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28 novembre 2018

 

La struttura originaria di E. Severino

 

Le cose che stiamo leggendo e che appaiono molto astratte, in alcuni casi anche difficili, hanno tuttavia un risvolto molto “semplice”. Adesso Severino si sta addentrando in questioni che riguardano l’implicazione, il giudizio. Questo mostra, secondo Severino, che l’unico giudizio che può essere affermato è il giudizio identico, cioè quello incontraddittorio. Ogni altro giudizio è autocontraddittorio, cioè afferma una cosa che non è, afferma che una cosa è quella ma simultaneamente anche un’altra, cosa che già con Aristotele non andava bene. Sappiamo che non va bene perché non è utilizzabile; ovviamente, non è utilizzabile se lo si sa, perché se fosse così, radicalmente, il mondo intero cesserebbe di aprire bocca, cosa che non accade. Naturalmente, a Severino non interessa, questo interessa noi, cogliere le implicazioni di una cosa del genere, e anche intendere che è vero che parlare è un continuo autocontraddirsi, però questo autocontraddirsi non impedisce, di fatto, assolutamente niente, l’unica cosa che impedisce è di potere stabilire una certa cosa con assoluta certezza, ma questo non ha mai creato problemi a nessuno, tranne rarissime eccezioni. Quindi, qual è il risvolto interessante di una cosa del genere, e cioè del fatto che parlando ci si contraddice? Che è esattamente quello che dicevamo tempo fa: per dire che cos’è una cosa ne devo dire un’altra, per dire che cos’è quell’altra ne devo dire un’altra ancora, e così via. Questo è il modo in cui si parla, è il modo in cui funziona il linguaggio, e cioè per spostamenti continui: una deriva infinita, la semiosi infinita di Peirce. Accorgersi di una cosa del genere, tenere conto di una cosa del genere, questo sì è importante, e modifica in effetti il modo di parlare e, di conseguenza, di pensare. Ovviamente, tenerne conto non è così semplice, anzi, è molto difficile. Sappiamo perché è molto difficile: siamo da sempre presi in questo vortice, nella chiacchiera, direbbe Heidegger, che ci impedisce un pensiero autentico, cioè un pensiero che riflette su ciò che sta accadendo mentre parlo. Che cosa accade mentre parlo? Beh, che dico sempre altro rispetto a ciò che intendevo dire, e questo per la struttura del linguaggio e non perché io sia sbadato o perché parli a vanvera, ma perché, per affermare qualche cosa, devo affermare un’altra cosa: non posso dire che cos’è questo senza spostarmi su altre parole, su altre cose. Questo comporta per noi la necessità di riflettere meglio sugli effetti della struttura del linguaggio nel modo in cui il linguaggio si articola, si svolge, e cioè la necessità di inseguire sempre qualche cosa per potere dire che cos’è. Questo inseguire qualche cosa, per poterlo acquisire sempre meglio, è la volontà di potenza, è quello che Nietzsche chiamava il superpotenziamento. È la stessa cosa del linguaggio, non sono separabili le due cose, né c’è modo di impedire che questo avvenga. Severino si illude che sia possibile fermare questa cosa. Quando si ferma? Si ferma, seguendo Severino, quando incontro l’incontraddittorio, e allora lì non ho più bisogno di andare oltre perché non c’è più quella cosa che io ho posta per toglierla, cioè la sua negazione, e, di conseguenza, è il tutto. Naturalmente, incontra poi un altro paradosso a proposito del tutto: il tutto non si manifesta, quindi, ho sempre a che fare con un particolare, e il tutto? Vedremo poi come tenta di risolvere la questione, che non risolve, non tanto perché Severino non sia abbastanza abile, è abile, quanto perché la questione non può essere risolta, perché appartiene al modo in cui il linguaggio funziona. Quindi, o si smette di parlare per sempre o si fanno i conti con questa cosa, e cioè che il linguaggio è autocontraddittorio. Severino stesso evita la questione del linguaggio, non lo mette mai a tema, anche se di fatto parla sempre del linguaggio. Lui pone la sua formula ma se dovesse mettersi ad analizzarla, sarebbe continuamente spostato. E, allora, lui con questa formula, che ripete ovunque, tenta di bloccare la cosa, nel senso di stabilire che questa uguaglianza tra due termini non è da intendere come soggetto-predicato ma come