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28 settembre 2022

 

I presocratici di Diels-Kranz

 

Questa sera ci occuperemo di Protagora e Gorgia, i più noti tra i sofisti. A pag. 1547, un frammento di Aristide. A me sembra che costoro non conoscano né l’origine né il senso che lo stesso termine di “filosofia” aveva presso i Greci, e che in generale non abbiano capito nulla su questa questione. Erodoto non ha forse chiamato “sofista” Solone e poi anche Pitagora? Androzione non ha forse denominato “sofisti” i Sette – mi riferisco ai Sette Sapienti –, e poi ancora non chiama “sofista” anche il famoso Socrate? E poi, Isocrate non chiama “sofisti” i cultori dell’eristica, e – come direbbero loro – i dialettici, mentre chiama “filosofo” se stesso, e filosofi gli oratori e quelli che si dedicano alla politica? Anche alcuni suoi contemporanei usano questo termine nello stesso modo. Lisia non chiama forse “sofista” Platone e poi anche Eschine? Appena per accennare al fatto che con il termine “sofista” si indicavano molte cose. A pag. 1561. Fr. 12, è un frammento di Sesto a proposito di Protagora. “Riguardo agli dei, non sono in grado di dire né che sono né come sono: molti, infatti, sono i fattori che lo impediscono”. Per questa ragione gli Ateniesi lo condannarono a morte; essendo fuggito, fece naufragio e morì per mare. Fr. 13. Come diceva Protagora, che sosteneva questo: “l’uomo è misura di tutte le cose”, in modo che, quali le cose sembrano essere a me, tali sono per me, e quali sembrano a te, tali sono per te. Fr. 14. Anche Protagora vuole che l’uomo sia misura di tutte le cose, di quelle che sono in quanto sono, di quelle che non sono in quanto non sono; e chiamava “misura” il criterio e “cose” i fatti, in modo che ne deriva questo senso: l’uomo è il criterio di tutti i fatti, di quelli che sono in quanto sono, di quelli che non sono in quanto non sono. Pertanto, egli ammette solo quello che appare a ciascuno, e così introduce il concetto di relatività. A pag. 1565. Fr. 19. (Socrate nell’Eutidemo platonico). Pur avendo udito questo ragionamento (della impossibilità della contraddizione) da parte di molti e spesso, me ne stupisco sempre. I seguaci di Protagora e pensatori ancora più antichi se ne servivano molti. A me, però, sembra sempre in certo modo strano e capace di sovvertire sia gli altri ragionamenti sia se stesso. – inoltre, se relativamente a un medesimo oggetto sono vere a un tempo tutte le affermazioni contraddittorie, è evidente che tutte quante le cose si ridurranno a una sola. Infatti, saranno una medesima cosa e una “trireme” e una “parete” e un “uomo”, se di tutte le cose un determinato predicato si può tanto affermare quanto negare, come sono costretti ad ammettere i sostenitori della dottrina di Protagora. Fr. 20. I Greci sostengono la tesi, che per primo formulò Protagora, che a ogni ragionamento se ne contrappone un altro “opposto”. Protagora afferma che si può parlare in sensi opposti, e con pari valore, di ogni questione e di questo medesimo principio, cioè che ogni questione può essere trattata in un senso e nel suo contrario. Protagora è famoso per i Discorsi duplici (δισσο λγοι), che sono appunto discorsi che possono farsi a favore o contro qualunque cosa, cioè, posso affermare una qualunque cosa, dimostrarla e poi dimostrare esattamente il contrario, con argomentazioni altrettanto forti. Muovendo da questa idea, è chiaro che la verità per lui è, come diceva prima, relativa a chi l’afferma. Ora, è vero, come dice Protagora, che posso dimostrare una cosa e anche il suo contrario, ma la cosa che Protagora non ha preso in considerazione riguarda l’insegnamento di Eraclito. Sì, certo, posso dimostrare tanto A quanto non-A, ma Protagora li tiene separati: prima dimostra una cosa e poi dimostra il contrario. Non ha tenuto conto dell’insegnamento di Eraclito secondo cui ciò che affermo contiene la sua negazione, cioè non c’è affermazione che non sia anche negazione, e viceversa; mentre lui fa un discorso, sì, coerente e condivisibile per alcuni aspetti, ma tiene le due cose separate, cioè, posso dimostrare che uno è uno e posso dimostrare che l’uno è molti, ma non che l’uno “è” necessariamente molti. A