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28 ottobre 2020

 

L’attualismo. Sistema di logica come teoria del conoscere di G. Gentile

 

Dalla prefazione al Sistema di logica come teoria del conoscere: Io infatti ho concepito questo sistema di logica nella speranza di dar soddisfazione a un mio antico bisogno, di colmare l’abisso che nella storia della filosofia del secolo decimonono s’era aperto fra la antica concezione analitica del pensiero definita nella logica aristotelica e la nuova dialettica dell’idealismo inaugurata da Kant e sviluppata da Hegel. Due logiche apparse fino a ieri tra loro opposte, senza possibilità di passaggio dall’una all’altra, rappresentanti due filosofie antitetiche, anch’esse conseguentemente concepite come separate e incapaci di integrarsi reciprocamente per unificarsi in un processo unico di svolgimento. A proposito di Hegel e del suo sistema dice qualche riga dopo E urtava pure, a parer mio, nell’ovvia esperienza del pensare logico, alla quale invano si ribellano seguaci dell’antica e della nuova logica, gli uni gridando all’assurdo della identità dei contrari e gli altri schernendo l’idem per idem della logica dell’identità; laddove né gli uni possono pensare se non per sintesi a priori, né gli altri riescono a sottrarsi all’eterna legge del pensiero che definisce e deduce, e che, elaborando e rielaborando costantemente i concetti, ribadisce la verità nella sua intrinseca coerenza, fermamente combaciante con se medesima. … Il sistema quindi si configurò in una triplice trattazione: una indirizzata a dedurre la nuova posizione del problema logico, che non guarda più a una astratta tecnica del pensare, ma al concetto che il pensiero acquista di sé come realtà universale; e le altre due, ad esporre le due forme assunte storicamente dal pensiero nel suo sviluppo consapevole, come esse possono vedersi dal punto di vista di questa nuova posizione del problema. Ecco, questo è quello che intende fare. Capitolo I. La logica come scienza filosofica. Già il porre la logica come scienza filosofica pone una distanza da ciò che la logica è stata sempre pensata. Paragrafo 1. La logica come scienza particolare. Giova fin da principio distinguere nettamente la logica come dottrina che interessa il filosofo, dalla logica che è disciplina scientifica come scienza particolare, simile a tutte le altre, derivante da un particolare interesse, rispondente a uno speciale bisogno teoretico, destinata ad appagare una curiosità che può sorgere sì nell’animo del filosofo, e sì di qualsiasi scienziato che prenda a considerare la natura e la proprietà dello strumento che tutti adoperiamo nella ricerca del vero. Paragrafo 2. Sistema di scienze particolari. Né il concetto di scienza particolare è superabile con l’osservazione, fatta prima da Augusto Comte e poi ripetuta da altri, che le stesso scienze particolari sono ordinate gerarchicamente secondo la generalità e la complessità crescente in cui si presentano naturalmente i fenomeni; in guisa da formare tutte insieme un sistema, in cui la scienza più astratta può bensì prescindere dalla più concreta, ma questa non può prescindere da quella, poiché i fenomeni che essa deve spiegare sono gli stessi fenomeni della scienza più astratta, ma diventati più complessi per l’intervento di nuovi caratteri. Qui la logica, quindi, è utilizzata per analizzare sistemi via via sempre più complessi. D’altra parte, basta aprire un manuale di logica formale per vedere come dai primi assiomi semplici si arrivi a dei sistemi di una grande complessità. Affinché questa scomposizione del concreto non fosse possibile, bisognerebbe pensare che non il concreto non è senza l’astratto, ma né anche l’astratto è senza il concreto; che non solo non c’è chimica senza fisica, ma né anche fisica senza chimica. Il che pure è stato pensato: e doveva esser pensato da quanti han filosofato sugli stessi fatti che, come fatti, non possono concepirsi se non come quei fatti della natura, che sono oggetto delle scienze particolari. Ci sta dicendo che la logica non è una scienza della natura, né si occupa di enti di natura. È stato pensato introducendo nel meccanismo del puro fatto, dato dell’esperienza, un elemento estraneo, il fine, che non è più natura, ma spirito, o scienza; e rende possibile infatti il superamento del concetto di scienza particolare, perché ne modifica la base, a cui il positivismo comtiano e ogni positivismo tien fermo. Come dire che la logica aristotelica non ha pensato la logica come un fatto, in definitiva; ma per tutto il pensiero greco, e in buona parte anche quello attuale, non si è tenuto conto dello spirito, e con spirito