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28-12-2011

 

Vi propongo un articolo, è uno scritto intorno alla meccanica dei quanti e a un problema che questa pone, a noi non interessa tanto il problema che pone la meccanica dei quanti, quanto piuttosto la soluzione che a questo problema ha proposto Von Neumann.

 

Il problema del soggetto in Fisica Quantistica

di Manuel Mazzucco

 

Il XX secolo è stato un secolo straordinario in cui l’uomo è stato testimone di importanti rivoluzioni concettuali; fra queste merita di essere ricordata la meccanica quantistica, divenuta famosa al grande pubblico per il suo principio di indeterminazione. Ma cosa dice questo principio di tanto rivoluzionario? Per rispondere a questa domanda in modo semplice ed esauriente bisogna fare un salto indietro di qualche secolo e spendere qualche parola su come Newton intendeva il moto dei corpi. Nella visione del moto del grande fisico inglese, denominata meccanica classica, era sempre possibile conoscere simultaneamente la posizione e la velocità di un corpo (in tal caso, si dice che le due quantità sono determinate) ed anzi, una volta che queste due quantità osservabili fossero note, il moto dell’oggetto in questione era perfettamente determinato; detto in modo più semplice, si poteva prevedere per qualunque istante di tempo dove lo avremmo trovato. Beh questo signori è un fatto straordinario! Pensate, un uomo dotato solamente di un foglio di carta e di una penna è in grado di calcolare dove sarà Venere fra uno o dieci anni senza nemmeno sollevare gli occhi al cielo.

Il principio di indeterminazione (o di Heisenberg) ha infranto per sempre questo sogno, stabilendo che non si possono mai conoscere contemporaneamente la posizione e la velocità di una particella: se ne conosciamo la posizione (cioè essa è determinata) non possiamo conoscerne la velocità (cioè essa è indeterminata) e, viceversa, se ne conosciamo la velocità non possiamo conoscerne la posizione.

Se noi assumiamo che la meccanica quantistica ci dia una descrizione completa e corretta della realtà, il suddetto principio ha delle implicazioni concettuali veramente straordinarie e rivoluzionarie: in quest’ottica infatti, l’indeterminazione non può essere assunta come una carenza della nostra teoria, ma al contrario essa è intrinseca alla natura stessa della particella. In altre parole, quando una particella ha una ben definita posizione, essa non può avere “realmente” anche una velocità. Il mondo atomico, alla luce di questo principio, diventa allora qualcosa di estremamente misterioso, un mondo in cui certe proprietà delle particelle perdono la loro concretezza, la propria oggettività: finché noi non effettuiamo una misura di velocità sul corpo considerato, la natura rimane per così dire “sospesa” in un mondo fatto solo di potenzialità, ed è soltanto il processo di misura che rende oggettivo, nel senso di reale, il valore della velocità.

A questo punto però cominciano i problemi legati al processo di misura: l’indeterminazione non solo cancella la realtà oggettiva delle particelle, ma ha pure la qualità di essere in un certo senso “contagiosa” con tutto ciò che interagisce con lei. Facciamo un esempio per chiarire meglio questo punto. Consideriamo una particella di cui conosciamo la posizione e quindi, per quanto detto sopra, indefinita nella sua velocità (nel senso che non esiste ancora una sua velocità) e poniamoci quindi l’obiettivo di misurare la velocità con uno strumento di misura dotato di un indice (immaginiamo questo strumento con una scala graduata simile ad un contachilometri); il problema ora è che lo strumento di misura è un oggetto macroscopico risultante dall’insieme di un numero enorme di particelle microscopiche e quindi quando esso entra in interazione con la particella “infetta” dalla indeterminazione esso non può fare altro che subire questo contagio. Se la meccanica quantistica è corretta, allora essa ci dice inequivocabilmente che anche l’indice macroscopico dello strumento deve finire in uno stato di potenzialità sospesa in cui esso, per così dire, non ha ancora scelto una posizione ben precisa.