pag. 1567. Fr. 21a. (Apologia di Protagora nel “Teeteto” di Platone). Io affermo che la verità è come ho scritto: ciascuno di noi è misura delle cose che sono e di quelle che non sono; c’è, poi, una differenza enorme tra un soggetto e un altro, in quanto, per uno sono e appaiono certe cose, invece per un altro altre. È chiaro che molti frammenti ripetono sempre le stesse cose. Come dicevamo, questa è una fortuna per i filologi, perché trovano conferme A pag. 1571. Fr. 26. Questo è Platone nel Fedro. Per primo, credo, viene il “proemio”, in quanto bisogna che venga pronunciato al principio del discorso. Sono queste, non è vero, che tu chiami le finezze dell’arte “retorica”, o no? – Sì. – Al secondo posto, poi, viene la “narrazione”, e, a ridosso di essa, le relative “testimonianze”. In terzo luogo, vengono gli “indizi”; in quarto luogo, “le cose verosimili”. Infine, vengono “conferma” e “riconferma”, come mi pare che dica quell’uomo di Bisanzio, eccellente costruttore di discorsi. Ti riferisci al grande Teodoro? – E come no? – E poi ci sono “confutazione” e “controconfutazione”, come vanno fatte nell’accusa e nella difesa. E non tireremo in ballo, poi, il mirabile Eveno di Paro, che per primo inventò le “insinuazioni” e gli “elogi indiretti” /…/ E, poi, lasceremo dormire Tisia e Gorgia, i quali videro come le cose verosimili siano da tenere in pregio più di quelle vere? A pag. 1573. Fr. 29. Infatti, chi potrebbe pensare che Omero si sia sbagliato in ciò che Protagora gli rimprovera, cioè che, mentre crede di pregare, comanda, dicendo: “canta l’ira, o dea”. Infatti, egli dice, esortare a fare qualcosa o a non farla è un comando. Protagora è il pensatore dei Discorsi duplici. Lui si accorge che è possibile dimostrare una cosa e dimostrare il suo contrario. Ma com’è che è possibile fare questo? In effetti, né Protagora né altri hanno detto chiaramente perché una cosa del genere è possibile. È possibile perché, affermando una qualunque cosa, nego un’altra cosa, cioè, nell’affermare qualche cosa c’è implicitamente una negazione – questo Hegel lo aveva inteso molto bene: non c’è affermazione senza negazione – quindi, il discorso è già sempre duplice, inevitabilmente, inesorabilmente; quindi, non devo fare altro che scegliere uno dei due corni del dilemma e andare in quella direzione, se voglio dimostrare o negare, non c’è alcun problema in questo senso. È poi questo il motivo per cui gli umani combattono fra di loro, perché uno sostiene A e l’altro sostiene B, che è non-A naturalmente, e ciascuno ha perfettamente ragione a sostenere quello che afferma: muovendo dalle sue premesse, ciò che ne segue è perfettamente coerente e, quindi, vero. Quindi, entrambi dicono il vero, nei dibattimenti così come nelle liti, di qualunque tipo, ciascuno dei due ha assolutamente ragione. Ed è per questo che nessuno dei due demorde, perché sa di essere nel giusto e sa, quindi, che l’altro è nel torto, che è una cosa che sa bene, bene così come la sa quell’altro, allo stesso modo e per gli stessi motivi. Quindi, la duplicità dei discorsi è una questione interessante – la vedremo più avanti nella semiotica di Greimas –, è ciò con cui gli umani hanno a che fare continuamente senza accorgersene, senza accorgersi che l’interlocutore o l’antagonista a seconda dei casi, sta dicendo il vero, esattamente tanto quanto lui, solo che muove da una premessa differente. Tra l’altro, è per questo che Peirce raccomandava, rispetto alle dispute teoriche, che la prima cosa da fare è mettersi d’accordo sui termini, che cosa intendiamo con questo o quello. Ma non ci si intende mai, perché uno intende una certa cosa, l’altro la intende in un’altra maniera. Che, poi, chiaramente, se muovo da una certa premessa, le conseguenze saranno di un certo tipo; muovendo da un’altra premessa, troverò altre conseguenze; ma l’accordo sulle premesse, che è fondamentale, è quello il punto dolente, perché è su quello che non ci si mette mai d’accordo. Quindi, il lavoro che ha fatto Protagora è interessante per un verso, ma va poco lontano, perché non tiene conto dell’insegnamento di Eraclito, che pure aveva a disposizione, in quanto coevi. Sicuramente Protagora conosceva Eraclito, però di questa