Gentile intende il pensiero, naturalmente, e quindi ha mantenuto questa opposizione tra spirito e natura, tra immanenza e trascendenza, ecc. Paragrafo 4. La filosofia scienza universale. Le scienze particolari si distinguono dalla filosofia… Quando Gentile parla della filosofia intende sempre la sua. …appunto per questo, che esse sono particolari, laddove la filosofia è stata sempre, ed è la scienza universale. Ma la differenza tra il particolare e l’universale è qualitativa, e non quantitativa, come può parere a chi si fermi al primo significato del particolare. Giacché il particolare è certamente, in primo luogo, parte del tutto; ma, in quanto parte, esso non solo non è il resto del tutto, ma non è né anche se stesso. Si consideri invero che, per esser parte, esso dev’essere in relazione (per lo meno di reciproca esclusione) col resto, e deve pertanto comprendere nel proprio concetto (cioè, in sé) tale resto, come elemento costitutivo, ancorché in modo negativo, del proprio essere. Di che nasce, che il particolare, in quanto, ripeto, mera parte quantitativamente intesa, non che da meno del tutto o universale, è niente: niente di tutto ciò che l’universale è. Esso non è, e questo è. Se considerato in quel modo, non è. Orbene, questo particolare, verso di cui il pensiero si orienta, ma in cui non è possibile si fermi, è l’empirico e il dommatico, che sono di ogni scienza particolare i caratteri propri, per i quali essa si distingue dalla filosofia, e dei quali non si può spogliare se non trasformandosi in filosofia, per attingere nella sua universalità la razionalità e la critica proprie del vero sapere. Come dire che se ci si orienta solo sul particolare non si può evitare l’empirismo e il dogmatismo. E adesso ci dice perché. Paragrafo 5. Empirismo e dommatismo del sapere particolare, e necessità di superare l’uno e l’altro mediante l’universalità del sapere. Empirico e dommatico nessuno vuol essere: né il sapere particolare, in quanto sapere, può a rigore dirsi tale. Ma il sapere particolare, oltre che sapere, è anche particolare; ossia, sa bensì, ma anche non sa. Se è particolare allora vuol dire che esclude tutto il resto. E dal suo limite proviene così il suo empirismo, come il suo dommatismo. Empirica infatti è la conoscenza del dato, che è dato in quanto questo non è costruito; e non è costruito perché è immediato, essendo innanzi alla mente che lo conosce senza connettersi con tutti gli altri elementi della realtà che la mente conosce, e in rapporto ai quali farebbe sistema, si medierebbe, e mostrerebbe la propria necessità, ossia la necessità, per la mente, di pensarlo. Se io pongo il dato come qualche cosa che è per sé, qualcosa di immanente, cioè, di immediato, vuol dire che non è mediato nemmeno dal pensiero, e se non è mediato dal pensiero non lo posso pensare. E così cesserebbe di essere empirico, e diventerebbe razionale, cioè conforme, e però connaturato, a ragione, che è quella stessa mente che lo conosce, e lo considera estraneo a sé solo finché non lo vegga nel suo sistema. Qui sta incominciando a porre una questione, della quale fra poco diremo. Paragrafo 6. Particolarità e universalità del problema filosofico. Il sapere particolare, in quanto tale, non ha né razionalità, né certezza. Per acquistarle, poiché non ne può fare a meno, dalla logica immanente al suo stesso svolgimento è portato ad universalizzarsi, e a diventare filosofico: conoscendo non già il tutto invece della parte, bensì la stesa parte nel tutto. Il difetto, in verità, che si tratta di correggere, è questo: che l’oggetto del conoscere sia immediato; poiché abbiamo visto che l’immediatezza dell’oggetto è il carattere essenziale dell’empirismo e dommatismo delle scienze particolari. Né l’immediatezza cesserebbe, se la parte si barattasse col tutto; perché anche questo, al pari della parte astratta, per la mente sarebbe solo perché sarebbe; né ci sarebbe modo di rappresentarselo in un sistema, in cui fosse la sua mediazione, la sua necessità razionale, e da cui scaturisse quindi la certezza della mente rispetto ad esso. Sta semplicemente dicendo e ripetendo che non è pensabile qualcosa che è fuori dal linguaggio. Solo il linguaggio può universalizzare. L’universalità, dunque, che sola può sanare il vizio della conoscenza particolare, non è l’astratta universalità del tutto indifferenziato, ma quella universalità concreta che unità di parte e di tutto: la parte nel tutto, e il tutto nella parte. E si può anche dire: la differenza dell’identico, e l’identità del differente. Manchi l’identico o manche il differente, si ricasca nel particolare, e si esce dalla filosofia. Il che, a rigore, non può