi che allora ci erano note a partire da Freud, da Lacan ma non solo, ma si tratta di radicalizzarle ancora. Naturalmente occorre intendere ciò che avviene in una analisi, della formazione ci siamo occupati in varie occasioni però è sempre una questione di qualche interesse, come si forma uno psicanalista? Chi è uno psicanalista? Cosa fa? Ci sono molte teorie come sapete a partire da quella di Freud fino ai giorni nostri, come mai ci sono tante teorie? La psicanalisi non si è mai interrogata intorno ai fondamenti della psicanalisi: ha qualche fondamento? Oppure è una serie di sciocchezze qualunque? C’è anche questa possibilità naturalmente, la psicanalisi non si è mai occupata del fondamento di sé, di fondare ciò che afferma, se non sull’osservazione come abbiamo detto in altre occasioni, ed è proprio questo che ha consentito il proliferare di scuole di psicanalisi, appunto perché ciascuno osserva ciò che ritiene più opportuno ma d’altra parte anche in altre discipline succede qualcosa del genere, anche nella matematica che pure apparentemente sembra meno facile a osservarsi, eppure anche lì come sapete ci sono varie teorie sui fondamenti della matematica: formalisti, intuizionisti eccetera, perché di fatto quando ci si rivolge ai fondamenti di qualche cosa lì sembra esserci il vuoto assoluto, un po’ sulla scorta di Heidegger che parlava dell’abisso, qualche cosa di insondabile, di indefinibile in un certo senso ed è con questo panorama per un verso deprimente che ci siamo confrontati nei primi anni 90. In assenza di fondamento qualunque opinione è legittima, in fondo chiunque è legittimato a osservare quello che gli pare e in base a quello che ha osservato costruire delle inferenze, conclusioni, ipotesi, e occorre anche dire che è così che ha funzionato la teoria da sempre, da quando esiste: si parte da qualcosa che in realtà non c’è e da lì si costruisce, pensate un po’, compresa la fisica naturalmente e anche altre discipline, in fondo anche la matematica ci aveva provato, anche Aristotele, senza successo, cioè non si riusciva a trovare una premessa maggiore che fosse degna di costituire la premessa universale tale da risultare necessaria, assolutamente necessaria, e sulla quale costruire qualche cosa di fondato. Un panorama desolante in effetti, e anche un panorama che offre poche occasioni all’intelligenza perché a questo punto non si tratta di nient’altro che di una sequenza di opinioni e come sapete l’opinione non ha nessun interesse perché non è fatta di nient’altro che di una superstizione :“io penso questo” va bene, e allora? Se non ho nessun modo per provare ciò che io opino cosa opino a fare? Quella opinione varrà quanto la sua contraria, d’altra parte un’ipotesi che non può essere verificata sappiamo che non significa niente, è appunto un’opinione. Ecco perché abbiamo dovuto trovare qualcosa che fosse il fondamento, perché a questo punto la psicanalisi così come si offriva in quegli anni non era un granché, erano opinioni, osservazioni in base alle quali poi si costruivano una serie di inferenze. Allora sorse un’idea: non essendoci nessuna possibilità di dare un fondamento ad alcunché, alcuni psicanalisti ebbero un’idea: cosa fa la psicanalisi? Uno racconta quello che gli pare dopodiché raccontando mano a mano che procede aggiunge elementi, aggiungendo elementi questo racconto si modifica e il modificarsi del racconto produce effetti nel senso che la persona cessa di continuare a raccontare in quel modo e racconta in un altro, è il massimo cui si era giunti in quegli anni, l’idea che raccontando qualche cosa questo racconto a un certo punto incominciasse a modificarsi, modificandosi il racconto si sarebbe dovuta modificare anche la persona. Era quanto di meglio la psicanalisi fosse riuscita a costruire, naturalmente senza potere in nessun modo dire perché una cosa del genere avrebbe dovuto modificare la persona, perché? Se nel racconto a un certo punto si inseriscono altri elementi il racconto si modifica ma questo non ci dice perché una persona dovrebbe abbandonare una certa cosa cui tiene particolarmente, l’idea che la persona incominciasse a raccontare storie diverse. Ma pur raccontando storie diverse c’è l’eventualità, infatti c’è stata l’eventualità, che ciò che voleva affermare continuasse ad affermarlo attraverso storie diverse e questo pone una questione che clinicamente è di notevole interesse: a che cosa serve il racconto in analisi? È una bella questione. Sappiamo cosa fa una persona quando racconta, espone appunto le sue opinioni cioè le verità in cui crede, non fa altro che questo e facendo questo può andare avanti all’infinito, in teoria quanto di meglio può fare è connettere delle storie con altre eventualmente, trovare delle giustificazioni al perché racconta una certa storia, niente più di questo e gli umani sono particolarmente abili a trovare giustificazioni alle cose in cui credono, una abilità notevolissima, in qualunque discorso si trovino. Ma cos’è un racconto? Potremmo dire che è l’esposizione di eventi, fatti, storie, scene, immagini, fantasie al solo scopo di enunciarle. C’è differenza a tuo parere Eleonora fra un racconto e una elaborazione teorica?