l’accostamento di due termini identici, che dicono la stessa cosa. Questo è il suo modo di risolvere la questione per evitare lo spostamento. Se non dicono la stessa cosa, allora uno è soggetto e l’altro predicato, cioè una sintesi fra questi due che, come diceva Hegel, comporta un terzo elemento, e quindi ci si sposta su un terzo elemento, e così via all’infinito. Che, tra l’altro, è ciò che diceva anche Peirce. Ma Severino vuole evitare tutto questo, vuole, per esempio, stabilire che cosa c’è di incontrovertibile in un giudizio. È possibile stabilire un giudizio incontrovertibile? Per lui sì, nel senso che sarebbe il giudizio immediato, sarebbe, come nell’esempio, “la lampada che è sul tavolo”, che sarebbe il tutto, il concreto, ciò che appare. Anche qui per potere dire che ciò che appare è il concreto, cioè il tutto, naturalmente deve incominciare a distinguere tra gli astratti, cioè gli elementi di questa cosa, e il concreto, che è invece il tutto, il modo in cui questa cosa appare. Senza tenere conto, però, che il fatto che possa apparire questa cosa nel modo in cui appare comporta una serie di moltissime altre cose. E qui lui compie un’operazione che logicamente è interessante, cioè, non si cura tanto del fatto che per potere apparire in un certo modo occorre una serie infinita di cose. Ma, dice, consideriamo che questa cosa mi appare così, come questa lampada che è sul tavolo; se la prendiamo formalmente, cioè come proposizione, possiamo considerarla per quello che è, come proposizione… Lui parla sempre di proposizioni, non parla della lampada in quanto materia, ecc., non gli interessa minimamente. Quindi, che cosa ci sta dicendo? Ci sta dicendo che è il linguaggio che funziona così, cioè, il linguaggio stabilisce una proposizione che dice “questa lampada che è sul tavolo”. Dicendo questo, pone questa proposizione come identica. Il vantaggio di porre la cosa i questi termini sta nel fatto che formalmente questa proposizione viene presa così com’è e non ha bisogno di altro. Poi utilizza, lo vedremo tra poco, altri tipi di proposizioni che mette tra virgolette per indicarne l’uso formale, cioè la forma della proposizione non il suo contenuto, così come faceva Tarski: “la neve è bianca” se e soltanto se la neve è bianca. La proposizione “la neve è bianca” è vera a condizione che la mia esperienza me lo confermi. Quindi, virgolettare le proposizioni significa coglierne la forma, prenderle soltanto per la loro forma e non per quello che vogliono dire, che non ci interessa. Ponendo la cosa in questi termini, dicevo, vuole dire che il linguaggio stabilisce qualche cosa, un’apofansi, un giudizio. Il giudizio è questo: “questa lampada che è sul tavolo”. Questo giudizio non è ovviamente una tautologia, quindi non è identico, ma secondo lui lo diventa nel momento in cui io non presumo che la lampada e il tavolo precedano questa formulazione, questa proposizione, ma seguano, perché ciò che precede è la relazione tra questi due elementi, o meglio, l’essere questi due elementi, la lampada e il tavolo, in relazione tra loro. Questo comporta che questa lampada è identica a ciò che se ne dice dicendone che è sul tavolo, perché non astraggo i due elementi, sono la stessa cosa: questa lampada è questa lampada perché è sul tavolo. Questo per intendere meglio la questione che lui utilizza continuamente per affermare l’identità del giudizio, anche quello non tautologico; infatti, se io affermo che la lampada è sul tavolo non sto facendo alcuna tautologia. Però, dice lui, questo non toglie che questo giudizio sia identico. Lui dice che, sì, ogni giudizio identico deve essere tautologico, cioè deve dire la stessa cosa, però lui lo riconduce a questo: dire che “questa che è sul tavolo” è uguale a dire “questa lampada”, perché dicendo “questa lampada”, attenendosi al concreto, noi diciamo “questa lampada che è sul tavolo” perché non è un’altra. In questo senso è una tautologia, cioè dice la stessa cosa. Se dico “questa lampada” questa non posso disgiungerla dal fatto che sia sul tavolo. Quindi, dire “questa lampada” e dire “sul tavolo” è dire la stessa cosa perché le due cose sono l’identico. In questo modo lui riconduce qualunque giudizio a un giudizio identico, tautologico, dove gli elementi del giudizio (apofansi) dicono esattamente la stessa cosa. perché dicono la stessa cosa? Perché sono il concreto. Come sappiamo, il concreto comporta sia la F-immediatezza, cioè l’immediato del fenomeno, l’esperienza, ciascuna cosa è così come mi appare, sia la L-immediatezza, cioè la immediata non autocontraddittorietà, come dire, ciascuna cosa è quella che è, non è il suo contrario. Tutto questo, come dicevo all’inizio, può apparire assolutamente astratto e anche difficile in molti casi, però, apre a una questione interessante. Mostra nel dettaglio ciò che il linguaggio cerca, senza raggiungere, e come il cercare questa cosa, cioè l’incontraddittorietà, la verità assoluta, metta in moto il linguaggio stesso. La ricerca dell’incontraddittorietà, cioè della verità assoluta, è esattamente la ricerca del superpotenziamento, non è altro che la volontà di potenza. Quindi, ci mostra in atto come e perché il linguaggio non può arrestarsi; anche se poi lui, come dicevo prima, si illude di potere fare questo, ma non lo può fare. Però, come il linguaggio, cerca che cosa, alla fine? Cerca l’incontraddittorio, ciò che non può essere messo in discussione, ciò che necessariamente è quello che è. Il fatto è che lui non si accorge ancora, e non se ne accorgerà neanche alla fine, che questo riguarda soltanto una sorta di “decisione” del linguaggio. È il linguaggio che pone qualche cosa come incontraddittorio, non esiste l’incontraddittorio fuori dal linguaggio. Questo lo sa ma non ne tiene conto fino in fondo, che l’incontraddittorietà è soltanto un qualche cosa che serve per proseguire, per procedere, per cui il paradosso del linguaggio è che il linguaggio cerca, per potersi arrestare, esattamente quella cosa che gli consente di proseguire. Questo è paradossale: per poter arrivare all’ultima parola deve esserci sempre un’altra parola. Questo è, in un certo senso, il limite di Severino, cioè il non avere colto questo aspetto, che l’incontraddittorietà, e cioè l’arresto su qualche cosa che non ha più bisogno di andare oltre, è la condizione per andare oltre. Se non ci fosse l’incontraddittorietà non si potrebbe procedere. Infatti, a pag. 277, dice: L’affermazione che ogni giudizio non contraddittorio è un giudizio identico, e quindi necessario, ha un’importanza notevole. Nel corso della presente indagine l’affermazione che ogni giudizio è necessario sarà riguardata da prospettive diverse, o sarà conseguita da accessi diversi. Si precisi ora che la distinzione tra proposizioni analitiche e sintetiche permane egualmente come distinzione interna delle proposizioni identiche. Ci sta dicendo che la proposizione identica, quindi non tautologica, può essere sia analitica sia sintetica. Analitico è ciò che appartiene necessariamente. Per esempio, se io parlo di un corpo parlo immediatamente di un’estensione: se c’è un corpo c’è un’estensione, non posso parlare di un corpo senza parlare di un’estensione; quindi, è qualcosa che gli appartiene necessariamente. Questo è il giudizio analitico. C’è, poi, il giudizio sintetico a posteriori, che è l’esperienza e che mi dice che se faccio una certa cosa allora succede quest’altra; a posteriori perché soltanto dopo l’esperienza posso trarre quella conclusione, per esempio, che se metto una mano sul fuoco mi brucio, questo lo so a posteriori, prima non lo so. Il giudizio sintetico a priori è sempre un giudizio sintetico che, però, non viene dall’esperienza; è apriori nel senso che, a differenza di quello analitico, non è immediatamente evidente, ma è un giudizio che procede da alcuni elementi che non si apprendono con l’esperienza ma che non sono neanche impliciti con la cosa che ho di fronte. L’esempio classico, quello che fa Kant, è quello del calcolo matematico: 2 + 2 = 4, lo so per esperienza? No, l’ho imparato, non è neppure autoevidente: Kant chiama questo tipo di giudizio “giudizio sintetico a priori”. Sintetico in quanto è una sintesi, mette insieme degli elementi e ne trae una sintesi; quello analitico no, procede verticalmente, cioè, coglie ciò che è necessario che sia: se parlo di un corpo parlo di un’estensione, non posso parlare di un corpo senza parlare di un’estensione. Detto questo, il giudizio identico, che è quello tautologico, comporta sia i giudizi analitici