mai accadere in modo assoluto. Secondo Gentile, si ricade comunque sempre nella filosofia a un certo punto, quando si incomincia a ragionare. Paragrafo 7. Immanenza della filosofia in ogni pensare. La parte nel tutto è il tutto stesso nella parte. Questo ci rimanda immediatamente alla questione dell’atto, che noi possiamo considerare legittimamente come atto di parola: la parte nel tutto, cioè l’atto di parola nel linguaggio; e il tutto nella parte, cioè il linguaggio, che è la condizione dell’atto di parola. Ci sta dicendo Gentile, tra le righe perché non lo dice in modo esplicito, che nell’atto di parola c’è già tutto; come dire che all’atto di parola non manca di niente, non è debitore di qualche cosa per poter essere, ma è quello che è, sempre tutto intero. Non ci sono due forme diverse di conoscenza, una diretta alla parte, e l’altra al tutto. Ogni conoscere è unità inscindibile della conoscenza della parte e della conoscenza del tutto: conoscenza del particolare nella sua universalità: come dire, conoscenza dell’universale nella sua concreta particolarità. Qui dice una cosa che riprende ciò che dicevamo la volta scorsa, perché dicendo universale nella sua concreta particolarità, ci sta dicendo che il pensiero, in quanto pensante, non si disgiunge dal pensiero pensato. La concreta particolarità sarebbe il pensiero pensante, che è concreto ma particolare, è quello che sto pensando in questo istante; ma questo non può essere attinto alla conoscenza se non universalizzato; ma per universalizzarlo devo porlo come qualcosa di determinato, di pensato; quindi, ecco che non pensante senza pensato. È facile infatti avvertire che non solo il tutto, come puro tutto (identità senza differenze), si particolarizza, ponendosi come un immediato; ma la stessa parte, nella sua astrattezza (differenza senza identità), divien tutto: poiché la parte è parte solo verso il tutto, e parte cessa di essere appena prescinda dal tutto, e si consideri in sé, chiusa nella sua rigida particolarità irrelativa. Come se non avesse nessuna relazione. Il che potrebbe dirsi anche rispetto a ciò che lui afferma del pensiero pensante, che appare, così come lo pone, come irrelato. È lì, accade. Un momento, il pensiero pensante non è che viene dal nulla, viene da un pensato; il quale, sì, certo, viene da un pensante, e così via, il cattivo infinito. Ma se noi vogliamo rendere un buon infinito, dobbiamo considerare che le due cose sono simultanee, e che ciascuna è debitrice della propria esistenza da parte dell’altra.

Intervento: Noi tendiamo a ritenere la parola infinito come senza fine nel tempo. Qui, invece, la parola infinito la dobbiamo intendere come senza separazione.

Esatto. Come simultaneo. Un infinito attuale. Però, per pensare, per descrivere l’infinito attuale, io devo costruire una sequenza argomentativa. Questa sequenza argomentativa si snoda nel tempo, cioè, ha un elemento successivo a un altro. il caso più emblematico e banale è la frase. Una frase è costituita da un certo numero di parole in sequenza, una dopo l’altra; non posso dirle tutte simultaneamente. Di nuovo, ritroviamo la stessa struttura, e cioè questa apparente dualità di fatto si mostra come simultaneità di un elemento e del suo opposto. In questo caso dell’infinito attuale e dell’infinito potenziale, di nuovo dobbiamo dire che non può darsi l’uno senza l’altro. Non possiamo pensare l’infinito attuale senza ordinare un’argomentazione, senza metterla in ordine, e per farlo dobbiamo disporla sequenzialmente. Anche in qualunque argomentazione c’è una premessa, quindi un’argomentazione e una conclusione: sono momenti diversi in tempi diversi. Come dicevo prima, non posso dire tutto simultaneamente. I due opposti, considerati astrattamente, si equivalgono e s’identificano affatto, poiché la loro differenza si regge sulla loro relazione, che è la loro unità differenziata (particolarità dell’universale, universalità del particolare). Dice la loro differenza si regge sulla loro relazione, che è la loro unità differenziata: questo è Hegel. La loro differenza non è altro che la loro relazione, non è qualcosa che li separa. La relazione è ciò che li integra, è la loro unità, differenziata, perché l’uno non è l’altro, ma è unità. Fa poi un breve discorso sui filosofi. Paragrafo 9. La logica come scienza del pensiero presupposto: descrittiva e normativa. La logica, infatti, nel suo doppio ufficio, descrittivo e normativo, nella sua millenaria tradizione da Socrate a Kant, – e dopo Kant per quanti non si sono accorti della nuova logica sorta con la logica trascendentale da lui sbozzata e della impossibilità di mantenere in piedi accanto alla