28 dicembre 2022
L’inizio della filosofia occidentale di M. Heidegger.
Con queste ultime considerazioni siamo arrivati a un punto molto importante, che potremmo riassumere così: la dea ‘Aλήθεια insiste nel dire a Parmenide che ciò che è, ciò che non è e ciò che si crede che sia, sono momenti della stessa cosa e che in nessun modo deve separarli. Separarli sarebbe quello che generalmente fanno gli umani: occuparsi di volta in volta di qualche cosa, immaginando che sia separato da tutto il resto, e in questo modo potere pensare di occuparsi di quella cosa immaginando che sia proprio quella che è, cioè, quella che lui crede che sia, vale a dire, qualcosa fuori del linguaggio. Ciò che la dea ‘Aλήθεια insiste a dire a Parmenide è esattamente il contrario di quello che dice Platone, che vuole tenere separate le cose e dice in modo perentorio, senza mezzi termini, che l’Uno è il bene e i molti sono il male. Da quel momento si è avviata quella separazione, che per lui era fondamentale perché per delimitare, determinare l’ente, immaginando di poterlo fermare, bloccare così com’è, deve evitare che questo ente sia anche altro da quello che lui suppone che sia. Poi, sappiamo qual è il problema inaggirabile: per poterlo determinare devo dire ciò che non è, ma se non lo determino è niente. Platone, come dicevo, invita, anzi, quasi obbliga a compiere quella operazione, che è esattamente il contrario di ciò che la dea ‘Aλήθεια vuole che faccia Parmenide, e cioè tenere sempre conto che l’essere, il non-essere e la δόξα, l’opinione, sono inseparabili, costituiscono il tutto. Platone, invece, pensa che il tutto possa darsi eliminando il negativo. In meno di due secoli, tra Parmenide e Platone, è cambiato tutto, cioè, la situazione si è letteralmente capovolta. Capovolgendosi, certo, ha dato l’opportunità ad Aristotele di costruire quella cosa che ha chiamato logica e che ha dato poi l’opportunità di potere illudersi cha la logica conduca alla conoscenza della cosa così com’è, cioè separata dal non-essere e dalla δόξα, come se la logica potesse mostrare l’essere dell’ente, in assenza appunto del non-essere e della δόξα. La dea, invece, diceva il contrario: se tu tieni separate queste cose, cessano di esistere, non esistono più. Riprendo questo perché è una delle questioni più importanti, anche delle più complesse, non solo da intendere ma anche e soprattutto da accogliere. Anche perché, per potere pensare, occorre fare come dice Platone, cioè tenere separate le cose. Se non separo le cose, come faccio a delimitarle, determinarle, quindi, a pensarle? Anassimandro direbbe che occorre la discordia perché le cose siano qualcosa, perché siano appunto determinate, mentre nella concordia tutto è indeterminato, è ᾂπειρον. Quindi, per pensare, qualunque cosa si pensi, pare che occorra separare, cioè escludere – questo sì, questo no – come fa la logica – vero, falso, 1, 0. D’altra parte, gli stessi computer, che ricalcano grosso modo il modo in cui pensiamo, procedono per esclusione continua, solo così possno calcolare, e calcolare è escludere. La dea, invece, insiste con Parmenide a non volere escludere, quasi a istigarlo, in fondo, a non credere che pensando “logicamente” lui raggiunga degli obiettivi di pensiero migliori di altri. Usando la logica si sta facendo solo un gioco particolare. Certo, la logica è anche ciò che ci consente di pensare, ma proprio per questo motivo, perché la logica, man mano che procede, esclude, è un processo binario. Gli stessi dialoghi di Platone sono costruiti su un sistema binario. Quando lui chiede “è così oppure no?” deve dare una risposta, deve accogliere l’uno e quindi escludere l’altro; procede per divisioni, per separazioni, continuamente. E il