sia i giudizi sintetici. Se il soggetto e il predicato di ogni giudizio incontraddittorio sono identici… Per lui, perché un soggetto e un predicato costituiscano un giudizio incontraddittorio devono essere la stessa cosa. Prendiamo l’esempio che faceva: l’essere = non non essere, non dicono cose diverse, dicono la stessa cosa; quindi, non sono propriamente soggetto e predicato, nel senso che uno predica quell’altro, ma dicono esattamente la stessa cosa, cioè, sono identici, anche se distinti. Severino distingue i distinti e i diversi: i diversi sono quelli che appartengono alla sintesi, quindi soggetto e predicato; distinti, invece, sono quei due elementi che dicono la stessa cosa ma che hanno una forma diversa, A è fatta in un modo e B fatta in un altro, e infatti non si confondono. Se il soggetto e il predicato di ogni giudizio incontraddittorio sono identici, d’altra parte l’apofansi che costituisce il soggetto e il predicato del giudizio può avere una duplice valenza; ossia può essere: 1) tale che la sua negazione non appare immediatamente come autocontraddittoria; oppure: 2) tale che la sua negazione appare immediatamente come autocontraddittoria. Nel primo caso il giudizio identico si dice giudizio sintetico… Perché non appare immediatamente, occorre prima fare una sintesi: metto insieme le due cose e vedo che è autocontraddittorio. …nel secondo caso il giudizio identico si dice giudizio analitico. Perché immediatamente evidente, come appunto nel dire “un corpo senza estensione”, che non ha alcun senso. Invece, il dire “questo posacenere non è fatto di vetro”, è un giudizio sintetico autocontraddittorio; però questa autocontraddittorietà procede da una sintesi, non è L-immediato, cioè non sorge analiticamente, immediatamente, come se, invece, dicessi “questa cosa non è questa cosa”, è diverso. Se dicessi che questa cosa non è di vetro, beh, uno se lo porta vicino, lo sente, interviene l’esperienza, la temperatura, la consistenza, ecc., per cui, ecco, può dire che è di vetro, mentre per dire che questa cosa non è questa cosa non c’è bisogno di nessuna esperienza, dico subito che è una contraddizione immediata. Relativamente al primo caso (ndr. quello sintetico) la proposizione “dx non è dy” non è immediatamente autocontraddittoria… Questo posacenere non è di vetro, interviene allora l’esperienza, controllo e verifico che è di vetro, quindi, dire che non è di vetro è autocontraddittorio. Lo so per sintesi, per esperienza. Quindi, la proposizione “dx non è dy” non è immediatamente autocontraddittoria, anche se è in contraddizione con l’immediatezza del significato costituito dalla sintesi tra dx e dy. Dice che, sì, non è immediatamente contraddittorio, però è in contraddizione con l’immediatezza, cioè la presenza immediata, del significato costituito dalla sintesi. È come se dicesse che il significato della sintesi, cioè che questo posacenere non è di vetro, è immediatamente presente, cioè, io posso non accorgermene ma questo significato c’è, e quindi è comunque autocontraddittorio rispetto alla presenza immediata, ma non è autocontraddittorio, di fatto, perché, per potere dire che non è di vetro devo avvalermi dell’esperienza, quindi, di una sintesi. Relativamente al secondo caso: la proposizione “E' non è E" (“L’essere è non essere”) è immediatamente autocontraddittoria. Questa è la L-immediatezza: “questo non è questo” è immediatamente autocontraddittorio. Pertanto: la negazione di ogni giudizio è immediatamente autocontraddittoria: appunto perché ogni giudizio è identico. Ecco ciò che vi dicevo prima: ogni giudizio si pone come identico. Quando io affermo qualche cosa, questa cosa che affermo è identica. A cosa? A sé. Ma non accade per ogni giudizio – ma solo per i giudizi analitici – che la negazione dell’apofansi che costituisce il soggetto (o il predicato) del giudizio sia immediatamente autocontraddittoria. Distingue tra qualcosa che è immediatamente autocontraddittorio e qualcosa che è autocontraddittorio in seguito a un esame più approfondito. Paragrafo 12, Applicazioni (Principio di non contraddizione e giudizi esistenziali). Il giudizio esistenziale è quello che dice “è qualche cosa”. Si parla di giudizi di esistenza e di giudizi di valore: il giudizio di esistenza afferma