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28 dicembre 2016

 

Siamo sempre al Seminario del 6 e 8 luglio 1965 a pag. 151. La misurabilità delle cose è, invero, qualcosa in cui Loro, in quanto scienziati naturali, si muovono costantemente, qualcosa che espressamente Li concerne continuamente. La misurabilità, dunque, non è certo per Loro una cosa indifferente. Una cosa diventa misurabile solo in quanto Loro la misurano? No. Dunque, la misurabilità dipende per lo meno anche dalla cosa. In che cosa si fonda, allora, la misurabilità? La misurabilità a lui interessa perché tutta la scienza è fondata sulla misurabilità, sul calcolo, sulla calcolabilità. Nell’esser estesa della cosa. Prendano di nuovo il nostro vecchio esempio, questo tavolo davanti a noi. Il piano del tavolo è circolare. Loro possono misurare il suo diametro. Possono fare ciò solo in quanto il tavolo è esteso. La misurabilità è, però, una determinazione del tavolo, tale quale lo è la sua durezza o il suo colore marrone? Dico qualcosa del tavolo, quando affermo di esso che è misurabile? Dico solo qualcosa della relazione del tavolo con me, laddove questa relazione è il mio misurare, il mio rapportarmi misurante al tavolo. Qui ritorna la questione di cui dicevamo la volta scorsa, e cioè che io sono quel tavolo anche in un certo modo, che adesso lui ci dirà. Da un lato, la misurabilità è fondata nell’essere esteso del tavolo. Questo si può misurare. Dall’altro lato, la misurabilità nomina nel contempo la possibilità del rapportarsi misurante dell’uomo al tavolo. Il fatto che sia misurabile comporta la necessità che ci debba essere qualcuno che possa misurarlo, è questo che mette in relazione l’uomo con il tavolo, è l’uomo che misura, questo tavolo è misurabile per me, non è misurabile in assoluto. Nel discorso della misurabilità è, dunque, nominato qualcosa che concerne tanto il tavolo, quanto il rapportarsi umano ad esso. Si dà qualcosa che nomini entrambi nella loro coappartenenza? La misurabilità non appartiene alla cosa, e nemmeno è esclusivamente un’attività dell’uomo. La misurabilità appartiene alla cosa in quanto oggetto. Il misurare è possibile solo se la cosa venga pensata in quanto oggetto, rappresentata nella sua oggettività. (pagg. 151-152) Cioè, questa cosa deve essere pensata in quanto oggetto, in prima istanza. È perché è un oggetto che è misurabile, calcolabile, ma perché sia pensata come oggetto occorre che ci sia io che la penso come un oggetto. Questa è la relazione con la cosa, che non può darsi senza qualcuno che consideri quella cosa una cosa. Misurare è un modo in cui io posso lasciarmi star-di-contro una cosa essente-presente a partire da se stessa; in considerazione, cioè, della sua estensione, meglio, del quanto della sua estensione. Il misurare, quindi, è uno dei modi con cui io sono presente a questa cosa che è qui. Quando presso il falegname viene ordinato un tavolo in quanto tavolo di una determinata grandezza, esso nella produzione diventa oggetto di una misurazione della sua larghezza e altezza. Se voglio far fare un tavolo a un falegname, dovrò pur dirgli come lo voglio questo tavolo. Tuttavia, prese per sé, queste misure non determinano l’effettualità del tavolo in quanto tavolo, vale a dire in quanto questa determinata cosa d’uso. La misurabilità è sì una condizione necessaria della producibilità del tavolo, ma non è mai la condizione sufficiente per il suo essere tavolo in quanto tale. Perché la condizione del tavolo di essere tavolo in quanto tale e che ci sia io che lo consideri un qualche cosa e che sappia che questo qualche cosa è un tavolo. Tuttavia, nella scienza della natura, la misurabilità ha questa importanza decisiva, deve necessariamente averla, in quanto il pensiero scientifico-naturale concepisce di principio l’essere delle cose in quanto oggettività caratterizzata dalla misurabilità. Potremmo aggiungere noi: e basta. La cosa è determinata dalla sua misurabilità, indipendentemente dalla presenza di qualcuno, per Heidegger non è così, il tavolo è per qualcuno. È