pensiero funziona così. Ma, allora, perché la dea ‘Aλήθεια insiste così tanto con Parmenide? Intanto, deve conoscerli benissimo tutti e tre – essere, non-essere e δόξα – e poi tenere conto che non può separarli, perché se li separa svanisce tutto. Com’è questa cosa? Sta qui la complessità della questione. È come se la dea ‘Aλήθεια volesse da Parmenide che facesse una cosa che non può fare, perché non può pensare se non esclude, se non separa le cose. Ma la dea dice: no, non devi separare. Ma, allora, non penso, ci troviamo nell’ᾂπειρον. È un po’ come se chiedesse: pensa l’infinito. Come lo penso? Certo, lo penso, me lo raffiguro, per esempio con il segno dell’infinito, ma quella è una figurina… È questo il problema, che compare verso la fine del poema: la dea dice a Parmenide di fare una cosa che non può fare, esattamente come se gli dicesse “pensa l’infinito, e devi farlo senza escludere nulla”. Cosa sta succedendo qui, per quanto riguarda il pensiero? Ci troviamo di fronte a una cosa insormontabile, inaggirabile, ineludibile e, soprattutto, irrisolvibile. Ora, la “soluzione” è quella a cui abbiamo in effetti accennato: è la δόξα, cioè, il non interrogare, fermarsi al credere di sapere, non andare oltre. La volta scorsa facevamo l’esempio: descrivo questo tavolo, posso certamente descriverlo, ma descrivendolo a un certo punto mi fermo e fermandomi credo di sapere che cos’è il tavolo; ma non lo so affatto, tant’è che se continuo a interrogare si spalanca l’ᾂπειρον. Heidegger intende ma non problematizza la cosa, quando riporta da Parmenide che, in effetti, ciò che si vede è l’opinione: noi vediamo solo questo, le nostre opinioni, quello che crediamo. Heidegger sfiora la questione ma non la porta alle estreme conseguenze, cioè, non mostra il compito impossibile che la dea chiede a Parmenide. Eppure, la dea ‘Aλήθεια, essendo dea, sapeva e Parmenide non era certo uno sprovveduto. Tutto questo ci dice che per parlare, per pensare abbiamo bisogno della δόξα, possiamo procedere solo così, con il credere di sapere; solo in questo modo andiamo avanti, sennò ci fermiamo, è l’ᾂπειρον immediatamente. Ma, in fondo, la dea chiede a Parmenide di non dimenticare che ciò che lui sta dicendo può dirlo perché ci sono anche quelle due cose – l’essere e il non-essere – che in nessun modo può conoscere; non le può conoscere perché ciascuno è il negativo dell’altro e sono simultanei: ciascuno è ciò che non è. Non dimenticare che tutto ciò che si dice non può non tenere conto, dicendola in modo rapido, che è nel linguaggio, – Heidegger direbbe nel “mondo” – e che io sono quelle cose lì, simultaneamente; e, allora, o lo dimentico, e qui ci viene immediatamente in soccorso Hegel, ed è il discorso religioso, l’anima bella, oppure, non lo dimentico. Ma cosa comporta il non dimenticarlo? Comporta che ciascun elemento è necessariamente anche il suo negativo, simultaneamente, e quindi posso utilizzare questa cosa, posso trasformarla in un utilizzabile solo se non la interrogo. Ma non interrogare non significa dimenticare, io so che non devo interrogare, non posso, per esempio, dire a Gabriele “poggia quella cosa sul tavolo” e incominciare a descrivere il tavolo, ma faccio come se… È sempre un “come se”, come se sapessi, quindi, è sempre un δοξάζειν, un credere di sapere: questa è la condizione per potere parlare. La questione interessante è che questa opinione possiamo averla perché siamo nel linguaggio, cioè, perché c’è l’essere e il non-essere, simultaneamente. C’è questa relazione continua, il linguaggio non è altro che relazione, quindi, questo spostarsi continuamente da qualcosa su altro, ininterrottamente, per cui non è mai quella che è, possiamo soltanto opinare e credere di