nuova la vecchia logica, – è sorta e rimasta semplice scienza particolare, perché fondata tutta sul principio che essa presupponga il suo oggetto. Oggetto della logica è il logo, il pensiero vero, ossia la verità nella sua intelligibilità o proporzione al pensiero. La logica aristotelica, secondo Gentile, ha sempre posto il suo oggetto come fuori, come qualcosa su cui deve lavorare; mentre per Gentile la logica è questo lavorare stesso del pensiero intorno alla logica. Cosa che aveva già fatto Hegel, peraltro: all’inizio della Scienza della logica dice esattamente questo, con altre parole, ma dice questo. La logica descrittiva, rispondente alla posizione più ingenua dello spirito rispetto al logo, gli si pone innanzi e studia le forme principali e le leggi della sua struttura, sforzandosi di rappresentarle fedelissimamente nel loro essere, immanente al logo che è già, e dev’essere già, affinché si possa togliere ad oggetto di studio. La logica prende un oggetto e lo studia secondo le proprie leggi; però, immagina che ci sia qualcosa da prendere in considerazione, anziché tenere conto che ciò che deve prendere in considerazione è questo stesso suo prendere in considerazione. Così gli Elenchi sofistici sono resi possibili dallo sviluppo della sofistica; così la teoria del concetto presuppone il socratismo; e, quel che è più, ogni dottrina è costruibile in quanto esempla il tipo eterno del logo, a cui l’autore della dottrina deve guardare. Cioè: si immagina che il logo sia questo, che il linguaggio sia fatto in un certo modo, che sia quello che decido io e, allora, posso determinarlo; ma lo do come già dato, appunto come un dato, come un ente di natura. La logica aristotelica ha considerato il pensiero come un ente di natura. Di guisa che questa logica descrittiva, al pari delle analoghe discipline coetanee, come la rettorica, la poetica, la grammatica, si riduce a una sorta di storia, il cui valore dipende dalla congruenza sua col modello esemplato. Per questo verso, è chiaro che il logo è presupposto della logica. Come dire che prima c’è il logo e poi la logica. Per Hegel, già non era così: il logo e la logica sono lo stesso. Né diversa è la relazione tra logica e logo se si guarda all’ufficio normativo della logica,… Prima aveva parlato dell’aspetto descrittivo della logica, cioè come avviene un ragionamento corretto. Poi Gentile parla della logica normativa: la cui normatività guarda bensì innanzi e non indietro: si riferisce al futuro invece che al passato; ma vale a regolare, o si pensa valga a regolare, ogni eventuale uso avvenire del pensiero,… La logica ha tradizionalmente questi due aspetti: è descrittiva e normativa. Da una parte, dice come stanno le cose e dall’altra, in base a come stanno, dice quello che si deve fare. E in verità la logica normativa non è se non la stessa logica descrittiva, poiché l’oggetto descritto (e però presupposto) ha una funzione normativa, ha cioè valore. Se io descrivo una certa cosa, la mia descrizione immagino che abbia valore, che cioè descriva le cose come stanno; e se le cose stanno così, ovviamente, devo muovermi in un certo modo anziché in un altro. Una tale logica, proponendosi d’essere descrittiva e normativa, ci vuol poco a convincersi che non può riuscire né descrittiva né normativa. Non descrittiva, perché presuppone un logo, che, una volta presupposto, non è il pensiero, ma un di là dal pensiero; e non si può mutare in pensiero (nella teoria logica risultante dalla descrizione) senza alterarsi e cessar d’essere quel presupposto che è in sé fuori del pensiero. Cioè: immagino un pensiero fatto in un certo modo, ma se incomincio a descriverlo lo sto già pensando, e pensandolo lo penso in un altro modo, non è più quella cosa lì. Che è poi quello che accade quando si parla, tra l’altro. Né normativa, perché il logo, presupposto di ogni pensiero, si trova innanzi al pensiero e questo innanzi ad esso, senza che né esso partecipi essenzialmente di questo, né questo di esso. In esso e esterno al pensiero, niente può fare che il pensiero veda quella norma di sé, che trasformi il puro essere del logo nel suo dover essere. Sarebbe come una autorità politica estranea, non riconosciuta, anzi ignorata dal volere del cittadino per cui tuttavia dovrebbe valere. Paragrafo 10. La logica matematica. La logica descrittiva e normativa ha potuto perciò rivestire carattere matematico, partecipando dell’empirismo e dommatismo proprio delle intuizioni matematiche; le quali generano una realtà intuitiva, in cui lo spirito non riconosce se stesso, e che presuppone quindi alla propria attività meramente descrittiva e regolativa. Alla matematica occorre