esattamente la stessa questione che diceva rispetto al tempo, il tempo è sempre tempo per qualche cosa. Ma a questo punto potremmo dire che anche una qualunque cosa è sempre una qualunque cosa per qualcosa, cioè è inserita all’interno del progetto, è questo che dà all’ente la sua enticità. Poi prosegue nella seconda parte e siamo al 6 luglio 1965, pag. 152. A che pertiene l’oggettività, che la scienza della natura vede in quanto essere delle cose? Per la scienza l’essere delle cose la natura delle cose sono la stessa cosa, cioè le cose quelle che sono in quanto tali, e basta. Essa pertiene al fenomeno che per l’uomo possa divenire manifesto un essente-presente in quanto essente-presente. Dice semplicemente che per la scienza della natura si tratta soltanto di un qualche cosa che è essente-presente e come tale è un oggetto che può essere preso in considerazione, cosa che non è così per Heidegger. Qualcosa di essente-presente può, però, venire esperito anche in modo tale, che esso, schiudendosi da sé, venga esperito in se stesso. È un po’ il concetto dell’λήθεια. Questo vuole dire ϕύσις, in senso greco. Ciò che si manifesta, ciò che si dischiude, ciò che appare. Nel pensiero greco e in quello medioevale non si dà ancora il concetto dell’oggetto e dell’oggettività. … L’oggettività è una determinata modificazione dell’essere-nell’essere-presente delle cose. È un modo con cui a un certo punto gli umani hanno deciso di pensare le cose, non sta nelle cose questa oggettività, le cose non sono oggettive, le cose sono quelle che sono all’interno di un progetto, mentre per la scienza sono e basta. L’esser-presente a partire da sé di una cosa viene qui inteso nel suo esser-rappresentato da parte di un soggetto. Ricordate, soggetto e oggetto, quindi l’oggetto è presente in quanto io soggetto mi rappresento l’oggetto che è da un’altra parte. L’esser-nell’esser-presente viene inteso in quanto esser-rappresentato. Esso non viene più preso in quanto ciò che è dato a partire da sé, bensì in modo che esso si contrapponga a me in quanto soggetto pensante, venga ob-jectato in me. Sono io che, in quanto soggetto, mi rappresento l’oggetto e quindi stabilisco che l’oggetto esiste, è un essente-presente perché c’è un soggetto che lo fa essere tale e quindi non è come per il pensiero greco che l’oggetto si manifesta, esce dal nascondimento e mi si mostra in qualche modo, mi si svela. Nel pensiero greco non c’è il concetto di soggetto così come lo pensiamo noi, non è il soggetto che si rapporta e che si rappresenta l’oggetto ma è l’oggetto che si manifesta. E, quindi, non c’è il concetto di dominio, di controllo, di misurabilità, non è necessario, io semplicemente mi rapporto in qualche modo con ciò che mi appare nel modo in cui questa cosa mi appare. Non c’è il soggetto che vuole dominare, per il greco antico. Questo è quello che dice Heidegger, poi è tutto da vedere. Da tutto ciò Loro vedono che non si può comprendere sufficientemente questo intero fenomeno della misurabilità, se non si ha presente la storia del pensiero. La differenza fondamentale risiede in ciò, che l’una esperienza, la prima, intende l’ente in quanto essente-presente a partire da se stesso. Per l’esperienza moderna, qualcosa è essente solo in quanto venga rappresentato da me. La scienza moderna riposa su questo mutamento nell’esperienza dell’essere-presente dell’ente ad oggettività. sarebbe, tuttavia, assurdo interpretare questo mutamento dell’esperienza come una mera macchinazione dell’uomo. Al termine di questo seminario, si deve, nondimeno, abbordare ancora di nuovo la misurabilità. Che cosa accade, quando misuro qualcosa? Che cosa accade, se misuro, per esempio, il diametro di questo tavolo? Insiste sulla misurabilità perché è il principio fondamentale su cui si basa la scienza, anzi, è ciò stesso che determina se qualcosa è scientifico, per dirla così. Il misurare è sempre un comparare, e cioè nel senso che si compara il diametro, per esempio il diametro del piano del tavolo, con una misura scelta. Ciò che si compara, lo si