sapere. A pag. 229. L’opinare comune aderisce di volta in volta a un singolo aspetto per sé,… Per forza, potrebbe opinare l’ᾂπειρον? No. …ed è per questo che ciò è possibile a “seconda” delle circostanze;… Come dire che di volta in volta c’è, per dirla con Severino, un astratto che ci seduce. …invece i σήματα dell’essere convergono tutti in una sola prospettiva, e sono in fondo tutti lo stesso. I σήματα, gli aspetti dell’essere, quelli positivi e quelli negativi, cioè il non avere un’origine, ecc., convergono tutti verso la stessa cosa, e cioè nell’impossibilità di determinarlo. All’opposto, è sui diversi aspetti così concepiti e sul loro “a seconda delle circostanze” che si svolge ogni discussione, da cui si formano visioni ulteriori che diventano subito dominanti. Lo ha detto prima, bisogna soffermarsi su un singolo aspetto, perché è l’unica cosa che possiamo fare; ingannandoci, naturalmente, perché questo singolo aspetto noi possiamo considerarlo come tale, possiamo vederlo soltanto all’interno della nostra opinione, e la nostra opinione esiste soltanto perché stiamo parlando. Coloro che in tal modo si fissano sugli aspetti così stabiliti sono gli erranti… Sono gli umani. …quelli cioè che si muovono vacillando di qua e di là, ora in un modo ora nell’altro, nell’erranza. È ben vero che la luce del giorno sembra pur sempre offrire la veduta dell’ente stesso … C’è la luce, quindi, vedo. Cosa vedo? Vedo la discordia, vedo che una cosa è diversa da un’altra. …cioè le sue chiare linee e i suoi netti contorni, nonché la distinzione tra la superficie e la colorazione, il primo piano e lo sfondo, così com’è vero che al buio anche ciò che ci è più vicino diviene incerto, si smorza, si confonde e scompare, o comunque ci inganna in un modo o nell’altro come qualcosa di insicuro e mutevole; nondimeno voler preferire una sola delle due vedute “è contro la necessità”… Di cui parla la dea. Che cos’è necessario? Che questi tre momenti siano simultanei, siano inseparabili. È questo che è necessario, sennò non esiste il linguaggio. …poiché il giorno, nel suo sorgere, è posto in mezzo alla notte – viene da essa e in essa fa ritorno -, ovvero in quanto giorno si rapporta ad altro, ed è quindi in sé nullo. Affermazione fondamentale: in sé è nullo, fuori dalla relazione è nullo. È il problema di Platone con l’ente: se non lo metto in relazione con qualcosa, cioè con ciò che non è, è nullo, è niente. È il giorno ad avere la priorità? Secondo l’antica dottrina greca esso inizia, incomincia con la notte: il giorno esce dalla notte per rientrare nella notte. La sua luce è un passaggio. Non è la solida chiarezza dell’essere che dispiega (stabilmente) la sua essenza. Qui concorda con Anassimandro: la notte, la confusione, l’ᾂπειρον. Per Anassimandro ogni cosa viene dall’ᾂπειρον. A pag. 231. Con quanto si è detto dovrebbero essersi chiariti il senso principale e lo scopo dei frammenti che seguono. Nel dettaglio essi pongono difficoltà insormontabili all’interpretazione, soprattutto perché dottrine cosmologiche successive si sono impadronite della δόξα parmenidea, piegandola a sé e fraintendendone completamente il senso. L’esegesi filologica di Parmenide, intrapresa retroattivamente dai dossografi prendendo le mosse da tale fraintendimento, non ha fatto che aumentare la confusione. Il primo e più importante frammento è il nono. Qui è Parmenide che parla. “Ma non appena di tutte le cose si parlò in riferimento alla luce e alla notte, e lo si fece di questo e di quello in conformità alla sua attitudine di volta in volta peculiare, tutto è riempito a un tempo di luce e di notte non apparente, entrambe l’una uguale all’altra, poiché in nessuna delle due (c’è) il nulla. Non c’è perché ciascuna