che qualche cosa esiste; il giudizio di valore dice che qualche cosa vale. a) L’aporia che si produce in relazione alla proposizione “dx è dy”… Che sappiamo produce un’aporia perché dx non è dy, uno è soggetto e l’altro predicato. A quali condizioni si toglierebbe l’aporia? Se noi mettessimo (dx=dy)=(dy=dx) si risolverebbe l’aporia. …sussiste anche in relazione alla proposizione “L’essere non è non essere (E=nnE)… Perché c’è un’aporia in questo caso? Perché, se posta così, faccio una sintesi di questi due elementi, non li considero la stessa cosa ma uno come il soggetto e l’altro come predicato. Potete immaginare quale sarà la formula che lui utilizzerà per togliere questa aporia: (E=nnE)=(nnE=E). E lo spiega anche. Infatti, il significato “essere” (E') si distingue dal significato “non esser non essere” (nnE). Si distinguono; infatti, non sono la stessa cosa, una è una sola parola e l’altra è fatta di quattro parole. Sì che allorché si predica nnE di E – allorché si dice che l’essere non è non essere – si afferma che l’essere è altro da sé… Perché l’“essere” è altro dal “non non essere”, sono distinti. …la stessa formulazione del principio di non contraddizione sarebbe pertanto una contraddizione. Questa formulazione, che è la formula del principio di non contraddizione, “l’essere non è non essere”, dice, sarebbe a sua volta una contraddizione… a meno che non riprendiamo tutta la formula. È ormai ben chiaro da che cosa è prodotto questo tipo di aporia: dal presupporre E e nnE alla loro sintesi… Li presuppongo alla loro sintesi, cioè, li presuppongo alla relazione che c’è tra questi due elementi. …sì da non vedere che è dell’essere che non è non essere che si predica il non esser non essere; onde la predicazione non si instaura tra E e nnE come distinti, ma si realizza come (E=nnE)=(nnE=E). si osservi inoltre che predicare nnE di E è certamente predicare un’alterità rispetto a E … Pertanto, nnE è e non è altro da E: è altro da E, in quanto E si distingue formalmente da nnE; non è altro, perché nnE è significante appunto come “non essere altro da E” (ossia come non esser non essere). È chiaro che se, pur operando questa precisazione, il principio di non contraddizione fosse inteso semplicemente come relazione predicazionale tra E e nnE, esso sarebbe egualmente una contraddizione: appunto perché E si distingue da nnE. Quella precisazione diventa opportuna, una volta che l’incontraddittorietà sia concretamente posta come (E=nnE)=(nnE=E). A pag. 279, Paragrafo 13, Valore esistenziale di ogni giudizio. La proposizione identica (dx=ε)=(ε=dx) è analitica, secondo la definizione data nel paragrafo 11 delle proposizioni analitiche. Perché dicono la stessa cosa, una sta dentro l’altra: se una cosa è uguale all’altra, è chiaro che la seconda è uguale alla prima. È infatti immediatamente autocontraddittorio affermare che qualcosa, un positivo (dx) non sia. Pertanto, allorché si nega che qualcosa sia – e questa negazione sia esente da contraddizione -, non si nega l’essere, simpliciter, giacché questa, come si è detto, è affermazione autocontraddittoria, ma si nega un certo modo di essere del qualcosa. Vediamo cosa ci sta dicendo sul valore esistenziale di ogni giudizio. Cominciate a intendere, a presagire, quello che sta per dire, e cioè che qualcosa esiste in relazione al giudizio. È il giudizio che esiste e che, quindi, di conseguenza, fa esistere. Qui si avverta che ogni giudizio affermativo è una determinazione del giudizio esistenziale. Io affermo una qualunque cosa e innanzitutto affermo che esiste. Per esempio, dico “questo non mi piace”. Certo, va bene, ma con questo ho detto che “questo” esiste. Affermare che questa estensione è rossa, significa affermare, da un lato, che questa estensione è, esiste in un certo modo * come rossa -, e dall’altro che questo rosso è, esiste in un certo modo – come così esteso -… Affermando questa estensione è rossa, intanto, io sto affermando che esiste l’estensione e che esiste il rosso. L’essere in certo modo è determinazione dell’essere. Il campo semantico costituito da “dx è dy” include quindi i campi semantici costituiti da “dx è”, “dy è”. Quando affermo che dx è dy vuol dire che ho già affermato analiticamente, necessariamente che dx è e dy è. Appare