prende riguardo al “quante volte”, e si prende in tal modo la misura. Se questa cosa qui è 10 o 12 cm, lo prendo e faccio uno, due, tre, quattro, cinque, ecc., e faccio poi la somma e ho misurato la lunghezza del tavolo. Tuttavia, già il mero stimare è un comparare. Ciò è qualcosa di diverso dal misurare. Lo stimare diventa un misurare, quando realmente applico il metro a ciò che deve essere misurato, e precisamente in modo da “percorrere misurando a passi” con il metro il diametro, conducendo il metro lungo il diametro, in modo tale da applicare sempre di nuovo l’inizio del metro proprio nel punto in cui precedentemente era la sua fine, e in ciò contando quante volte posso farlo. Quello che lui voleva sollevare qui era la differenza tra lo stimare e il misurare. Quando io stimo, di fatto, non misuro, non faccio quell’operazione: quanto è lungo questo tavolo? Sarà 2 metri. Non l’ho misurato, l’ho stimato. Invece, non ogni misurare è necessariamente un misurare quantitativo. Se prendo conoscenza di qualcosa sempre in quanto di qualcosa, allora mi commisuro a ciò che la cosa è. Questo commisurarsi a ciò che è dato è la struttura fondamentale del rapportarsi dell’uomo alle cose. Dice mi commisuro a ciò che la cosa è, cosa vuol dire questo? Dice io mi commisuro se prendo conoscenza di qualche cosa, allora in quel caso mi commisuro a quella cosa, e cioè inizio quel processo di misurabilità, di calcolabilità della cosa. In ogni comprensione di qualcosa in quanto qualcosa, per esempio del tavolo, mi commisuro a ciò che è compreso. Perciò si dice anche che ciò che diciamo circa il tavolo sia un dire commisurato-adeguatamente ad esso. Usualmente, la verità circa una cosa viene definita anche in quanto adæquatio intellectus ad rem. Anche ciò è una adeguazione; un costante misurarsi dell’uomo con la cosa. Qui, però, ne va di un misurare in un senso del tutto fondamentale, in cui solo è fondato ogni misurare scientifico-quantitativo. In effetti, anche quando si parla di adeguamento della parola alla cosa, è sempre un misurare. Se io dico che la proposizione che afferma che “Cesare è qui, in questo momento davanti a me” è una proposizione vera, questo significa che è vera se e soltanto se Cesare è qui davanti a me, in questo momento. Io ho commisurato la proposizione che afferma una certa con un’altra cosa che è ciò che io considero la realtà. Come il famoso esempio di Tarski: “la neve è bianca” se e soltanto se la neve è bianca. Quindi, ci sta dicendo Heidegger che ogni rapportarsi con le cose, dopo Cartesio, è sempre e comunque un commisurarsi. Infatti, parla della verità, la verità circa una cosa viene definita anche in quanto adæquatio intellectus ad rem, la verità è questa adeguatezza, quindi questa possibilità di misurazione, che è la verità della scienza, la verità in quanto episteme. Il rapportarsi dell’uomo alla misura non viene colto pienamente attraverso la misurabilità quantitativa, da questa non viene nemmeno posta la questione circa di esso. Il rapportarsi dell’uomo a un che di normativo è una relazione fondamentale con ciò che esso è. Esso appartiene alla stessa comprensione dell’essere. (pag. 154) Dice Il rapportarsi dell’uomo a un che di normativo è una relazione fondamentale con ciò che esso è. Esso appartiene alla stessa comprensione dell’essere. Per la scienza, naturalmente. Certamente, tutte queste cose sono soltanto degli accenni. Anche io li dico soltanto per far diventare visibile il discorso della misurabilità in senso quantitativo nella sua limitazione. Questa limitazione consiste nella riduzione dell’essere-nell’esser-presente al suo rapporto con l’uomo che rappresenta nel senso dell’oggettività. questa limitazione è determinata dal fatto che si pensa qualche cosa in relazione all’uomo come soggetto che stabilisce l’oggetto, che rappresentando qualcosa lo pone come oggetto inerte. Nella fisica nucleare, a seguito di una ancora ulteriore limitazione, non si danno nemmeno più oggetti. Loro diranno che ciò costituisce un’ovvietà. Soltanto, questo rinvio alla necessarietà