l’ipotesi e il postulato, per cui si pone una realtà, data la quale è data insieme la possibilità della sua descrizione; poiché infatti la descrizione non succede, ma è identica alla posizione stessa della realtà. E come l’ipotesi matematica, anche l’ipotesi logica non presuppone, né può presupporre altro che un particolare. Il suo logo è quello che è; come lo spazio tridimensionale. Ma come questo spazio non toglie la razionalità delle ipotesi di altri spazi, così, presupposto il logo della logica descrittiva, niente impedisce di pensare la possibilità di un logo diverso. È un fatto che noi non si sappia ragionare altrimenti di come si ragiona e come la nostra logica umana ci fa ragionare. Ma quale necessità può competere a un fatto? E chi può dire che in un altro mondo, diverso da quello a cui appartiene il fatto della nostra logica, non s’abbia, o non s’avrebbe, a ragionare altrimenti? Messa la logica sul terreno dei fatti ben è stato detto, con coraggiosa consequenzialità, che anch’essa è il risultato d’una formazione naturale. Ci si immagina che logica descriva dei fatti naturali. Capitolo II. Il problema della logica nella filosofia greca. Paragrafo 1. La storia del concetto del logo e la storia della filosofia. Il problema della logica dipende dal concetto del logo: tale logo, tale logica. Il nostro logo è l’atto puro del conoscere; e come tale pare a noi che debba concepirsi se si rifà il cammino che il pensiero umano ha fatto nel suo sforzo di concepirlo. Che è l’unico modo di sperimentare la legittimità di un concetto. Il logo, abbiamo detto, è la realtà nella sua intelligibilità: la realtà universale a cui mira la filosofia. La sua storia, essendo la storia del concetto suo, coincide pertanto con la storia della filosofia, e, se si vuole, del problema fondamentale della filosofia. Giacché questa dà luogo bensì a vari problemi distinti; ma che sono tutti filosofici, in quanto forme distinte d’un problema unico, che è il concetto dell’universale come universale immanente in ogni particolare: né è possibile separare un problema dall’altro spezzando questo filo rosso che tutti li unisce, senza distruggere un ciascun di essi il suo carattere filosofico. Paragrafo 2. Il logo come realtà intelligibile. Ora, del logo o realtà universale nella sua intelligibilità, se raccogliamo nelle sue linee principali tutto il movimento del pensiero filosofico, scientificamente elaborato, dai primordi della filosofia greca fino a noi, si può dire che due siano stati i concetti, o due le vie percorse dalla mente per concepirlo: 1° in astratto, come semplice realtà; 2° in concreto, come intelligibile: ossia non realtà fuori dell’intelletto, ma quella realtà che è inerente all’intelletto, dove dimostra la sua intelligibilità. Non è dato altro modo di considerare quella realtà, poiché anche le filosofie esplicitamente negative, che oppugnano la intelligibilità del reale, non si sottraggono al concetto della filosofia come scienza della realtà intelligibile,… Paragrafo 3. Differenza tra il logo della filosofia greca e quello della filosofia cristiana. Questo il ritmo eterno dell’intelletto: che prima fingit creditque… Prima si immagina qualche cosa e poi crede che quello che ha immaginato, che ha costruito, sia vero, sia reale. Questo potrebbe essere l’epitaffio di tutto il pensiero contemporaneo: fingit et creditque, finge e poi crede a quello che ha immaginato. …e poi s’avvede di trovarsi innanzi al prodotto della sua stessa attività creativa. Pone la realtà in un primo momento per trovarsela innanzi come altro da sé, in guisa da crederla per sé stante, di là e prima della sua medesima attività, e per ciò stesso base solida e ferma all’esercizio di questa. E questo è il momento ingenuo della spontanea creatività. Al quale segue l’altro momento della riflessione e della critica, ond’egli riconosce se stesso nell’oggetto in cui si è posto. Naturalmente, occorrerà arrivare ad Hegel perché una cosa del genere possa accadere. Qui sta già ponendo la questione dell’universale e del particolare. È una questione importante che generalmente è stata posta come una semplice disquisizione di filosofi che non ha nulla a che fare con la realtà delle cose, ma semplicemente un modo dei filosofi per giustificare la loro esistenza. Ma la questione dell’universale e del particolare è invece una questione di fondamentale importanza perché riguarda il funzionamento del linguaggio. È una questione nata con Parmenide, si è sviluppata poi nel Medioevo, con la famosa disputa sugli universali, fino ad arrivare a oggi. La questione può porsi in questo modo, e cioè come volontà di potenza. Ho bisogno del particolare, per