allora che in relazione a quel tipo di complessità semantica che si realizza come apofansi, non è possibile distinguere – come invece accade, ad es., a proposito dei significati effettualmente semplici – il campo semantico costituito dall’apofansi, dal campo semantico costituito dall’essere dell’apofansi. Non posso distinguere questo giudizio dal fatto che all’interno del giudizio “questo è bello, brutto, ecc.” c’è il giudizio “questo è”; non li posso distinguere. Infatti l’essere dell’apofansi (l’essere del significato complesso in cui quella consiste) è lo stesso essere che costituisce l’apofansi, sì che operare quella distinzione significa non lasciar più posta l’apofansi nel campo semantico che è tenuto fermo come distinto dall’essere dell’apofansi. Sta dicendo che non posso distinguere le due cose perché, che questa cosa sia una determinazione comporta necessariamente che, se è una determinazione, è, e quindi comporta l’essere dell’apofansi, del giudizio delle due cose; non le posso togliere. È la stessa cosa che aveva detto prima ma ora la dice in un altro modo, più articolato. Si osservi infine che ogni giudizio negativo – fatta eccezione del giudizio che predica del nulla il non essere – non solo è negazione di un certo modo di essere, e non dell’essere, simpliciter, del soggetto, ma è negazione di un modo di essere, e non dell’essere, simpliciter, dell’apofansi stessa. Dire che “dx non è dy”, non solo non significa negare l’essere di dx (o di dy), ma non significa nemmeno negare, simpliciter, che dx sia dy: “dx non è dy” nega cioè che dx sia dy secondo un certo modo di essere: quello, ad es., per cui la connessione tra dx e dy è temporalmente presente; ché secondo quel modo di essere per cui “dx e dy” deve essere posto affinché possa essere tolto, secondo quest’altro modo di essere, dx è dy. Dice che dx non è dy ma per un particolare modo di essere in questo momento di dy, perché secondo quel modo di essere, per cui dx è dy, deve essere posto affinché venga tolto secondo questo ultimo modo di essere. Per esempio, Cesare in questo momento non è a casa sua. È una proposizione. Se nego questa cosa sto negando, dice Severino, in base a un momento temporale. In questo momento non è a casa sua, ma due ore fa era a casa sua. Quindi, il fatto che Cesare non sia a casa sua, è qualcosa che devo porre per poterlo togliere per affermare che adesso è qui. C’è sempre un qualche cosa che devo porre per poterlo togliere affinché ciò che si afferma sia considerato vero. A pag. 280, Paragrafo 14, Nota sui significati semplici. Le considerazioni che si sono svolte intorno all’essere formale (ma il presente discorso può essere riferito anche a ognuno dei significati effettualmente semplici) gli attribuiscono una molteplicità di categorie. Il discorso sull’essere non si esaurisce infatti nella semplice dizione o enunciazione dell’essere: dell’essere si dicono molte cose, anche se di esso, in quanto puro o formale, non si parla in molti sensi. “Essere, puro essere”, incomincia lo Hegel – e l’asintatticità di questa espressione esprime appunto l’identificazione di questo orizzonte posizionale con l’essere e con nient’altro che l’essere, esprime cioè il momento in cui non si lascia posto che l’“essere”. Ma poi il testo hegeliano continua: “Senza alcun’altra determinazione. Nella sua indeterminata immediatezza esso è simile soltanto a sé, ecc.”. Senza alcuna determinazione, quindi neanche essere, perché dire essere è già una determinazione. È per questo che Hegel scrive “Essere, puro essere”; non fa un’apofansi “L’essere è il puro essere”, no, se ne guarda bene. Col che una complessità semantica, ulteriore alla assoluta semplicità semantica consistente nella pura dizione dell’essere, investe e qualifica quest’ultimo;… Se è soltanto un essere semplice non c’è nessuna complessità semantica. Una complessità semantica lo investe in qualche modo, lo fa diventare un’altra cosa. …ulteriorità semantica che d’altronde sussiste già allorché si dice “puro” essere. Ho aggiunto già “puro”, ma si potrebbe portare la cosa al limite dicendo “ho già detto essere” e per il fatto che l’abbia già detto non è più puro, già è viziato dall’essere inserito all’interno di un sistema verbale, per esempio. E anche noi, per