è riferita all’altra. Se sono in relazione allora sono nulla. Soltanto se è fuori della relazione è nulla, perché non lo determino. Soltanto la determinazione mi dice che cos’è qualcosa. A pag. 233. Qui è Parmenide che parla. “Poiché (entrambi) gli ambiti più ristretti (giorno e notte) sono riempiti di luce non mescolata, mentre gli altri lo sono di notte (oscurità assoluta). Tra i due però (tutto) è attraversato in un baleno da una luminosità parziale, mentre nel mezzo di tali (ambiti) è la dea che tutto guida. E infatti ella è ovunque ciò che determina e domina l’accoppiamento e la nascita tremenda (in quanto gravida di morte), spingendo la femmina a unirsi al maschio, e viceversa il maschio a unirsi alla femmina.”. Qui è di nuovo Heidegger che parla. Oltre allo sguardo d’insieme su ciò che appare si coglie qui la sede della dea, situata nel mezzo, là dove la luce e l’oscurità, equamente distribuite, possono essere totalmente dominate, insieme e ovunque nella loro uniformità. Dominare. Cosa può dominare? La δόξα. È perché ci sono luce e ombra che le cose sono distinguibili, cioè sono in disaccordo. In una luce accecante ogni cosa è indistinta, così come nel buio più totale. Nella sua dimora, le porte del giorno e della notte – al di là delle distinzioni tra luce e oscurità – costituiscono adesso, dove si tratta di volta in volta dell’apparire in quanto giungere e scomparire, gli accadimenti fondamentali di tutto il divenire: la nascita, che però viene definita “tremenda”. Ogni nascita partorisce la morte. Come dargli torto? Potremmo dire che ciascuna donna mette al mondo un condannato a morte, né più né meno. Nel sorgere alla presenza l’intera assenza simultaneamente si trasforma: entrambe le cose nel medesimo tempo – il presente e l’assente, il terrore e la gioia, l’impotenza e la potenza, il δεινόν, il via e il qua – furiosamente. Dioniso! La sventura di Nietzsche è stata che egli, con tutta la sua perspicacia, non fraintese nessun altro filosofo greco in modo così totale come Parmenide. È per questo che in seguito egli non fu all’altezza del suo stesso compito! Certo, Nietzsche manca la questione rispetto alla sua volontà di potenza, manca la questione che dice la dea. Avrebbe dovuto dire – se, come dice Heidegger, avesse seguito Parmenide – che il superpotenziamento e il depotenziamento sono lo stesso, sono due momenti dello stesso, non c’è l’uno senza l’altro, necessariamente. A pag. 235. In tutta questa storia del venire all’apparenza, narrata conformemente agli aspetti dominanti della luce e dell’oscurità, tutte le cose che risplendono, si spengono, si velano e si oscurano nel loro contesto di apparenza – che si dà nel contempo in quanto movimento, si tratti di movimenti chiaramente fissati, sintonizzati su e con altri fenomeni, oppure erranti come quello della luna, o in genere di ogni fenomeno di sembianza luminosa – sono prive di luce propria, quindi vagano senza specifica appartenenza nella confinata oscurità della notte. Abbiamo visto in precedenza che la δόξα ha un doppio significato. In termini oggettivi ciò vuol dire che ai φαινόμενα corrisponde un δοξάζειν, ovvero un όνομάζειν. Sta dicendo che a un fenomeno corrisponde un credere di sapere. Ciò che si intende con questo l’abbiamo in sostanza già appreso con la prima distinzione e caratterizzazione introduttiva delle vie …la percezione errata-errante, che non per-cepisce e comprende, in quanto in sé raccolta, quindi consolidata, anzitutto e solo l’Uno nella sua unitarietà, ma si aggrappa fin dall’inizio e solo all’“a seconda dee circostanze”, lasciandosene trascinare di qua e di là. Questa percezione, dice Heidegger, errata-errante, che non percepisce che non per-cepisce e comprende, in