di un metodo d’indagine venne espresso qui per la prima volta. L’asserzione si rivolgeva contro la Scolastica, la quale, nelle sue asserzioni, non partiva dalla cosa stessa, bensì si basava su ciò che le autorità già avevano detto intorno ad essa. Questa è la differenza sostanziale tra il metodo scientifico e il non metodo, quello del Medioevo: la scienza cerca le cause, la Scolastica invece non le cercava perché la causa era dio, quindi, che cosa devo cercare? Anzi, se cercassi la causa metterei in dubbio l’esistenza di dio e, quindi, verrei bruciato sul posto. Quindi, per indagare la verità di dio non ci serve un metodo, è rivelata. Siamo all’8 luglio 1965 ma saltiamo un po’ e andiamo a pag. 154. Questa parola “metodo” è composta dal greco μετά e όδός. ή όδός significa la via. Μετά significa: oltre, verso di. Metodo è la via che conduce verso una cosa, verso un ambito oggettuale, la via per la quale perseguiamo una cosa. Questo per il greco antico, e cioè una via che conduce verso una cosa, quindi non porta verso nessuna verità, questo è fondamentale, è una via che ci porta verso qualcosa. Il metodo per la scienza moderna non è questo, sì, anche, ma non è questo che importa, importa che il metodo porti alla verità, misurando giunga a stabilire la verità. A pag. 156 dice Ora, però, poiché la misurabilità e il misurare contraddistinguono in maniera normativa il tema della scienza naturale e la sua tematizzazione, ci vediamo costretti ad abbordare espressamente le questioni della misurabilità e del misurare. Cioè, lui dice, dobbiamo fare i conti con la scienza, con il metodo della scienza. Giacché solo con l’aiuto di questo chiarimento siamo in grado di vedere fino a che punto il fenomeno del corpo si opponga alla misurabilità; quale tutt’altro metodo richiedano la determinabilità e l’interpretazione dell’esser-corpo del corpo a partire da se stesso. Ricordate, diceva, la paura, ecc., non è misurabile. È superfluo esporre dilungatamente che il compito, dinanzi a cui ci vediamo posti, è inusitatamente difficile. Esso lo è, in quanto gli stati di cose, che bisogna trattare: misurabilità, metodo, fenomeno del corpo, sono in fondo del tutto semplici, mentre al nostro assuefatto rappresentare fa impressione solo il complicato e le dispendiose apparecchiature per il suo trattamento. Era lui che era inquietato dalle apparecchiature moderne, che non capiva bene come funzionassero. Il semplice, nella sua semplicità, non ci dice quasi più nulla, in quanto l’assuefatta maniera scientifica di pensare ha rovinato la capacità di stupirsi di ciò che è presunto come ovvio, e proprio di questo. Questa notazione dice, in effetti, qualche cosa: non ci si sorprende delle cose perché non si lascia che queste cose si mostrino, ci vengano incontro, ma noi vogliamo bloccarle come oggetti, misurarle, vogliamo sapere tutto di loro, che poi in realtà non sappiamo niente. L’idea della scienza è però questa. Epperò, se questo stupirsi non si fosse mai destato e non fosse stato mantenuto presso i pensatori greci, non ci sarebbe alcuna scienza europea e alcuna tecnica moderna, intorno a cui ora, fin nei cosiddetti mass-media, viene organizzata una idolatria, in confronto a cui la presunta superstizione dei popoli primitivi si presenta come un gioco da bambini. Doveva esserci adesso! Che perciò oggi, nell’odierno carnevale di questa idolatria (vedi il baccano per l’impresa cosmonautica), perché idolatria? Perché si pensava che ciò che scienza stava facendo in quel momento fosse il raggiungimento della verità) voglia preservare ancora una qualche riflessività, chi addirittura si dedichi oggi alla professioni assistere l’uomo psichicamente malato, questi deve sapere che cosa succede; deve sapere dove egli sia storicamente; deve quotidianamente rendersi chiaro che qui è ovunque all’opera un destino, proveniente da lungi, dell’uomo europeo; egli deve pensare storicamente e desistere dalla incondizionata assolutizzazione del progresso, nel cui risucchio l’esser uomo dell’uomo occidentale minaccia di tramontare.