cosa non teneva conto, e la questione sorprendente è che non ne ha mai tenuto conto nessuno, si è dovuto attendere Hegel. Non ne ha tenuto conto nessuno, come se fosse qualcosa di impossibile da accogliere, anche solo da pensare, e cioè che una cosa sia vera a condizione che lo sia la sua negazione. È esattamente il contrario del paradosso: il paradosso è una proposizione che afferma una certa cosa a condizione che sia vera la sua negazione, ma viene chiamato paradosso, quindi, viene considerato una sorta di mostro logico, qualche cosa da evitare assolutamente. Come dire che ciò che ha posto Eraclito è da evitare assolutamente, perché ha fatto del paradosso una sorta di ontologia, lo ha posto come l’essere: l’essere è relazione, è contraddizione, è opposizione tra positivo e negativo, per esempio, tra essere e non-essere. Eraclito è sicuramente il più grande pensatore mai esistito, ma di fatto il suo pensiero è morto con lui, perché nessuno l’ha ripreso. Mentre altre cose vengono riprese, rielaborate, rimasticate all’infinito – tutta la filosofia non è altro che questo – Eraclito no, Eraclito è stato cancellato, il suo pensiero è nato ed è morto con lui, fino a Hegel, che lo riprende. In effetti, l’aspetto teoretico di Hegel è quello meno considerato, l’aspetto più considerato è quello politico, quindi, Kojève, Marx, però l’aspetto teoretico, quello che si impianta su Eraclito, quello è pericoloso proprio come lo fu quello di Eraclito. Ora, prendiamo Gorgia. Gorgia è un caso particolare, non si tratta più con lui di costruire discorsi contrari, δισσο λγοι, ma di mostrare che non esiste niente. Ora, noi leggeremo la sua elaborazione teorica come ci è stata tramandata da Sesto Empirico in Contro i matematici, ma la leggeremo tenendo conto e a partire da una cosa che dice alla fine dell’Encomio di Elena. Leggeremo anche l’Encomio di Elena ma per il momento ci interessa leggere soltanto la chiusa. A pag. 1639. …ho cercato di eliminare l’ingiustizia di un biasimo e l’inconsistenza di un’opinione; ho voluto scrivere questo discorso, da un lato come un encomio di Elena, dall’altro come un mio gioco. Ecco, noi partiamo da qui, dall’idea che Gorgia abbia voluto giocare. Dicevo prima che Gorgia è una cosa singolare, perché in effetti ha voluto giocare, autocontraddicendosi continuamente, pur facendo finta di seguire una logica ferrea, stringente, potente, la logica aristotelica, quella che Aristotele descrive negli Analitici. Gorgia non dice che è possibile costruire un discorso e poi un discorso falso nella stessa maniera, no, per lui non esiste niente. Ora, dicevo che lui sta giocando ed è probabile che si sia accorto di autocontraddirsi continuamente, ma si contraddice in un modo particolare. A pag. 1615. Fr. 3. Gorgia di Leontini apparteneva allo stesso gruppo di coloro che rifiutano il criterio di verità, ma non sulla base di un ragionamento simile a quello dei seguaci di Protagora. Nell’opera Sul non essere o sulla natura egli sostiene tre tesi fondamentali, poste una di seguito all’altra. Una, che è anche la prima, è che “nulla esiste”, la seconda che “se anche qualcosa esiste, non è comprensibile da un essere umano”, la terza che “se è anche comprensibile, tuttavia non può essere comunicata o spiegata ad un altro”. Che nulla esiste lo dimostra con questa argomentazione: se, infatti, qualcosa esiste, è o essere o non-essere, oppure è essere e non-essere insieme; ma l’essere non è, come dimostrerà, né il non-essere, come confermerà, e nemmeno l’essere e il non-essere insieme, e anche questo lo spiegherà. Pertanto, l’essere non esiste. Anche il non-essere non esiste. Se, infatti, il non-essere è, insieme sarà e non sarà; in quanto è pensato come non-essere non sarà, in quanto è come non-essere, a sua volta sarà. Qui, intanto, dobbiamo rilevare che Gorgia non ci dice mai che cosa intende né con essere, né con nulla, né con esistenza. Quindi, quando ci dice che l’essere non è, non sappiamo di fatto di che cosa ci stia parlando, perché non lo definisce mai. Parte, quindi, dall’idea che questi termini siano già stati definiti, che siano già noti, conosciuti, cosa che contraddice la sua seconda negazione, per la quale nulla è conoscibile.