A questo punto però c’è qualcosa che non torna: ognuno di noi sa benissimo (e se non lo sa per esperienza diretta lo può comunque immaginare in base ad un minimo di buon senso) che quando si fa una misura con uno strumento, il suo indice assume sempre una posizione ben precisa; ciò tuttavia è in netta contraddizione con quanto previsto dalla meccanica quantistica quando cerca di descrivere l’interazione oggetto – strumento di misura.

Come uscire allora da questo apparente paradosso?

Una possibile risposta a questo tipo di problema venne fornita dal genio di von Neumann dopo che ebbe sottoposto la questione della misura alla sua penetrante capacità di analisi. Egli si accorse infatti che considerare “processo di misura” la sola interazione fra la micro particella e lo strumento di misura era sbagliato, o quantomeno incompleto, poiché di fatto ci si dimenticava proprio della cosa più importante che contraddistingue una misura, cioè la componente umana; egli era solito sottolineare questo fatto ricorrendo alla sua celebre frase: “l’esperienza non ci permette mai di affermare che una quantità fisica ha un definito valore, ma soltanto che una quantità fisica ha un definito valore per un osservatore”.

Alla luce di questo, von Neumann si spinse allora a riconsiderare il processo di misura, comprendendo oltre all’interazione particella – strumento di misura, anche l’interazione strumento – sperimentatore.

Cosa possiede però lo sperimentatore di così diverso dallo strumento di misura tale da essere determinante per far concludere il processo di misura e non ricadere nel paradosso sopra menzionato?

Lo sperimentatore, sostiene von Neumann, oltre a possedere un corpo, possiede prima di tutto una coscienza che non appartiene alla dimensione materiale ed è proprio questo elemento extra-fisico la soluzione rivoluzionaria al problema della misura. Cerchiamo però di capire meglio il perché descrivendo adesso in modo più preciso il processo di misura.

Riconsideriamo allora la nostra particella in uno stato indeterminato rispetto alla sua velocità e mettiamola in interazione con lo strumento di misura; abbiamo già sottolineato che l’esito necessario (secondo le regole della meccanica quantistica) di questo processo è che ci troviamo in una situazione ancora più complessa, poiché ora anche il nostro strumento ha l’indice in uno stato indeterminato, in cui nessuno dei valori possibili può dirsi essere ancora registrato.

Cosa succede allora quando la coscienza dello sperimentatore guarda l’indice dello strumento?

Secondo von Neumann quando essa interagisce con lo strumento, ovvero lo guarda, ha il potere di spezzare la “catena” dell’indeterminazione per il semplice fatto che essa, non appartenendo al mondo della materia e dell’energia, ne può violare le leggi (e quindi non è contagiabile dal principio di Heisenberg) e ciò ha come effetto di dare “realtà” sia alla posizione dell’indice dello strumento, sia alla velocità della particella considerata.

In quest’ottica quindi tutto il mondo materiale, sia quello microscopico che quello “famigliare” macroscopico, sarebbe sempre sospeso in una sorta di limbo di possibilità che per diventare attuali e determinate necessitano della presenza dell’uomo, anzi, per essere precisi, della coscienza dell’uomo.

Per la suddetta ragione, questo tipo di soluzione al problema della misura, proposta inizialmente da von Neumann, e in seguito appoggiata da London, Bauer e Wigner è stata vista nella storia del pensiero scientifico come una “seconda rivoluzione copernicana” in cui l’uomo è ritornato al centro dell’universo ed è il perno su cui si fonda tutta la realtà.

Tuttavia fra coloro che sono impegnati ad affrontare il problema della misura con serietà, sembra che la tendenza generale vada esattamente nella direzione opposta, cioè nella ricerca di soluzioni che non vogliono attribuire un ruolo fondamentale al soggetto cosciente, ovvero le cosiddette “teorie quantistiche senza osservatori”, e a tal riguardo vorrei esprimere alcune mie considerazioni personali.                                       

Le ragioni che si possono individuare per motivare una tale tendenza si possono racchiudere in due fondamentali linee di pensiero: la prima afferma di non riuscire a capire cosa si intenda con il termine coscienza, mentre la seconda (che sembra trovare più favore fra i fisici) non accetta che la coscienza possa avere sulla realtà delle reazioni così importanti.