conto nostro, affermiamo che l’essere formale è semplicità semantica, che è in relazione con il contenuto originario, ecc. Sì che sembra si debba concludere che l’essere formale è una complessità semantica:… Mentre prima diceva che è un significato semplice. …appunto in quanto esso è qualificato, categorizzato, relazionato. Si risponde dicendo che al puro essere convengono certamente tutte quelle determinazioni che l’indagine è in grado di esplicitare; ma, altresì, che esso si distingue da ognuna di queste. Stante questa distinzione, si riconoscerà anche che porre l’essere come semplice, come relazionato, ecc., significa porre una complessità semantica. Ciò che va negato è che, dal fatto che l’essere formale sia qualificato, segua che esso non sia il semplice, e che quindi sia, ad un tempo, semplice e complesso. Infatti, la complessità semantica che si costituisce ponendo il puro essere come altro, non è la complessità del puro essere, in quanto distinto dalle qualificazioni che per questa posizione gli convengono, ma è la complessità del concreto, rispetto al quale il puro essere vale come un momento. Questa complessità di qualificazioni vale come il concreto, di cui il puro essere è un momento, cioè, è l’identico. È come dire “questa lampada che è sul tavolo”: sì, certo, questa lampada è un momento del concreto, che dice “questa lampada che è sul tavolo”. Affermare poi che la complessità in questione non è del puro essere in quanto significato distinto, non è affermare che quelle determinazioni dell’essere non siano, appunto, determinazioni dell’essere: solo si dice che l’essere si distingue da queste, e per quel tanto che è così distinto, esso è assoluta semplicità, e cioè non è la complessità costituita da tale distinzione stessa. Reciprocamente: affermare che l’essere è il semplice non significa certo affermare che l’essere è complesso; ma è una complessità quella affermazione. Sta qui l’inghippo. L’essere è semplice, io posso dirne e dicendone costruisco una complessità, ma la complessità non è dell’essere, è di ciò che io ne dico, cioè, è nell’affermare cose sull’essere. È dunque in quanto l’essere formale è tenuto fermo come significato distinto che esso vale come semplicità semantica; la complessità essendo data dalla relazione tra l’essere e le determinazioni che gli convengono. L’aporia si produce perché da un lato l’essere formale è tenuto fermo come un distinto – sì che in quanto tale è affermato come semplicità assoluta -, e dall’altro si conferiscono al distinto in quanto tale determinazioni che gli appartengono non in quanto distinto, ma in quanto relazionato. D’altra parte, il puro essere, in quanto distinto, è tutto ciò che gli conviene in quanto relazionato; ma poiché lo è soltanto, il campo semantico del puro essere, in quanto distinto, include come posto semplicemente l’essere, senza alcun’altra determinazione. Sta dicendo quello che dice fin dall’inizio, e cioè questa aporia tra l’essere, che è semplice, e tutte le determinazioni di cui è fatto, che sono il molteplice, quindi, l’essere è il semplice ma anche il molteplice, l’uno e i molti, questa aporia si produce perché l’essere formale è tenuto fermo come un distinto e, dice, che in quanto tale è affermato come semplicità assoluta e dall’altro si conferiscono al distinto in quanto tale determinazioni che gli appartengono non in quanto distinto, ma in quanto relazionato, e cioè si pensa l’essere semplice non in quanto relazionato, messo in relazione e, quindi, nel concreto, ma lo si pensa come distinto. È la stessa cosa della lampada che è sul tavolo: se io penso la lampada la penso in modo distinto dal concreto. Qui non è soltanto distinto ma anche astratto. Dice, il puro essere, in quanto distinto, è tutto ciò che gli conviene in quanto relazionato, come dire che l’essere è quello che è ma preso nel concreto. Poi, è chiaro che se io nel concreto distinguo una cosa da un’altra, le distinguo in quanto le pongo come sintesi tra l’essere e puro essere, per esempio. Faccio una sintesi, e allora devo dire che l’essere non è puro essere, perché l’essere è una cosa e il puro essere è un’altra. Però, Severino sta dicendo che questo essere non è separato dal puro essere, perché essere e puro essere sono la stessa cosa.