Intervento: Non ho inteso questa frase: Se, infatti, il non-essere è, insieme sarà e non sarà; in quanto è pensato come non-essere non sarà, in quanto è come non-essere, a sua volta sarà.

Lui considera il nulla – anche questo si guarda bene dal precisarlo – in certi casi come un’ipostasi, in altri casi come un giudizio, cioè come nessuna cosa. Se prendo il non-essere come giudizio, allora dice che non c’è nessuna cosa – questa sarebbe la posizione di Parmenide, per la quale il non-essere è il nihil absolutum –; ma se lo pongo come ipostasi, sto dicendo che è qualcosa, quindi, il non-essere è, perché l’ho determinato. E, infatti, conclude, Se, infatti, il non-essere è, insieme sarà e non sarà: in quanto è pensato come non-essere (non c’è nessuna cosa) non sarà, in quanto è come non-essere, a sua volta sarà (se lo penso come ipostasi, allora è, perché è qualche cosa). È del tutto assurdo che qualcosa sia e insieme non sia, pertanto, il non-essere non è. Qui si avvale dell’assurdità dell’argomentazione, assurdità che non si capisce bene da dove arrivi. Perché è assurdo, dal momento che è esattamente ciò che sta facendo lui? Da una parte accoglie il principio di non contraddizione, dicendo appunto che è assurdo che sia e non sia simultaneamente, dall’altra parte, lo rigetta in quanto distingue tra il non-essere di nessuna cosa e il non-essere in quanto ipostasi. In questo modo lui gioca, esattamente come diceva alla fine dell’Encomio a Elena: sta giocando, non sta facendo altro che questo. Vedremo mano a mano che razza di gioco stia facendo. Lui dice che nulla è, se qualcosa fosse non sarebbe conoscibile, se fosse conoscibile non sarebbe comunicabile. Benissimo. Capovolgiamolo: nulla è, ma anche l’essere; quindi, abbiamo l’essere e il non-essere insieme, quindi, abbiamo il tutto, quindi, il tutto è, ed è conoscibile, perché l’ho determinato come tutto e, compiendo questa determinazione, ovviamente lo conosco. Quindi, abbiamo il tutto, che esiste ed è conoscibile ed è trasmissibile, perché trasmetterlo è esattamente ciò che sto facendo in questo istante. Abbiamo, dunque, ribaltato le tre negazioni di Gorgia. Perché possiamo farlo? Perché stiamo giocando. Adesso spero emergerà che cosa questo gioco di Gorgia vuole mostrarci, e cioè che tutto ciò che si dice non significa niente: posso dire tutto e il suo contrario, è lo stesso. In realtà, poi, significa, ma non significa nulla di fermabile, di arrestabile, di certo. Lui, togliendo la possibilità dell’esistere, della conoscenza e della trasmissibilità di qualche cosa, è come se togliesse di mezzo tutto, tranne una cosa, che lui non dice perché non può dirla, non può neanche pensarla. Il suo ragionamento, entro certi limiti, è corretto, per cui demolisce tutto e che cosa rimane? La volontà di potenza, è l’unica cosa che rimane. In effetti, possiamo anche dire con Gorgia, anche se lui non lo dice in questi termini, che dicendo non si dice niente, perché ciò che dico non ha un significato da qualche