Intervento: sì e no …

Molto diplomatica. Una differenza c’è in realtà, mentre il racconto manifesta ciò che ritiene essere vero una elaborazione teorica cerca ciò che necessariamente è vero, il racconto afferma delle cose Intervento: c’è una premessa uno svolgimento e una conclusione …

Si, la struttura del linguaggio è sempre la stessa, non può variarsi in nessun modo, però varia il discorso in questo caso, nell’un caso il racconto esibisce delle verità che ritiene essere tali, ma direi che per la natura stessa del racconto in moltissimi casi non ha neanche la necessità cioè non cerca affatto che muovano da affermazioni vere, o almeno così crede …

Intervento: una persona lo sa quello che crede vero …

Sì certo, però pensavo ai casi in cui potrebbe essere più difficile ricondurlo a questo, come il caso della poesia per esempio, mentre l’elaborazione teorica dovrebbe, almeno se è tale, muovere da qualcosa che ha reperito essere necessario e da lì procedere reperendo tutto ciò che di necessario può essere tratto, cosa che il racconto non fa …

Intervento: sto pensando al racconto della persona, per lui necessariamente è vero come una teoria ma può essere confutato come nella teoria può essere confutato …

Se è necessario no …

Intervento: e allora tutte queste teorie?

Perché non erano necessarie, perché in quegli anni era in voga questa idea del racconto? E apposta per questo ci si era fondati in buona parte sulla semiotica, per esempio Verdiglione viene da studi di semiotica e molti che si sono formati con lui vengono di lì, proprio perché nella semiotica, come sai perfettamente, cosa accade? Cosa accade nella semiotica? Si parla di verità nella semiotica? No, non se ne parla per nulla, è completamente cancellata, si basa unicamente su relazioni fra segni di vario genere, foggia e configurazione però non si occupa della verità e cioè del fondamento, ma soltanto di relazione fra segni, adesso per dirla in un modo molto breve, per cui ecco che la psicanalisi che ha fatto seguito alla semiotica, alla elaborazione semiotica, si è occupata di stabilire relazioni, connessioni fra fantasie, pensieri, proposizioni in definitiva segni, ma qual è l’intoppo Eleonora? Perché tutto questo non serve a niente?

Intervento: perché non è conosciuto il fondamento …

Anche certo, in effetti in quegli anni andava di moda la semiotica e la psicanalisi ha seguito questa moda, non potendo esibire nessun fondamento ecco che al pari del racconto che non ha nessun fondamento e sottolineando la priorità del racconto ha continuato a elaborare una teoria psicanalitica che muovesse unicamente dalle connessioni, perché non c’era nessuna possibilità di fondare alcunché naturalmente …