Intervento: questa è una bella lezione per la psicologia. Infatti, la psicologia isola il soggetto.

Non lo considera nella sua storicità: prende un elemento, l’uomo, e lo considera rispetto a un malfunzionamento che è pensato tale relativamente a qualche cosa che si suppone debba essere un funzionamento corretto, come una macchina, appunto. Quindi, fa quell’operazione che per Heidegger è l’oggettivazione; come dire che c’è lo psichiatra, che è il soggetto, e c’è il paziente che è l’oggetto, da prendere in considerazione; quindi, dimenticando tutto ciò che per Heidegger è fondamentale, riprendendo il pensiero antico: questa cosa che ha di fronte, l’oggetto, quindi, questa persona, non è un elemento che è avulso dal soggetto ma io sono quello che sono, in quel momento, perché sono in relazione con quella persona, la quale lo sarà, ovviamente, nei miei confronti. Quindi, non mi posso trovare nella condizione di considerare quella cosa un oggetto e manipolarlo come se questo oggetto fosse astorico, fuori da un contesto, fuori da un progetto, fuori da un pensiero. Prosegue La potenza della civilizzazione mondiale è diventata già tanto irresistibile, che auguri della decomposizione dell’esserci umano usano il termine di uomo occidentale solo ancora in un senso sarcastico, e che i festival cinematografici vengono decantati quali prestazioni di punta della cultura. Ponderando tutto ciò costantemente e fondamentalmente, dovremo un giorno considerare se la riflessione sulla misurabilità e sul misurare sia solo una cosa noiosa, di cui non possiamo farcene nulla nella professione medica. Nel suo volume, apparso come tascabile nel 1961, Grundfragen der psychosomatischen Medizin, Thure von Uexküll schernisce i “medici filosofanti”, appellandosi, di fronte ad essi, alla “coscienza critica” della scienza. Egli non vede che la scienza, in ogni angolo, è dogmatica in misura difficilmente rappresentabile, vale a dire, lavora con rappresentazioni e pregiudizi non meditati. Da un’altra parte ha detto che la scienza non pensa. Costituisce la suprema necessità, che si diano dei medici pensanti, i quali non siano disposti a cedere il campo ai tecnici della scienza. (pagg. 156-157) Lui sta parlando davanti a dei medici ma, ovviamente, questa cosa la si può allargare a qualunque cosa. A pag. 158 dice Calcolo è originariamente: far conto su qualcosa, cioè metterlo in conto e in ciò insieme fare i conti con qualcosa. Far conto su qualcosa e fare i conti con qualcosa significa: avere di mira qualcosa, e in ciò prendere in considerazione dell’altro. Il misurare è un calcolare in questo senso. Cioè, prendere in considerazione dell’altro, avere di mira qualcosa. Torniamo alla questione precedente del tempo, cioè dell’essere sempre per qualcosa, trovarsi sempre presi all’interno di un progetto, questo è fondamentale per intendere quello che sta dicendo. Se, ad esempio, “contiamo” sul fatto che altri prendano parte ad un determinato proposito, in questo contare, il numero, in quanto indicazione di un quanto, non ha alcuna importanza. Se la ricerca scientifico-naturale ed il suo tema, la natura, vengono caratterizzati dalla misurabilità, in tal caso questa misurabilità la pensiamo in modo insufficiente, se opiniamo che si tratti solo di una provvista di determinate constatazioni numeriche. Sta parlando dei modi con cui generalmente si intende il far conto. Misurabilità intende in verità calcolabilità; vale a dire, una considerazione della natura, tale, che garantisca un sapere su che cosa possiamo far conto nei suoi processi, con che cosa in essi dobbiamo fare i conti. Questo è il concetto di misurabilità, che significa quindi qualcosa che garantisca un sapere, questa è la questione fondamentale: che garantisca un sapere. Se io