parte, un significato al quale io possa affidarmi e sul quale possa arrestarmi. Sappiamo che il significato è infinito, è l’essere. C’era arrivato anche Sini: l’essere e l’ente di Heidegger non sono altro che il significato e il significante. Certo, per Heidegger l’essere è quell’apertura, la Lichtung che illumina la radura e ci mostra l’ente, il quale può apparire solo perché questa apertura dell’essere. Ma l’ente, cioè il significante, potrebbe apparire senza il significato? Ovviamente, no, non sarebbe un significante, non sarebbe niente. Quindi, è il significato che ci apre al significante, che lo fa esistere in quanto significante; d’altra parte, anche il significato non ci sarebbe senza il significante, perché non ci sarebbe nulla che lo dice, nulla che lo pone e, quindi, non c’è. Quindi, non ha torto Gorgia a mostrarci in questo gioco – non dimentichiamo che sta giocando – che non c’è nulla che possa essere affermato con certezza, nulla che possa essere stabilito, nulla che possa essere ipostatizzato, tranne la volontà di fare questo, cioè la volontà di potenza. Eliminato tutto rimane la volontà di potenza, rimane la volontà di dominare l’ente, rimane la volontà di affermare che le cose stanno come dico io. A questo punto, certo, la volontà di potenza tende a porre l’ente come ente di natura, perché solo così lo può modificare, solo se lo pone come non-Io, come ciò che mi si oppone. Ma Eraclito aveva già detto che non c’è questa opposizione, e poi Hegel: soggetto e oggetto sono due momenti dello stesso, non li posso scindere. Quindi, questo oggetto, proprio nell’accezione tedesca di Gegenstand, ciò che sta di fronte a me, che sta lì, ben piantato, questo oggetto sono io: è questo che dice Hegel, che, di fatto, è quello che diceva Eraclito. Quindi, questo non-Io, sì, lo pongo come negazione dell’Io. Il non-Io sarebbe poi il significato, l’essere, sarebbe tutto ciò che mi nega, tutto ciò che mi si oppone, ma tutto ciò che mi si oppone è la condizione perché io sia io. Quindi, sono due momenti dello stesso, non si possono separare in nessun modo. Gorgia in questo gioco che sta facendo non sta creando nessun sistema, nessuna cosmogonia, nessuna teoria di sorta, sta giocando con le parole, sta mostrando che qualunque cosa si dica, non ha in sé il significato. Il significato – questo Nietzsche lo aveva inteso benissimo – è la volontà di potenza, l’essere per Nietzsche è volontà di potenza. È questo il significato, è questo che muove e che fa anche muovere tutto quanto. Cosa vogliono dire le parole che io dico? Non vogliono dire niente, è questo che sta dicendo Gorgia. Ma noi possiamo aggiungere: sì, qualcosa vogliono dirlo, vogliono dire che io intendo determinarle, dominarle, è questo che voglio fare, e stando a Nietzsche, e credo non abbia tutti i torti, non c’è nient’altro.

Intervento: Lei diceva che la volontà di potenza è il significato. Io pensavo alla volontà di potenza come qualcosa che determina il significato. Cambia qualcosa?