quanto in sé raccolta, cioè, tenendo conto di ciò che dicevo prima, dimentica la sua origine, e cioè il linguaggio. Non solo non ne tiene conto, come è costretta a fare per proseguire a parlare, ma se ne dimentica, non sa più che tutto ciò che opina è grazie al linguaggio, l’ha dimenticato. Nella misura in cui il νούς si deve esprimere in merito a ciò che percepisce, non si rivolge ad esso considerandone l’unità e la singolarità dell’essenza,… Non lo considera come facente parte del tutto, cioè del linguaggio. …bensì lo nomina e ne parla “a seconda delle circostanze”, cioè secondo quello specifico aspetto che il fenomeno offre in quello specifico momento. Così come qualche cosa io “credo” mi stia apparendo. Questa modalità del nominare si consolida e si irrigidisce, formando così un mondo peculiare del sapere linguistico, il quale poi guida ogni conoscenza, imponendo la propria legge a ogni dimostrazione e a ogni esigenza di dimostrazione. Le dimostrazioni sono costruite sul credere di sapere. È la δόξα la condizione perché ci siano dimostrazioni. Lo abbiamo già visto in passato, addirittura con Mendelson, logico matematico, che considera che l’induzione, da cui procede poi la deduzione, a sua volta procede dall’analogia, da una similitudine: due cose si somigliano: una cosa va bene per l’una, quell’altra le assomiglia, quindi, andrà bene anche per l’altra. La nominazione dei fenomeni, quindi la loro fissazione, non deriva mai dalla comprensione concettuale dell’essere,… Noi nominiamo le cose continuamente, ma questo nominare, ci sta dicendo, non viene dalla nostra comprensione dell’essere, dalla nostra comprensione del linguaggio. Per nulla. Ponendosi piuttosto di volta in volta nella prospettiva di una specifica visione in cui l’ente si offre, che si fissa appunto “a seconda” di come essa coglie più o meno nel segno. È per questo che il significato e il peso della parola debbono essere sempre preservati e mantenuti tramite la conoscenza dell’essenza, che rende al tempo stesso comprensibile la relativa giustificazione, anzi la necessità della parvenza. La parvenza è necessaria per proseguire. L’unico frammento da cui apprendiamo qualcosa in merito al δοξάζειν – e precisamente nella sua necessaria relazione con la parvenza – è il frammento 16. È Parmenide che parla. Infatti, a seconda di come di volta in volta la percezione si mantiene in una mescolanza del corpo molto errante, così essa è a disposizione degli uomini, poiché tale percezione (comune) è lo stesso di ciò che pensa (opina) la manifestazione corporea degli uomini, in tutti e in ognuno. Infatti, il di più (ciò che ha più peso) è ogni volta, il percepire. Sta parlando in un mito. Ci sta dicendo che la percezione si mantiene in una mescolanza del corpo. Noi percepiamo normalmente con il corpo, con i nostri sensi, un corpo molto errante, che va di qua e di là. È così che questa percezione è a disposizione degli uomini, percepiamo ma non sappiamo che cosa. Poiché tale percezione (comune) è lo stesso di ciò che pensa (opina) la manifestazione corporea degli uomini: ciò che io avverto, che percepisco è ciò che mi si manifesta, ma mi si manifesta in base a ciò che io penso. Certo, lo aveva già detto prima, qui lo ridice, è in fondo sempre la stessa questione, e cioè io vedo ciò che opino, ciò che penso, ciò che credo, ciò che ritengo essere. Qui si dice anzitutto chiaramente che la percezione accade nella corporeità. Quest’ultima è qualcosa che si mescola ed è essa stessa mescolata: nella nascita, nella morte, nella procreazione e in ogni altra azione essa appare in qualche modo necessariamente in termini sensibili, col che non ci si riferisce per esempio solo agli organi di senso, ma alla sensibilità