La prima di queste posizioni sostiene criticamente che l’interpretazione di von Neumann e Wigner è affetta da un problema di principio: essa fu elaborata per eliminare un’ambiguità (quella dell’indeterminazione dell’indice dello strumento) introducendone una ancora più grande, giacché le nostre attuali conoscenze (a dir loro) non sanno precisare cosa sia coscienza. Se è possibile un commento su questa posizione, mi sembra di poter dire che sia estremamente molto ingenuo ritenere che le nostre conoscenze attuali non ci permettano di caratterizzare in modo preciso cosa debba intendersi per coscienza, tanto è vero che gli stessi London e Bauer (due importanti sostenitori di von Neumann) non sembrano avere le stesse difficoltà. Lascio quindi alle loro stesse parole ciò che essi intendono per coscienza: “l’osservatore dispone di una facoltà caratteristica e ben familiare, che noi possiamo chiamare la facoltà di introspezione: egli può rendersi sempre conto in maniera immediata del suo proprio stato”.

La seconda critica invece non accetta la totale perdita del realismo per finire in una posizione necessariamente idealista in cui tutto il mondo che ci sta di fronte non è che una creazione della nostra mente; una tale obiezione, per quanto comprensibile (giacché ci toglie il “famigliare” mondo macroscopico cui siamo abituati) è comunque piuttosto debole, in quanto essa non poggia su argomenti filosofici (poiché il problema dell’idealismo non è risolvibile filosoficamente) ma piuttosto sul rifiuto emotivo che si ha nell’appoggiare una tale posizione.

Tuttavia oggi non si può ignorare quanto la fisica moderna ha reso necessario, al fisico che si voglia occupare dei fondamenti filosofici della sua disciplina, un più profondo interrogarsi sui concetti quali “ realtà”, “fenomeno”, “oggettivo”, ecc.

Questa esigenza filosofica d’altronde è stata molto sentita da fisici quali Heisenberg, Wigner, London e Bauer i quali, in perfetta consonanza con il pensiero dei grande filosofo tedesco Husserl, rifiutano completamente il concetto naive e grossolano di una distinzione fra realtà oggettiva e soggettiva derivante dalla divisione cartesiana fra res cogitans e res extensa; tutto ciò risulta poi estremamente chiaro nella seguente affermazione di Heisenberg: “in definitiva, la realtà della quale possiamo parlare non è mai la realtà in sé, ma una realtà filtrata dalla nostra conoscenza o persino in molti casi da noi configurata. Se a quest’ultima formulazione si obietta che dopo tutto c’è un mondo oggettivo, completamente indipendente da noi e dal nostro pensiero, che procede o può procedere senza il nostro apporto e alla quale realtà ci riferiamo con la ricerca, a questa obiezione a prima vista così ovvia si deve opporre il fatto che già la parola “c’è” appartiene al linguaggio umano che non può quindi significare qualcosa che non sia in relazione alla nostra capacità conoscitiva. Per noi “c’è” appunto solo il mondo nel quale l’espressione “c’è” ha un senso.”

Concludo allora sottolineando che, nonostante le dure critiche e la connessa ricerca di “teorie senza osservatori”, tutto fa comunque pensare che, se si rimane nella convinzione che la teoria quantistica sia una teoria completa, la soluzione di von Neumann e Wigner costituirà l’unica risposta veramente significativa e consistente.