dire qualche cosa devo determinarlo, isolarlo, ma perché questo qualche cosa sia effettivamente qualche cosa necessita di un significato, di una universalità. Questo comporta un problema, e cioè: se io voglio affermare un qualche cosa, questo qualche cosa che affermo devo affermarlo in quanto universale. Ma se lo affermo come universale dico com’è; dicendo com’è si crea un problema. Perché se io dicessi a Gabriele come stanno veramente le cose, questo, indipendentemente dal fatto che ci creda oppure no, crea in me un problema, perché se le cose stanno così non si modificano, e cioè non c’è spazio per il mio superpotenziamento. Se io affermo che una cosa è così, non mi sta più bene, ma devo farlo per potere esercitare la volontà di potenza, devo fare credere a Gabriele che le cose stanno veramente così e non altrimenti. Ma se davvero stessero così sarebbe un problema, perché a questo punto io non ho più niente da dire e il mio superpotenziamento si arresta e, come direbbe Nietzsche, a ogni arresto del superpotenziamento corrisponde un immediato depotenziamento. Quindi, la volontà di potenza si esercita attraverso un qualche cosa che deve rinnegare immediatamente, proprio per potersi esercitare, cioè, deve dire come stanno le cose, perché se non dice come stanno le cose non convince nessuno, ma dicendo come stanno le cose si blocca. Quindi, anche la volontà di potenza ha anche lei questi due lati della questione: la volontà di potenza ponentesi e la volontà di potenza posta. Ponentesi, in quanto afferma che le cose stanno in quel modo; posta, in quanto deve negare che stanno in quel modo, perché se stessero davvero in quel modo, la volontà di potenza si arresterebbe per sempre. Questo è uno dei motivi, forse l’unico, per cui Nietzsche parlò dell’eterno ritorno dell’uguale. Lui si era posto il problema, analogo a questo, del passato. La volontà di potenza nei confronti del passato non può niente, il passato è quello che è; come lo modifico? Ecco che il passato costituisce un impedimento alla volontà di potenza, la quale invece non riconosce nessun impedimento, se ne vuole sbarazzare all’istante appena ne vede uno. E, allora, come risolve Nietzsche il problema? Con l’eterno ritorno dell’uguale, ma da intendersi a questo punto, non come qualcosa che ritorna da un passato immaginato remoto, ecc., ma come qualcosa che ritorna nel senso che non se ne è mai andato. Questo è il modo di intendere l’eterno ritorno in modo più interessante: ritorna perché non se ne è mai andato, è sempre stato qui. E qui siamo, come vorrebbe Gentile, nell’atto, nell’atto in cui il passato è qui adesso, perché il tempo non è più lineare ma è la simultaneità, che consente di pensare che è tutto qui in questo momento. Ma, come sappiamo, per poterlo pensare dobbiamo utilizzare invece la sua linearità. Stiamo parlando del tempo, non quindi come ente di natura ma come di un concetto; non è che il tempo sia una cosa che sta da qualche parte; il tempo è ciò che a me serve descrivere, è quella cosa che io voglio che sia, e che mi serve per procedere, per andare avanti con la volontà di potenza. Ecco che allora la questione dell’universale e del particolare non è altro che l’atto di parola. Ci sono voluti duemilacinquecento anni per accorgersene, cioè da Parmenide fino a noi, che descrive soltanto l’atto di parola: il particolare, cioè il significante, e l’universale, cioè il significato. Che non stanno in opposizione, così come si voleva nel Medioevo; questo non ha nessun senso, sono momenti dello stesso. Sarebbe come fare due partiti: l’uno, il partito del significante e l’altro, il partito del significato. Non ha nessun senso perché non c’è l’uno senza l’altro, sono la stessa cosa. Detto questo, possiamo dire che il problema dell’universale e del particolare non è altro che il problema del linguaggio, e cioè il problema che ciascuno incontra nel momento stesso in cui apre bocca, o il pensiero. Dicendo qualche cosa – e se dice qualche cosa è per manifestare la sua volontà di potenza – nel momento in cui pone questo qualche cosa, deve essere quello che è perché la sua volontà di potenza possa esercitarsi, ma al tempo stesso, se è quello che è, blocca la sua volontà di potenza. E, quindi, che fa? Se ne inventa un’altra, naturalmente, e incontra un paradosso che non ha nessuna soluzione: se tengo separate queste due cose, non c’è nessuna soluzione; così come non c’era nessuna soluzione nel Medioevo rispetto agli universali. Come dire che per affermare la mia volontà di potenza devo affermare qualche cosa, rispetto alla quale cosa io stesso non posso credere; non posso credere perché, se ci credessi veramente, si