24 agosto 2024
Plotino Enneadi
Abbiamo lasciato Plotino la volta scorsa, come vi ricorderete, indaffarato a ridurre i molti all’uno. E, allora, fra le varie obiezioni che lui si pone da sé, ce n’è una che prevede il fatto che il pensiero sia anteriore o posteriore all’Uno. Siamo a pag. 891. Ma se ci si obietterà che nulla impedisce di identificare l’Uno coi “molti”, risponderemo che deve esserci un’unità a loro fondamento poiché non possono esistere i molti se non c’è un uno, dal quale derivano e nel quale esistono: un uno che venga calcolato, ad ogni costo, prima degli altri e debba essere colto solo in sé e per sé stesso. Se invece venisse calcolato insieme con gli altri solo perché lo si è considerato insieme con gli altri, mentre è diverso dagli altri, dobbiamo lasciarlo andare con gli altri e cercare quell’Uno che sta a fondamento delle altre cose e non è insieme con esse, ma è in sé e per sé. L’altro “uno”, che è con gli altri numeri, è simile sì al nostro Uno, ma non può essere questo Uno. È necessario che Egli sia separato se deve essere distinto dagli altri esseri; a meno che non si dica che Egli consista soltanto nell’essere insieme con gli altri esseri; ma allora non sarà semplice, e nemmeno potrà esserci il “composto di molti”: infatti ciò che non può essere semplice non ha alcuna esistenza e, qualora il semplice non esista, non esisterà neppure il “composto di molti”. Ecco: se ciascun elemento non può essere semplice, se un’unità qualsiasi semplice di per sé, non può far da fondamento al “composto di molti”, se nessun elemento può sussistere di per sé e nemmeno stare insieme con un altro proprio perché non esiste, come potrebbe esistere il “composto di molti”? Come potrebbe derivare da non-esseri che non siano qualcosa di determinato, ma che non esistono in alcun modo? Per conseguenza, se c’è qualcosa di molteplice, deve esserci un’unità prima di questa molteplicità. Ora, se il molteplice appartiene al pensante, è necessario che il pensiero non sia nella non-molteplicità: ma questa non è se non il Primo. Perciò, solo in essere posteriori al Primo può esistere il pensiero e l’Intelligenza. E poi, se il Bene deve essere semplice e senza bisogni, non può certamente aver bisogno di pensare; e ciò di cui non ha bisogno, in Lui non può esserci, anzi in Lui non può esserci nulla, in senso assoluto: perciò in Lui non può esserci il pensare. E se non c’è nulla, nemmeno c’è il “diverso”. E non pensa nulla perché non c’è nulla da pensare. A pag. 895. Inoltre, il molteplice ricerca se stesso e desidera ripiegarsi su se stesso e avere coscienza di se stesso. C’è questa idea del molteplice che desideri andare verso l’Uno. Non è che ci va così, lo desidera proprio. Ma chi è assolutamente Uno dove dovrà rivolgersi per raggiungersi? Perché avrebbe bisogno di avere coscienza di sé? Ma ciò che è superiore alla coscienza è superiore anche al pensiero. Il pensiero infatti non è primario né per l’essere né per il valore, ma è secondario e derivato: non appena il Bene lo generò e, generatolo, lo mosse verso di sé, esso accolse l’impulso e vide. Il Bene lo generò, lo mosse verso di sé. Ma perché il Bene l’ha generato? Perché dice: il desiderio genera il pensiero e lo fa esistere presso di sé; il desiderio di vedere è già visione. Tutti questi desideri non li pone mani nell’Uno, ma sempre o nell’intelletto o nell’anima. Tutti questi desideri sono quelle vie che trova, che si inventa, per giustificare la presenza dei molti, che non può eliminare. A pag. 897. Non è dunque assurdo che Egli non conosca se stesso, poiché, in quanto è Uno, non ha nulla in sé che possa imparare; ma non è nemmeno necessario che gli altri esseri lo conoscano. Egli dona loro qualcosa