dico “faccio conto che alla mia conferenza ci siano 400 persone”, questo non mi dà nessuna certezza, di nessun tipo, abbiamo fatto un così, un pensare. Invece, fare i conti con qualcosa per la scienza è un sapere che riguarda la certezza. Calcolabilità, però, significa precalcolabilità. Cioè, perché qualche cosa sia misurabile è necessario che questa cosa sia pensata come misurabile. Questa è però determinante, in quanto ciò che importa è la dominabilità dei processi naturali. Tutto ciò è in vista della dominabilità. Potremmo dire, addirittura, che tutta la scienza è in vista della dominabilità, e spingendoci oltre tutto il pensiero è in vista della dominabilità delle cose. Dominabilità, però, racchiude in sé la disponibilità sulla natura, una specie di possesso. Nella sesta parte, quella finale, del suo fondamentale scritto intitolato Discours de la methode, Descartes scrive che ciò che importa nelle scienze sarebbe di “renderci padroneggiatori della natura e possessori, proprietari della natura”. Quindi, ciò che importa nella scienza è questo, lo dice Cartesio che possiamo dire è il fondatore della “scienza moderna”. Ciò che importa nella scienza è effettivamente quello di renderci padroni della natura, è una fantasia di possesso. Il metodo della nuova scienza, vale a dire, della scienza moderna, consiste nell’assicurare la calcolabilità della natura. (pag. 159). Questo è il compito del metodo, garantire che la natura sia misurabile, cioè dare la certezza della misurabilità, della calcolabilità e, quindi, del possesso. Conformemente a ciò, per la scienza moderna, il metodo ha un ruolo peculiare. Considerando ciò, possiamo per lo meno presagire che la quarta regola delle Regulae di Descartes, addotta nell’ora precedente, intenda qualcosa di diverso dal luogo comune che la scienza in quanto ricerca abbisogni nell’indagine di un modo determinato del suo procedere. “Il metodo è necessario per pervenire sulle tracce della verità delle cose”. Alla comprensione di questa proposizione appartiene, invero, che noi prestiamo seriamente attenzione a che cosa significhi qui veritas rerum, verità delle cose. La parola res non significa qui semplicemente cosa nel senso di qualcosa di essente-semplicemente-presente in qualche modo. Il significato della parola res è determinato canonicamente attraverso le due precedenti regole, la seconda e la terza. La seconda regola suona: “È consigliabile soffermarsi solo nell’ambito di quegli obietti, vale a dire, oggetti, per la cui sicura ed indubitabile conoscenza sia sufficiente il nostro talento naturale”. Attraverso questa regola vengono presentate, proposte alla scienza, in quanto possibili oggetti, delle cose del tutto determinate. In questa regola è già pronunciata una decisione circa il carattere fondamentale di ciò che solo può essere tema della scienza della natura. Ciò che è misurabile, ciò che si può pensare come misurabile. Perciò la successiva terza regola parla già di objecta proposita, degli obietti proposti alla scienza fin dal principio. “quanto all’ambito degli oggetti così posti preliminarmente, non si deve ricercare ciò che altri ne abbiano opinato, né ciò che noi stessi ne opiniamo, bensì ciò che possiamo immediatamente scorgere in modo chiaro ed evidente ovvero sicuramente dedurne. In nessun altro modo, infatti, viene conseguita la conoscenza scientifica”. Cioè, non dobbiamo seguire ciò che altri hanno opinato o pensato ma unicamente ciò che è calcolabile, unicamente ciò che noi riusciamo a pensare come calcolabile, solo questo e soltanto questo è un progetto scientifico. Nella nuova scienza, questa proposizione delle res in quanto objecta… Qui le cose diventano oggetti, che per i greci non erano affatto oggetti … la preliminare impostazione delle