arresterebbe la mia volontà di potenza. Paragrafo 4. L’oggetto della filosofia come principio del dato. La realtà del filosofo non è la realtà immediata dell’esperienza. La filosofia comincia quando questa realtà che ci riempie gli occhi e s’affolla nella coscienza da tutti i sensi, o da tutti gli spiragli dell’immediato conoscere, non ci soddisfa più perché incoerente, nella sua molteplicità, e seco stessa contrastante, e riluttante a quell’unità che è propria del nostro pensiero. Ha detto in modo un po’ diverso quello che vi stavo dicendo rispetto alla volontà di potenza: io dico una certa cosa, ma, se proprio non sono totalmente ingenuo, questa stessa cosa affermata non mi soddisfa, non basta, perché rinvia ad altro e, quindi, non è quella che pensavo che fosse. Nello sforzo di cogliere l’unità attraverso la molteplicità dell’esperienza sorge la filosofia. Sorge, sorpassando quella forma di conoscenza da cui nasceva il problema, e quindi spingendosi di là dalla realtà che è contenuto di questa forma di conoscenza: dalla realtà che il filosofo ha già innanzi a sé, e che non egli, con la sua specifica attività di filosofo, ha posto in essere, e che rappresenta perciò a lui un dato. Restare al dato è non filosofare; filosofare è procedere oltre il dato, oltre l’esperienza, a che? Il termine a cui fin dall’origine aspira la filosofia, poiché non è il suo dato, non può esser altro che un suo prodotto: un principio, come ben presto fu detto, ossia una realtà che, a differenza di quella da cui la filosofia prende le mosse, appaghi l’esigenza dello spirito, gli sia conforme, diventando intelligibile, e spogliandosi della caotica frammentarietà che la rende estranea e refrattaria a quell’intima compenetrazione onde lo spirito tende a investirla. Che è quello che facciamo noi, nel senso che… prendiamo l’esempio della volontà di potenza: affermo qualche cosa, che è quella che è, ma ponendola si altera; e allora che cosa succede? Che rifletto su quello che sta accadendo, cioè, rifletto sul funzionamento del linguaggio; e, allora, mi accorgo che ogni volta che pongo qualche cosa, nello stesso porsi questo qualche cosa dilegua e un’altra ne appare. Anche se è stata pensata come tale per millenni, non è una maledizione ma è il funzionamento stesso del linguaggio, è ciò per cui posso pensare, ciò per cui letteralmente esisto. Quindi, è ciò che mi fa esistere, ma, facendomi esistere, all’istante cancella la mia esistenza per riprodurla altrimenti, perché ogni atto è sempre quell’atto, e se io voglio determinarlo sarà un altro atto. Paragrafo 9. Ritorno della filosofia greca alle sue origini nell’età alessandrina. Se tutto è quell’Uno che dice Plotino dopo l’intero sviluppo della filosofia greca, la filosofia attinge la meta, quando si persuade che filosofare non giova, e che le tocca trascendere se stessa. Punto d’arrivo fatale d’una filosofia partita dal concetto che il reale sia un antecedente dello spirito, al quale perciò non rimanga posto nel reale inteso nella sua genuina natura. Qui critica Platone e Aristotele, i quali in ogni caso partono dall’idea che il reale sia sempre l’antecedente dello spirito: c’è una realtà e, poi, lo spirito, che si adatta, si adegua, ecc., ma è qualche cosa che lo preesiste. Paragrafo 10. Carattere generale della filosofia greca rispetto al logo. Giacché ben può dirsi che il naturalismo filosofico sia la filosofia costruita col metodo stesso delle scienze naturali. Metodo implicito tutto in quel principio del presupporre dommaticamente il proprio oggetto: presupposto il quale, non è dato più di sollevarsi all’universale che è il termine della filosofia; poiché, come s’è visto, non c’è più luogo per lo spirito,… Se la natura è il tutto, lo spirito non c’è più. …che non solo deve pur rientrare nella realtà universalmente concepita, ma è tutta la realtà così concepita. Sul terreno del pensiero greco, in questo senso può dirsi dunque che non sorga mai vera filosofia, poiché non sorge il concetto dello spirito come quell’attività conoscitiva che esso è in rapporto con la realtà che si vuole spiegare. … Il logo della logica antica, con grande rigore sistematico trattato nell’Organo aristotelico, è un logo naturalisticamente inteso, astratto antecedente del conoscere; e dà luogo perciò a una scienza empirica e dommatica, che, diventata nel periodo discensivo di quella filosofia parte propedeutica e precettistica della filosofia, proietta il suo empirismo e dommatismo su tutta la filosofia, che in essa dovrebbe attingere la propria giustificazione. E si può quindi considerare il suggello dell’antico naturalismo da cui deriva. Questa l’invettiva di Gentile nei