come ciò che regge e domina completamente l’intera disposizione dell’uomo, appunto il modo in cui egli di volta in volta si sente. Qui fa un accenno, non lo riprende ma lo riprenderà altrove: la nostra sensibilità è connessa al modo in cui ciascuna volta ci si sente. La parola che in questi casi usa Heidegger è Stimmung, che in tedesco significa disposizione d’animo o, come si traduce spesso, tonalità affettiva. Ma la disposizione d’animo di che cosa è fatta? È fatta delle cose che penso, della δόξα. E Parmenide infatti qui ci dice: come ciò che è inteso nell’opinare, cioè le cose apparenti, è fatto di volta in volta di luce e oscurità, leggerezza e pesantezza, così anche l’opinare è, a seconda delle circostanze, esso stesso o rischiarato, lucido e leggero, oppure confuso, torpido, pesante e gravoso – di volta in volta diverso in tutti e in ognuno. Avrebbe anche potuto dire che ciascuno vede quello che gli pare. Non resta quindi che tenere conto del fatto che il percepire è corporeo, e che quindi anche il percepire puro, nel percorrere la prima via, non è mai di per sé libero di librarsi, ma è ciò che è solo nel contrasto con l’erranza e il dissidio del divagare del corpo. Non per questo però il corpo è, secondo la concezione cristiana, il male; esso rappresenta piuttosto la più necessaria delle potenze, nel senso del δεινόν: al tempo stesso spaesante e massimamente influente. Siamo alla Conclusione, che merita di essere letta. Per un certo tratto abbiamo condiviso il domandare che pone la domanda iniziale dell’essere. Dalla nostra considerazione intermedia sappiamo che non si tratta di una domanda strana e antiquata. Rammentando tale considerazione, dobbiamo ripensare alla comprensione dell’essere – a ciò che l’“è” dice. Che cosa diciamo quando diciamo che una cosa è qualche cos’altro. Questa “è” cosa ci sta dicendo? Tutto il libro, in fondo, ci ha raccontato questo: che ne è di questo “è”, che diciamo ininterrottamente. Che cosa ne è risultato? Non molto. Nulla. Forse l’unica cosa che abbiamo imparato è questa: non è così che si deve domandare, se vogliamo davvero capire. Abbiamo condiviso e riproposto la domanda dell’essere. L’essere inizia a diventare degno di domanda. Comprendiamo qualcosa di quel loro e consunto “è” – o per lo meno comprendiamo che nel suo caso c’è qualcosa da capire. Si tratta di una comprensione concettuale che ha la sua propria legge e la sua misura peculiare. La legge della filosofia. La filosofia ha la sua propria legge. Come noi ci rapportiamo a questo fatto dipende solo da noi. Possiamo aprirci a esso e soffermarci in esso – ma possiamo anche restarne esclusi. Come sempre, del resto. Ciò che rimane è la tremenda grandezza di quest’opera all’inizio così modesta. Se ne sta lì da due millenni – se ne sta lì per il futuro. Soprattutto, essa si erge contro la massa di chiacchiere e scribacchiature che riempiono volumi su volumi di tutti i dotti del nostro tempo. Su questo non ha torto, questa opera di Parmenide se ne sta lì da millenni e continua a parlare. Ma bisogna ascoltarla, dice Heidegger, se non la si ascolta è muta, non dice niente. C’è poi un Appendice dove ci sono Abbozzi e annotazioni relativi al corso. Ci sono cose interessanti che meritano di essere prese in considerazione. Sono appunti che Heidegger prendeva nella preparazione del corso a Friburgo. Alcune cose sono quasi a carattere aforistico, molto dense, condensate, però danno da pensare. A pag. 247. L’ente: non questo singolo, bensì tutto? Secondo il numero – la totalità. No! Non tutto! Perché no? Appunto perché non possiamo mai cogliere tutto, né lo abbiamo mai colto? Per cogliere “tutto” – ovviamente, anche solo una molteplicità di cose secondo il numero – dobbiamo afferrare e riunire il singolo ente. Tuttavia non troviamo mai, in nessun caso, solo un singolo ente, poiché l’afferrare è sempre uno strappare via da altro; iniziare con un singolo ente – e prima – nulla? Certamente no. Quindi: abbiamo sempre già più del singolo ente e del numero – per quanto grande sia –, più di tutto, eppure non abbiamo mai il totale – il numero completo. Questo è interessante, quando dice strappare via il singolo ente per poterlo analizzare.