cose in quanto oggetti, il fatto che esse debbano venir prese in considerazione solo in quanto oggetti, gioca il ruolo decisivo. (pagg. 159-160) In quanto oggetti, chiaramente qui è sempre presente il fatto che l’oggetto è tale in quanto c’è un soggetto che si rappresenta qualche cosa. Questa proposizione del tema della scienza in quanto oggettività, e precisamente in quanto oggettività di specie particolare, costituisce il tratto fondamentale del suo metodo. Nella scienza moderna, il metodo, non solo, come s’è detto, ha un’importanza particolare, ma la scienza stessa non è nient’altro che metodo. Metodo per calcolare. Torna di nuovo a porsi la domanda Che cosa significa, allora, metodo? Metodo vuol dire la via per la quale in generale solo viene dischiuso e delimitato il carattere dell’ambito da esperire. Vale a dire: la natura viene preliminarmente posta in quanto oggetto e solo in quanto oggetto di una totale calcolabilità. (pag. 160) Delimitato da che cosa? Delimitato dal fatto che soltanto quegli oggetti che sono pensati come calcolabili fanno parte dell’ambito degli oggetti. Vale a dire: la natura viene preliminarmente posta in quanto oggetto e solo in quanto oggetto di una totale calcolabilità. La verità rerum, la verità delle cose, è veritas objectorum, è verità nel senso della obiettività degli obietti, non è la verità in quanto realità delle cose essenti-presenti a partire da se stesse. Heidegger ha scritto “realità” in un modo diverso, Dinglichkeit, qui viene tradotto con realità, sarebbe stato più appropriato tradurlo con “cosità”. È la verità nel senso della calcolabilità e non la verità che muove dalle cose presenti a se stesse, che si manifestano. Verità non significa qui, dunque, manifestatività dell’essente-presente immediatamente; la verità è caratterizzata in quanto ciò che per l’io che rappresenti possa essere constatato in modo chiaro ed evidente, indubitabilmente sicuro, ossia certo. Questo è stato ciò che la scienza ha costruito come proprio metodo. Il criterio di questa verità in quanto certezza è quell’evidenza che noi conseguiamo allorché, dopo che è stato eliminato tutto ciò che in qualche modo è dubitabile, ci imbattiamo in quel che di indubitabile, che deve essere riconosciuto in quanto fundamentum absolutum et inconcussum, in quanto fondamento assoluto e inconcusso. Questo è ciò soltanto che ci dà oggi la verità scientifica, ciò che ha un fondamento assoluto e indiscutibile. Se dubito di tutto, in tal caso, con tutto il dubitare, quest’una cosa resta indubitabile, che io, che di volta in volta, dubito, esisto. La certezza fondamentale sussiste nell’evidenza che ego cogitans sum res cogitans. Io sono pensante, la cosa che pensa, che pensa se stesso. Io sono un qualcosa di pensante. Nella delucidazione alla terza regola, Descartes dice: “Ora, però, questa evidenza e certezza dello sguardo immediato è richiesta non solo nelle semplici asserzioni, bensì anche in qualunque discussione di uno stato di cose. Questo è il punto da cui è partita la scienza moderna: questa è la cosa più sicura che io possa avere perché io in quanto pensante sto pensando, che poi, dice Heidegger, non si applica più soltanto a me ma a tutte le cose. Questo punto di partenza lo applico a tutte le cose, nel senso che devo ritrovare nelle cose la stessa certezza. Più avanti dice, a pagg. 161-162: Ora, se, nell’evo mondiale del dominio di questa scienza, si tratta di aprire la via ad ambiti dell’essente di specie del tutto diversa ai quali l’esistenza dell’uomo appartiene, sopra ogni altro cosa è necessario acquisire uno sguardo approfondito nel carattere peculiare della scienza moderna e tenere incessantemente in vista ciò che è scorto, al fine di ponderare in senso autenticamente critico, vale a