confronti della filosofia pre-gentiliana. Capitolo III. Il problema della logica nella filosofia moderna. Paragrafo 1. Il problema filosofico come problema morale nella filosofia greca della decadenza. La filosofia antica comincia dalla natura e vuole raggiungere lo spirito; ma non può raggiungerlo, come abbiamo veduto. La filosofia moderna comincia dallo spirito, e attraverso lo spirito mira a restaurare l’intelligibilità d’ogni reale, quello compreso che empiricamente si presenta come natura. Qui siamo a Cartesio. Comincia dallo spirito per la stessa ragione che aveva fatto cominciare l’antica dalla natura; perché il problema che ne costituisce il motivo fondamentale è il problema morale, il bisogno di rendersi conto della realtà spirituale, che l’antica speculazione non aveva potuto giustificare. Cioè: non più “che cosa è” ma che cosa “deve” essere. Questo è il passaggio, passaggio segnato in realtà dal cristianesimo. Il problema morale si acuisce nella dissoluzione della stessa filosofia greca, nel periodo post-aristotelico, acquistando sul problema fisico una preminenza, che non aveva mai avuto fino ad Aristotele, quando durava invitta in tutto il suo vigore la fede razionalistica in una filosofia puramente contemplativa, naturalistica e incuriosa degli interessi umani. Ma Stoici ed Epicurei, accentuando le tendenze antispeculative dei Cinici e dei Cirenaici, giungono a concepire sostanzialmente il sapere filosofico come arte del vivere, sottraendo lo spirito all’oppressione delle forze avverse, quantunque non siano in grado di smentire le origini del loro filosofare, né sappiano quindi vedere questa rivendicazione delle energie morali se non in una maniera meramente negativa, come soppressione d’ogni loro ripugnanza alla natura originaria, sia essa ragione immanente nell’essere divino, che è in fondo a tutte le cose, siano istinti e tendenza edonistiche. E, quindi, ecco, occorre il cristianesimo. Paragrafo 2. Il nuovo spirito del Cristianesimo (volere, non intelletto). Nasce uno spirito nuovo. Socrate aveva ammonito i filosofi greci che lasciassero da parte le ricerche intorno alla natura, che è realtà divina (τ δαιμόνια), per volgersi al mondo che dipende dall’uomo (τά άνθρωπινα). Ma le cose umane, nel nuovo avviamento della filosofia, erano state assorbite tra le divine; e sola era rimasta l’opera divina, la natura, unica realtà nota ai filosofi. Fiat voluntas tua, dice invece la nuova preghiera; poiché comincia a vedersi che questa volontà non è già fatta, non è quella natura che, come presupposto dello spirito, è un factum. Per la filosofia greca ogni cosa è un factum, non resta quindi che la contemplazione. Da qui il fatto che la logica greca, cioè la logica aristotelica, non sia altro che contemplazione e analisi del logo. Ora la volontà divina deve farsi, e farsi in terra come in cielo; farsi della volontà umana. Il mondo pertanto non è più quello che c’è, ma quello che ci deve essere;… Ecco il passaggio fra quello che c’è e quello che deve essere, fra la filosofia contemplativa e la filosofia morale. …non quello che troviamo, ma quello che lasceremo:… Questo viene dal cristianesimo, cioè dal fatto che la filosofia morale ha preso il posto della filosofia contemplativa, naturalistica. È sorto il dover essere e, quindi, il ciò che sarà. Il ciò che sarà è il ciò che io preparo oggi con il mio fare. …quello che nasce in quanto con l’energia del nostro spirito lo facciamo nascere. Paragrafo 3. Ritorno della Scolastica all’intellettualismo greco. Lo strumento del sapere attuale, ridotto a semplice funzione didattica d’analisi e di ripetizione, non può essere se non il sillogismo, il quale presuppone le premesse come quella cognizione in cui la conseguenza è già implicita. Quindi anche il principio d’autorità; poiché il valore del pensiero non consiste nel suo atto, ma nella base che esso presuppone e non pone. Cioè: la validità di un’argomentazione consiste soprattutto nella sua premessa, che presuppone. Quindi il macchinoso formalismo con cui il pensiero in atto s’industria e s’adopra attorno al vero pensiero; il quale non deve nascere né svolgersi, ma c’è, intero, infinito, destinato, malgrado tutti gli sforzi che la mente del filosofo faccia per chiuderlo dentro a una somma ponderosa (destinata ad apparire essa stessa ad altri pensatori testo da interpretare e illustrare), a rimanere, per definizione, trascendente l’elaborazione scientifica che possa farsene. Quindi la scienza ridotta a commento. Le cose ci sono già e sono quelle che sono, non posso che commentarle. E qui siamo a Tommaso. Tutto il basso Medioevo non è che un commentare continuo, in tutti i campi.