Intervento: d’altra parte se un elemento è sempre altro da sé …

Esatto, questa è una questione importante, si insisteva molto in quegli anni, sempre primi anni 90, sul fatto che ciascun elemento è differente da sé prendendo spunto da De Saussure naturalmente, insomma diceva De Saussure, per farla molto breve, che ciascun elemento è preso in una combinatoria ed è la combinatoria a fornire il senso di un elemento per cui se questo elemento è inserito in una combinatoria allora ha un certo senso, se inserito in un’altra ha un altro senso, l’idea era che ciascun elemento in quanto tale non fosse individuabile perché ciascuna volta differente, cioè esisteva in quanto differente continuamente e si diceva allora “differente da sé”, cioè questo elemento non è mai fermabile, non è mai coglibile in quanto tale. C’era in questo una critica alla metafisica ovviamente e questo ha dato modo di sbizzarrirsi nell’ambito poetico soprattutto da parte di molti psicanalisti, però non avendo riflettuto sufficientemente su ciò che mano a mano andavano dicendo, cosa che purtroppo occorre dire di molte persone, non si sono accorti di formulare in realtà dei paradossi: se è un elemento è differente da sé, se effettivamente è differente da sé come faccio ad affermarlo? In questo “differente da sé”, la particella pronominale “sé” a chi si riferisce? Come dire che per potere dire che un elemento è differente da sé occorre che questo elemento sia riconoscibile, individuabile, che sia da qualche parte, allora posso dire che è differente da sé e a questo punto si costruisce quella bizzarra cosa che si chiama paradosso, e cioè che un elemento è differente da sé se e soltanto se non è differente da sé. Per potere dire che differisce da sé questo elemento deve essere identico a sé, deve essere individuato, solo allora posso dire questo è l’elemento, e adesso dico che è differente da sé, ma se non è individuato differisce da che cosa? Quindi per potere dire che differisce da sé non deve differire da sé …

Intervento: credo che chi diceva così non avesse inteso questo sé …

Questa è la conseguenza, viene dopo, nel senso che se un elemento è sempre differente da sé allora non c’è nient’altro che ciò che io dico di quell’oggetto e qui siamo in piena ermeneutica. Per questo ho detto che un elemento a questo punto è differente da sé se e soltanto se non è differente da sé, che è la formulazione del paradosso, che è una proposizione che afferma di sé di essere vera se e soltanto se lo è la sua negazione. Dunque il racconto posto come fondamento teorico offre una serie di paradossi ma la questione che a noi interessa è che in assenza di un fondamento, un fondamento necessario, si è stati costretti a inventare qualunque cosa per giustificare in qualche modo ciò che si stava dicendo, al punto di arrivare ad affermare che chiunque, e questo in buona parte è colpa della semiotica, non può fare nient’altro nella sua esistenza che raccontare cose. Ma il racconto come abbiamo detto, come la semiotica stessa afferma, non è altro che una relazione di segni, una connessione di segni ed è proprio vero che nessuno può fare altro che questo? Muovendosi in ambito teorico sono tutte questioni, domande che ad un certo punto ci si trova a porsi necessariamente …

Intervento: mi vengono in mente Anscombre e Ducrot che affermavano che il pensiero non è altro che una produzione retorica però se è solo una produzione retorica, come dire che anche questo fa parte del segno rinvia all’infinito senza mai poter giungere a nulla di affermabile quindi di necessario e in fondo anche loro facevano questo gioco perché se qualsiasi cosa, qualsiasi discorso, qualsiasi pensiero è solamente un gioco retorico allora, si diceva, come fanno loro ad affermare queste verità?