 

La cosa interessante è che Von Neumann inserisce un elemento: inserendo lo sperimentatore, inserisce il linguaggio, e cioè a questo punto l’elemento che interviene oltre alla particella e lo strumento è il linguaggio. Qui si pone una questione di straordinario interesse e cioè che non essendoci uscita dal linguaggio tutto ciò che viene osservato, viene visto, tutto ciò che c’è appunto, c’è in funzione del linguaggio, e la ricerca teorica, che è sempre ricerca della verità, a questo punto è terminata, almeno in quanto ricerca teorica, ricerca della verità appunto, non della applicazione. La ricerca teorica è diventata una elaborazione tecnica propriamente, ma la ricerca teorica come ricerca della verità, questa è terminata dal momento in cui ci si accorge che ciò che si cerca, la verità, è qualcosa che è costruita dal linguaggio. A questo punto ciò che possiamo dire è che la ricerca teorica non ha più nessuna ragione di essere, come se non ci fosse più nulla da pensare: ciò che doveva essere pensato è stato pensato. La volta scorsa abbiamo considerato il saggio di Heidegger del 64, che poneva una questione, e cioè che rimane ancora una cosa da pensare, la “alètheia” per lui forse sì, ma per noi no, è già stata pensata, quindi effettivamente non rimane più nulla da pensare, cioè nulla da pensare nell’ambito di una ricerca della verità, questa è conclusa, è compiuta, una volta che si arriva al linguaggio si è arrivati a fine corsa, oltre non si va. Che cosa resta da fare? Resta da prendere atto di questo, e cioè agire tutto questo, quel sapere e non potere non sapere che comunque si è presi nel linguaggio, non c’è altro da fare, non c’è un’altra verità da raggiungere, ancora da scoprire, c’è solo da derivare delle cose, ma nell’ambito della tecnica, così come accade. D’altra parte anche nella filosofia, nella ricerca della verità, in fondo è stato fatto prevalentemente questo, cioè derivare da delle proposizioni che ritiene vere e fondate, le proposizioni che sono derivabili. Come nella logica, trovare, trarre tutti i teoremi che sono derivabili dagli assiomi stabiliti, una qualunque teoria fa questo, non fa nient’altro che questo, qualunque teoria, anche la teoria psicanalitica: una volta stabiliti alcuni concetti fondamentali ciò che fa è derivare da questi tutto ciò che può essere derivato senza contraddire la premessa, che è esattamente il procedimento logico. Quindi la questione è importante perché pare effettivamente che non ci sia più possibilità di una ricerca teorica, è finita, non c’è più, ciò che occorreva trovare è stato trovato oltre, non c’è più niente. Occorre prendere atto di questo, prendere atto di questo significa ricondurre, e non poterlo non fare, ciascun atto, ciascun fatto, potremmo dire anche, a ciò che lo costituisce, e cioè a quella struttura che è fatta in quel modo certo, questa è l’unica cosa che resta da fare, e cioè tenere conto che tutto ciò che gli umani costruiscono sono delle sequenze argomentative, queste sequenze costruiscono delle scene, degli scenari, questi scenari vengono stabiliti come delle verità e l’umano si comporta di conseguenza, questo fa, non fa nient’altro che questo. Prendere atto di una cosa del genere è ciò che resta da fare, rendersi conto, prendere atto che questi scenari che le stringhe costruiscono sono ciò che per ciascuno è la sua vita, la sua esistenza, le cose in cui crede, i suoi valori. Generalmente con fare teoria si intende derivare da delle proposizioni credute vere, derivare da queste proposizioni tutto ciò che può essere derivato, tutto qui, non c’è nient’altro. L’articolo che abbiamo riportato ha sottolineato con molta precisione che c’è qualche cosa, cioè vedo qualche cosa perché c’è qualche cosa da vedere, so che c’è qualche cosa e questo qualche cosa è un tavolo, e dice la stessa cosa riguardo alle particelle, le vedo perché c’è una certa cosa da vedere e questa certa cosa è una particella, ma fuori, al di là della mia osservazione, diceva in modo curioso, interessante anche “è come se la natura fosse in sospeso in attesa di qualcuno che la veda”. Ma si può anche andare aldilà di questo, perché questa natura che è lì in sospeso, che cos’è di fatto? Non è nient’altro che quello scenario che viene costruito dalle mie parole e che da quel momento diventa qualche cosa, da quel momento le cose esistono, prima non c’è niente, cioè non è possibile parlare di realtà, e la meccanica quantistica pone la questione: non c’è nessuna possibilità, senza l’osservatore, di determinare una particella quindi di determinare la realtà, e la realtà è fatta di particelle.