Intervento: Toglierlo dalla relazione.
Esattamente. È quello che fa la linguistica, e in definitiva tutte le scienze, e che devono fare, perché sennò non possono fare nulla. Ma ecco l’avvertimento della dea ‘Aλήθεια: non dimenticare mai che stai strappando qualcosa al tutto. Un tutto che è qui mentre dici l’ente. Non è quel tutto, il concreto, che bisogna aspettare quando tutti gli astratti parteciperanno del tutto (Severino). No, è già qui. Essere e non-essere e δόξα è necessario che siano insieme, secondo necessità, dice. A pag. 249. Per cogliere l’ente non c’è bisogno di artifici e contorsioni – basta solo allentare i vincoli che ci legano a ciò che di volta in volta ci importuna con la sua invadenza e casualità. L’ente fa questo, importuna continuamente, costringe a occuparsi di lui, incessantemente, per via della volontà di potenza. È la volontà di potenza che deve dominare l’ente, tutti gli enti. Se ne rimanesse anche solo uno non dominato, sarebbe un depotenziamento. E, quindi, ecco la ricerca continua, incessante, furiosa, talvolta, di nuovi enti sempre da dominare. Ma per potere pensare di dominare l’ente devo strapparlo dal tutto, prima di ogni cosa: pensare di averlo strappato al tutto, cioè alla relazione, al linguaggio. Questo “nel suo insieme” è qualcosa di vago e tuttavia di affatto determinato; sta intorno a noi e prima di noi, sotto di noi e sopra di noi, e noi vi siamo inclusi; tanto nell’angustia più ristretta quanto nell’ampiezza più vasta è sempre in qualche modo unito e compiuto; raccoglie il molteplice sotto di sé e lo accorda con se stesso; è familiare e provato – in un’appartenenza che non necessita di conferma – e ciò che è nuovo ed estraneo – non sopravviene “in aggiunta” dall’esterno – bensì scaturisce dal suo interno. Questo è preciso rispetto al linguaggio. Non è che qualcosa si aggiunge dall’esterno, ma scaturisce da lui stesso. È il linguaggio che produce le cose. Come dicevamo tempo fa, anche le cose che avverranno tra mille anni sono già qui presenti. A pag. 250. d) κατά τό χρεών. Ciò che ci viene detto dell’ente non è una cosa tra le altre, ma è la necessità. Non è un arbitrio – non è una scelta – non è un mero dato di fatto – e nemmeno una qualche situazione immutabile – poiché l’ente è costretto nella costrizione – con ogni apparire e in ogni apparire viene alla luce la costrizione – la necessità viene alla luce nell’ente. È l’ente, ciò che appare, che ci mostra la costrizione, per il solo fatto che ci appaia. Perché ci appare? A partire da che cosa? In base a che cosa possiamo dire che qualcosa ci appare? Ciò che è stato enumerato in merito all’ente – come stanno le cose al suo riguardo – al riguardo dell’ente – dell’ente in quanto ente – il modo in cui l’ente è – l’essere. Detto più chiaramente: provenienza e scomparsa (apparire) – stessità (ma che significa? Coappartenenza reciproca) del donde e del colà – il venire alla luce della costrizione. Come costretti dalla stessità. Venire alla luce della costrizione: è la simultaneità dei tre momenti che consente di venire alla luce, cioè l’esistere di qualche cosa, sennò non esisterebbe nulla, non sarebbe mai esistito. A pag. 253. Essere e apparire: modalità dell’apparire! Giorno – notte (e simili) come