È stata proprio questa considerazione e altre simili a indurci a sospettare che forse c’era qualche cos’altro oltre a una sequenza infinita di segni, per cui effettivamente non si giungeva mai a una conclusione, a una possibile affermazione né alcunché, però anche questa era un’affermazione e qualche cosa consentiva di affermarla cioè di stabilire per esempio che non era possibile fare nessuna affermazione, questa è un’affermazione e quindi di per sé è un po’ paradossale, un po’ come i paradossi degli scettici. Tutto questo ci ha indotti ad andare più cauti a fare delle affermazioni, più cauti perché ci si rendeva conto che c’era l’eventualità, tutt’altro che remota, di incappare in contraddizioni, paradossi, continuamente, così come ha fatto il pensiero da quando esiste e prevalentemente senza accorgersene, noi abbiamo avuto l’occasione di accorgercene ed è questo che ci ha costretti in un certo senso, proprio il pensiero teorico, a cercare qualche cosa: se io mi trovo ad affermare e se voglio affermare qualunque cosa per esempio, deve esserci una struttura che mi consente di fare questo per cui ritengo questa affermazione, per esempio, che “non c’è nulla di vero” ritengo questa affermazione vera. Certo questa serie di paradossi è stata in parte almeno, così lui credeva, risolta da Russell attraverso la sua teoria dei Tipi …

Intervento: io non l’ho mai capita la teoria dei Tipi …

Adesso te la dico in modo molto semplice così semplice che non potrai non capirla. prendi un paradosso, un paradosso come quello di Achille e la tartaruga “Achille piè veloce” che insegue la tartaruga, ora tu puoi fare due giochi differenti e in questo modo elimini il paradosso o consideri lo spazio infinitamente divisibile e allora Achille non raggiungerà la tartaruga, oppure consideri lo spazio non infinitamente divisibile e allora raggiungerà la tartaruga, dipende dal gioco che fai. Sono quelle formulazioni che il pensiero costruisce e che non hanno soluzione perché anche nel caso di Achille raggiungerà la tartaruga ovviamente e la supera però al tempo stesso non la può superare quindi la supera e non la supera: non la può superare se si prende per buono il fatto che lo spazio sia infinitamente divisibile perché prima deve fare la metà poi la metà della metà e poi la metà etc. È il problema dell’autoreferenzialità, se io dico “io mento” posso costruire un paradosso se e soltanto se autoriferisco questa affermazione a chi la pronuncia, è la questione dell’autoreferenzialità.

Pertanto, a quel punto, ci siamo trovati di fronte a una situazione tale in cui si esigeva da parte nostra un rigore assoluto perché erano talmente tante chiamiamole “ le trappole” in cui il pensiero degli umani era caduto, talmente tante che occorreva andarci molto cauti ad affermare qualunque cosa, per esempio, ecco “questa è la verità delle cose” “le cose stanno così” incominciava ad essere sempre più difficile affermare cose del genere …

Intervento: avete confutato tutte le teorie …

Confutare le teorie è stato relativamente facile, d’altra parte alcune non era neanche il caso di confutarle, semplicemente muovevano da premesse che erano totalmente sgangherate e insostenibili. Occorreva qualche cosa che costituisse il fondamento, o trovarlo oppure abbandonare ogni cosa al suo destino perché ogni cosa sarebbe stata pari alla sua contraria, per questo ci siamo rivolti verso il linguaggio cioè a quella cosa che era la condizione che ci consentiva di affermare qualunque cosa, se io dico che una certa cosa è vera, per poterlo affermare, anzi affermandolo, io stabilisco qualche cosa anche se affermo la cosa più squinternata comunque stabilisco qualcosa, cioè letteralmente fermo una catena sul punto che a me interessa, lì si ferma, come dire “è così” qualunque cosa sia ovviamente non ci interessa, quindi c’è qualche cosa di vero sempre e comunque, qualunque cosa si affermi per quando sgangherata sia, ma all’interno del gioco che si sta facendo deve risultare vera per potersi affermare, perché finché la si ritiene falsa non la può affermare. Questa fu una delle cose principali che trovammo: c’è qualche cosa nella struttura che ci fa parlare che ci obbliga, ci costringe a concludere con qualche cosa che appare, all’interno del gioco che sta facendo, vera, perché se no non prosegue. Questa è stata la prima considerazione che ci ha rivolti verso il linguaggio, poi altre ne sono seguite e mercoledì prossimo parleremo delle altre. Oggi abbiamo detto soltanto perché ci siamo rivolti al linguaggio anziché verso qualunque altra cosa.