dire, distinguente, l’oggettivazione scientifico-naturale del mondo rispetto al mostrarsi di fenomeni di tutt’altra specie che si oppongono alla oggettivazione scientifico-naturale. Occorre trovare il modo per cui anche ciò che la scienza scarta, in quanto non misurabile, possa manifestarsi, dire qualcosa. Ora, in che modo, però, il metodo della scienza naturale moderna, espressamente per la prima volta pensato da Descartes, demolisca, vale a dire, qui, distrugga il mondo, che immediatamente ci concerne, delle cose quotidianamente familiari, per non parlare dell’opera d’arte, lo mostra Descartes stesso in un esempio, che egli discute nel suo capolavoro Meditationes de prima Philosophia, apparso nel 1641, e precisamente nella seconda meditazione, che porta l’eloquente, anzi perspicuo titolo: “De natura mentis humanae: Quod ipsa sit notior quam corpus”, “Sulla natura dello spirito umano, che esso sia fin da principio più noto del corpo-inanimato”. Questo, secondo tutto ciò che è stato ora esposto, significa: la assoluta autocertezza dell’uomo, in quanto soggetto poggiantesi su se stesso, contiene e dà le misure per la possibile determinazione dell’obiettività degli obietti. Cioè, la assoluta certezza del fatto che in quanto penso allora sto pensando, quindi sono, questo corrisponde alla misura per obiettivare, per conoscere qualunque cosa, come se utilizzasse questo, e cioè il fatto che io sono pensante e quindi penso qualche cosa, come se fosse la matita da utilizzare per misurare le cose. Verità , vale a dire, essente veracemente, vale a dire, certamente, può essere nel corpo-inanimato soltanto ciò che in esso sia calcolabile nel senso dell’evidenza matematica, cioè la extensio. Quindi, bisogna trovare che ci sia un’estensione per potere calcolare. Se non c’estensione non c’è il calcolo. Ma, per esempio, un’angoscia come la estendo? L’obiettività dell’obietto natura si determina secondo il modo della scibilità che il soggetto conoscente possiede riguardo a se stesso. Obiettività è una determinazione da parte della soggettività. È il soggetto che stabilisce che quello è un oggetto. Kant formula questo stato di cose nella proposizione, che egli chiama il principio supremo di tutti i giudizi sintetici e che suona: “le condizioni di possibilità dell’esperienza in generale sono nel contempo condizioni di possibilità degli oggetti dell’esperienza, ed hanno perciò validità obiettiva in un giudizio sintetico a priori”. (pag. 162) Cioè, le condizioni di possibilità dell’esperienza in genere sono anche le stesse condizioni di possibilità degli oggetti; gli oggetti sono possibili se sono conoscibili. Tutto ciò è importante, è come dire che qualche cosa è possibile a condizione che ci sia la possibilità di esperirla, ma questa possibilità di esperirla, da che cosa è determinata? Da Cartesio, cioè dalla misurabilità.

Intervento: Heidegger dice che l’obiettività è una determinazione da parte della soggettività. L’oggetto, quindi, c’è in quanto rappresentato da un soggetto. Dice anche che Kant formula questo stato di cose nella proposizione, che egli chiama il principio supremo di tutti i giudizi sintetici e che suona: “le condizioni di possibilità dell’esperienza in generale sono nel contempo condizioni di possibilità degli oggetti dell’esperienza…”. La condizione di possibilità dell’esperienza è il soggetto, è il soggetto che esperisce.

Sì, certamente, chi se no?

Intervento: quindi, la condizione perché esistano degli oggetti di esperienza e che ci sia un soggetto.

Che sia stato stabilito prima un soggetto. Infatti, dice giustamente Heidegger, Kant riformula il pensiero di Cartesio in questo modo ma è comunque il pensiero di Cartesio, il quale appunto prevede l’esistenza del soggetto perché ci sia conoscenza.