Eh, sì. Porlo come significato è più forte, nel senso che a questo punto la volontà di potenza diventa ciò che dà un senso a tutto, è il motivo per cui si fa tutto, non è qualcosa che si aggiunge, è già lì nel mio dire, è ciò che determina il mio dire, ciò che lo indirizza, che lo pilota, ciò che lo fa esistere letteralmente. Ciò che fa esistere l’ente è l’essere, ma questo essere per Nietzsche è la volontà di potenza, quindi, ciò che fa esistere gli enti è la volontà di potenza. La volontà di potenza è il significato di ciascun ente, è ciò che quell’ente, qualunque ente, vuole dire, è il significato, né più né meno. Questo Nietzsche lo ha un po’ frainteso, non aveva conoscenze approfondite del linguaggio, ma è chiaro che la volontà di potenza deve continuare a superpotenziarsi, va avanti all’infinito, non si ferma mai. Nietzsche aveva inteso che se si ferma c’è subito un depotenziamento. Questo gioco di Gorgia ci suggerisce proprio questo, che tutto ciò che si dice non potrebbe significare assolutamente niente se non ci fosse la volontà di potenza, che è l’unico – diciamola così – autentico significato, ed è il motivo per cui si dicono tutte le cose che si dicono, quando si dicono e nel modo in cui si dicono. Il modo in cui si dicono è chiaramente sempre il più conveniente al superpotenziamento. A questo punto abbiamo detto l’essenziale, però c’è ancora una parte, che lui coglie. Intanto, dice che il non-essere non c’è, perché si contraddice da solo; anche l’essere non c’è, perché è o generato o ingenerato; se è ingenerato vuol dire che è eterno, quindi, è infinito, e se è infinito non sta dentro a niente, quindi, non ha nessun luogo e, se una cosa non ha nessun luogo, non c’è; se, invece, è generato vuol dire che arriva da qualche altra cosa, che è il prodotto di un’altra cosa, quindi, c’è un altro essere più potente di lui che lo genera. Pertanto, lui dice che l’essere non è né generato né ingenerato, perché vuole dimostrare che non esistono né l’essere né il non-essere. A pag. 1617. …non è né uno né molti /…/ Se, infatti, è uno, è o quantità discreta o quantità continua o grandezza e corpo. Qualunque di questi esso sia, non è uno. Se è quantità discreta si separerà, se è quantità continua sarà diviso; analogamente, se lo pensiamo come grandezza non sarà indivisibile. Se, poi, dovesse risultare corpo, sarà tridimensionale: infatti, avrà larghezza, lunghezza e profondità. È assurdo dire che l’essere non è nessuna di queste cose, quindi l’essere non è uno. Inoltre, non è neppure molti. Infatti, i molti non sono altro che un insieme di uno. A pag. 1619. Che, poi, non esistano nemmeno entrambi insieme, l’essere e il non-essere, è facile argomentarlo. Se, infatti, il non-essere è e l’essere è, il non-essere darà identico all’essere, quanto all’essere; di conseguenza, nessuno dei due è. Infatti, si è prima convenuto che il non-essere non è; si è poi dimostrato che a questo è identico l’essere, che quindi, a sua volta, non sarà. Non solo, ma se l’essere è identico al non-essere, non è possibile nemmeno che esistano entrambi i termini. Se, infatti, esistono entrambi, non c’è identità; se c’è identità, non esistono i due termini. Da questi argomenti segue che nulla è. In effetti, se non esiste né l’essere né il non-essere né entrambi insieme – e non si può pensare un’altra possibilità oltre a queste – nulla è. Questo gioco, che sta facendo Gorgia, attribuisce di volta in volta sia all’essere sia al non-essere, sia all’esistenza sia al nulla, un significato che fa comodo a lui. È in questo che consiste il gioco, però, ci sta mostrando che è così che funziona qualunque discorso, cioè, io utilizzo ciascun discorso con dei termini ai quali do un significato, un senso, che è quello che voglio io, quello che mi serve per affermare una certa cosa; perché quella certa cosa non ce l’ha il significato, non l’ha mai avuto e non l’avrà mai. Ma io glielo do e gli do quello che serve a me in quel momento particolare. È questo che ci sta dicendo, dicendo che nulla è: “nulla è” nel senso che nulla è determinato. Posso cercare di determinarlo, anzi, continuo incessantemente a determinarlo; il problema, come sappiamo, è che lo determino attraverso l’indeterminabile e, quindi, non si determinerà mai: rimarrà sempre indeterminato, cioè, il significato non si chiuderà mai. Per dirla un po’ semioticamente, il segno non sarà mai compiuto in sé; ecco perché deve rinviare a un altro segno, come diceva Peirce: ciascun segno è segno per un altro segno, sempre, necessariamente, non esiste il segno compiuto in sé, perché non sarebbe un segno. Poi, dice …se qualcosa è, questo non è conoscibile né pensabile da un essere umano. Anche qui, non è che Gorgia non si sia accorto, anzi, sicuramente si è accorto che si stava autocontraddicendo: dice che non è pensabile, ma ne parla, quindi, lo sta pensando. Ma che cosa vuole dirci con questo? Vuole continuare a giocare e a dirci che è possibile costruire un’argomentazione che fa il verso della chiacchiera. È come se, in questo gioco che fa, volesse farsi beffe della logica, utilizzandola, ma mostrandone il limite, la corda: la logica funziona se ciascuno dei termini è quello che io dico che sia, sennò non funziona più niente. Ma perché ci sta dicendo questo? Dice “nulla è” nel senso che nulla è determinato, ciascuna cosa è sempre nella determinazione, che non arriverà mai. E mettendolo in pratica, ci sta mostrando come funziona, e cioè che ciascun termine che si utilizza è quello che serve per giungere a quella conclusione che vuole lui.