primo riferimento – maggiore perspicuità! Singoli esempi? Casi particolari? Fuorviante! Giorno e notte – l’apparenza originaria – il fenomeno fondamentale. In che senso? Come cornice di fondo – o come fenomeno più frequente? Sono domande che lui si poneva per poterle poi svolgere durante il corso. Fa scaturire tutto l’apparire: mare e terra, bosco e montagna, uomo e animale, casa e fattoria. Sovranità della notte. Nel chiarore della luce appare l’ente! La luce – il sole – il tempo – ciò che fa accedere l’ente all’essere. /…/ Ogni ente appare – si installa e si produce – si stacca e si staglia – per contrapposizione. È la discordia di cui parlava Anassimandro. Apparire: comparire e, in quanto comparire, entrare nella delimitatezza – sorgente entrare nella delimitazione. Esperienza originaria. /…/ Anassimandro: l’ente corrisponde all’accordo, in cui esso fa ritorno nel donde – scompare. A pag. 255. Il venire alla presenza è dis-accordo, e questo necessariamente – intendendo la scomparsa come accordo –… È nell’accordo che le cose scompaiono, non si vedono più perché non c’è delimitazione. …è dis-accordo in quanto: venire verso la presenza – mentre l’accordo è: andare via dall’essere presente. A pag. 257. C’è una citazione tratta da Eschilo. Non hai dunque proprio alcuna premeditazione in te – non sei affatto quello per cui ti si prende e a cui ci si rivolge nominandoti. Il nome è una nominazione che induce all’errore –esso svia verso qualcosa – che non è per nulla lì presente. Ciò che io nomino non è presente: è questo che ci sta dicendo. Ma cosa non è presente? Tutto ciò che fa sì che una certa cosa sia quella cosa non è presente. In effetti, le cose esistono nel disaccordo, quindi appaiono, ma perché c’è un accordo che non appare. A pag. 263. Riguardo a c) ciò che a noi appare ovvio e abituale – è però solo l’indeterminatezza di un qualcosa di totalmente incomprensibile – quasi soltanto una parola. La superficialità di tutto ciò che è abituale. A pag. 266. Essere in quanto apparire; ma all’apparire appartiene lo scomparire – quindi si ha a che fare anzitutto e in primo luogo con un dispiegare la propria essenza nella contrapposizione reciproca, concedendo l’accordo nel rispetto del dis-accordo;… A pag. 268. …non v’è alcun dubbio che ogni interpretazione si muova all’interno di un insieme di presupposti. Bisogna chiedersi però se essi si collochino sullo stesso piano della “materia” trattata, e siano quindi altrettanto accessibili e constatabili – e più ancora se la pubblica esibizione di tali presupposti ne costituisca già di per sé la legittimazione, ovvero la renda superflua. Pensarla in questo modo significa tuttavia muoversi all’interno di rozzi pregiudizi riguardo all’essenza dei presupposti di un’interpretazione. A pag. 269. Quante cose in più “abbiamo” di Parmenide e di Eraclito? Forse che per questo la loro interpretazione è anche solo minimamente migliore e meno problematica? E che dire poi di Platone e Aristotele? Che cosa si è capito del loro autentico domandare? L’ampiezza di scritti disponibili offre solo l’occasione per ripiegare su questioni secondarie, per un rapido e superficiale assemblaggio di sovrastrutture sistematiche artificialmente escogitate – dalle quali ogni domandare è fuggito. Alla fine rimane solo il pericolo di svignarsela di fronte all’autentico sforzo del domandare – il pericolo della fuga nell’agiatezza del navigare tranquillamente in acque tanto sconfinate quanto torbide. A pag. 271. 1. L’inizio è ciò che vi è di più grande – quindi non lo si prenderà mai in modo abbastanza grande. 2. Noi siamo, è vero, progrediti, ma ciò significa che siamo stati sempre meno all’altezza dell’inizio. 3. Finora l’inizio c’è stato inutilmente.