Intervento: …

Sì. È sempre un credere di sapere, un δοξάξειν, perché credo di averlo determinato, ma non l’ho fatto per niente. Come dicevo prima, sta facendo il verso alla logica, e la logica funziona se tutte le cose stanno al loro posto, come devono e come voglio io, sennò non funziona più nulla. Sono io che decido che cosa vuole dire “essere”. Basterebbe porre l’essere come lo pone Eraclito e tutto il suo discorso crolla, indubbiamente, e cioè l’essere come relazione, come simultaneità di positivo e negativo, e a questo punto tutto il discorso di Gorgia non starebbe in piedi. Ma non è questo ciò che a lui interessa, lui vuole mostrare come il discorso giochi continuamente costruendo concetti, definizioni, determinazioni finte, in quanto non determinano niente, e, quindi, è possibile per lui dire che nulla è conoscibile, contraddicendosi nello stesso momento in cui lo dice. Come faccio a sapere che non è conoscibile, se non c’è una conoscenza che me lo dice? Ma, come dicevo prima, dubito che Gorgia, che era un pensatore fine, non si sia accorto di una cosa del genere, che è una banalità. Quindi, che cosa ci invita a pensare Gorgia? Ci invita a pensare a ciò che facciamo quando parliamo: mettiamo in atto la volontà di potenza, perché la volontà di potenza è il significato delle cose che stiamo dicendo, e che non hanno nessun altro significato. Nulla è, cioè, non c’è nessun altro significato oltre alla volontà di potenza: non è questo che dice Gorgia, però, glielo facciamo dire a forza. Anche l’Encomio a Elena ha a stessa forma. Lui dice che Elena era innocente, è questo che vuole dimostrare. Elena era sempre passata per una prostituta, ma lui vuole riscattarla. Lei era stata rapita da Paride, che era troiano, portata via ai Greci, a Menelao, suo marito, e condotta a Troia. Menelao se ne ha a male e convince i Greci a scatenare l’ira di Dio, la cosiddetta guerra di Troia, uno dei conflitti più lunghi e cruenti della storia. Allora, Gorgia vuole riscattare la memoria di Elena, che era stata accusata di avere abbandonato il talamo per fuggire con il bel Paride. Gorgia dice che questa cosa o è stata voluta dagli dei, e allora di fronte alla volontà degli dei non possiamo fare nulla, oppure è stata rapita con violenza, e allora anche in questo caso non è colpevole. A pag. 1633. Se, invece, fu la parola che la persuase e che ingannò il suo animo, nemmeno rispetto a questo è difficile difenderla e liberarla dall’accusa, nel modo seguente. La parola è un potente signore, che, con corpo piccolissimo e del tutto invisibile, compie opere assolutamente divine: ha, infatti, il potere di fare cessare il timore e di sopprimere il dolore e di suscitare letizia e di accrescere la compassione. Che le cose stiano così, lo mostrerò. Bisogna anche dimostrarlo all’opinione degli uditori: la poesia tutta quanta la ritengo e definisco “discorso in forma metrica”. Negi uditori si infonde un brivido di paura, una compassione che fa versare lacrime, una forte tendenza alla commozione, e l’anima subisce, a causa delle parole, una propria passione per fatti altrui e per i casi buoni e cattivi di estranei. Qui ci introduce alla semiotica delle passioni di Greimas, che leggeremo. Quindi, se è stata costretta dalle parole, anche in questo caso non è colpa sua, perché si sa quanto le parole siano potenti, quasi impossibili da arrestare, da contrastare, così come fa la poesia, la tragedia, ovunque. Le parole costruiscono scenari inverosimili, possono infondere la paura, possono toglierla, ecc. A pag. 1637. …se Elena fu persuasa con la parola, non fu colpevole, ma sventurata, è stato detto. Ora mi accingo a spiegare, con una quarta argomentazione, la quarta causa. Se, infatti, fu l’amore responsabile di tutto, non sarà difficile per lei sfuggire all’accusa della colpa che le è stata imputata. C’è un punto, che ora non riesco a trovare, dove dice che la parola è sempre traditrice, perché la parola non è ciò che dice. Volevo dirlo con le sue parole. Infatti, le cose che vediamo non hanno una natura quale noi vogliamo, ma quale ciascuna si trova a possedere attraverso la vista, l’anima ne riceve l’impronta, anche nei suoi atteggiamenti. Infatti, se la vista percepisce nemici che si armano contro nemici con nemica armatura di bronzo o di ferro, l’una strumento di offesa, l’altra di difesa, subito si agita e agita l’anima, e pertanto spesso si fugge spaventati, come se ci fosse un pericolo incombente. /…/ Alcuni, poi, vedendo cose spaventose, perdono il senno che pure hanno in quel momento: a tal punto il timore spegne e soffoca l’intelligenza. Molti cadono in inutili affanni, e in malattie terribili… Dunque, è questo che fa Gorgia. In effetti, tutta la difesa che costruisce per Elena diventa indirettamente un’accusa contro Paride, perché è stato lui. Il problema è che tutte queste cose che dice di Elena possono anche essere dette di Paride; anche Paride, tutto sommato, ha agito per amore, per la bellezza e, quindi, non è colpa sua: così come discolpa Elena, allo stesso modo può discolpare Paride, anziché incolparlo. Qui sarebbe più vicino a Protagora, con i suoi Discorsi duplici, ma Gorgia questo non lo fa. Protagora lo avrebbe potuto fare, probabilmente, non lo sapremo mai: prima dimostro che Elena è innocente e, quindi, è colpevole Paride; poi, dimostro che Paride è innocente e Elena colpevole. Ma Gorgia questo non lo fa, si limita a mostrare come gira il discorso, come ciascuno si crea delle giustificazioni, si crea dei modi per pensare che ciò che sta facendo è bene, semplicemente interpretando, piegando le parole come vuole lui, perché le parole, come sappiamo, non significano niente e, quindi, si possono usare come si vuole. L’unico significato di queste parole è la volontà di potenza, è questa che dà il significato alle cose, quello è il loro significato, il resto è un supporto. Il significato che trovate nel dizionario è un supporto, che consente l’utilizzo di termini, ma l’utilizzo delle proposizioni è un’altra cosa: il significato delle proposizioni è determinato dalla volontà di potenza, cioè, dalla volontà che le cose siano come dico io, come voglio io. Ma per fare questo devo pensare che gli enti che voglio dominare siano enti di natura. Se cesso di pensare questo, allora non posso più combattere contro il nemico, perché il nemico si dissolve all’istante, e resto io con il mio discorso, con le mie fantasie. Non c’è più il non-Io come antagonista di fronte a me, da abbattere, perché il non-Io sono io. Un’ultima cosa sulla tecnica retorica. A pag. 1597. Gorgia per primo conferì al genere retorico della cultura una potenza espressiva e una tecnica specifica, e si avvalse di tropi, metafore, allegorie, ipallagi (scambio di riferimento dei termini), catacresi (uso di immagini per indicare qualcosa che non ha nome specifico), iperbati (trasposizione dell’ordine di parole in una frase), anadiplosi (ripetizioni di parole), epanalessi (ripresa di espressioni e parole), apostrofi e parisosi (simmetria di parole in un periodo). Da ciascun allievo si faceva pagare cento mine, visse centonove anni e scrisse molte opere.