di meglio e di più grande che se lo conoscessero – Egli è il Bene degli altri esseri –, ma concede qualcosa di più: di toccarlo, cioè, nel suo intimo, secondo il loro potere, con l’intuizione. A pag. 905. Ogni creatore deve essere assolutamente superiore, in sé e per sé, alla sua creatura, perché non è la non-musica che fa il musicista, ma la Musica; e la musica sensibile è prodotta dalla Musica che le è anteriore. Sarebbe l’idea della musica. Se qualcuno disprezzerà le arti perché le loro creazioni sono imitazioni della natura… Qui se la prende un po’ con Platone. …diremo anzitutto che anche la natura imita un’altra cosa. Sta dicendo che anche la natura, cioè l’idea di Platone, anche quella imita l’Uno. Per Platone non c’è l’Uno, c’è l’idea. Da qui poi Plotino ha preso tutto quanto, però Plotino ci tiene a precisare che la sua idea di Uno è superiore anche all’idea di Platone. E poi bisogna sapere che le arti non imitano semplicemente le cose che si vedono, ma si elevano alle forme ideali, dalle quali deriva la natura. E si dica inoltre che esse producono molte cose di per se stesse, in quanto aggiungono alla natura qualcosa che ad essa manchi, poiché possiedono in se stesse la bellezza. Così Fidia creò il suo Zeus senza guardare a un modello sensibile, ma lo colse quale sarebbe apparso, qualora Zeus stesso consentisse ad apparire i nostri occhi. Praticamente, l’ha visto internamente. A pag. 915. A me sembra che anche i saggi di Egitto abbiano compreso tutto questo o per scienza esatta o per intuizione innata: essi, quando volevano rivelare la loro sapienza, non si servivano dei segni delle lettere, che designano parole e proposizioni, ma non corrispondono alla pronuncia e al significato delle cose dette, ma disegnavano figure (geroglifici), ciascuna delle quali significava una singola cosa, e ne decoravano i templi per mostrare che il procedimento discorsivo non appartiene al mondo di lassù, in quanto ciascun individuo è anche una scienza e ciascuna figura è sapienza, soggetto e sintesi, e non un pensiero discorsivo, né un progetto. Sta dicendo una cosa, più o meno fra le righe ma neanche tanto, che la sua idea è che lassù ciò che si dice non abbia più nulla a che fare con ciò che il dire dice, ma il ciò che il dire dice e il dire siano la stessa cosa, che lui mette insieme nel geroglifico. Dice che il geroglifico non ha bisogno di argomentazione, non ha bisogno di proposizioni, perché dice immediatamente quello che deve comunicare; cioè, il dire e ciò che il dire dice collimano, naturalmente lassù, non quaggiù. Quindi, lassù, ma questo lo aveva già detto in altre occasioni, non c’è bisogno di argomentazioni, perché tutto è chiaro, tutto è limpido, tutto è immediatamente evidente. Poi, qui si inventa quella cosa che poi è diventata nel cristianesimo la creazione. Per il cristianesimo si tratta di creatio ex nihilo, perché non c’era nulla prima della creazione, perché sarebbe come pensare che ci fosse qualche cosa prima di Dio, che per il cristiano non è pensabile. A pag. 917. …in questo universo… Qui prosegue una frase che evidentemente è mancante. …e poiché noi ammettiamo che esso derivi, nel suo essere e nella sua costituzione, da un altro essere, dobbiamo forse credere che il suo Creatore abbia dapprima immaginato da sé la terra e la necessità di collocarla al centro, e poi l’acqua così che sovrasti la terra… /…/ No, questa immaginazione non è possibile, poiché donde sarebbe venuta ad uno che non aveva mai visto nulla? E quand’anche l’avesse tratta da altro, non avrebbe potuto realizzarla, come fanno gli artigiani che si servono le mani e di strumenti, perché mani e piedi vennero dopo. Perciò non ci resta che porre in altro la totalità degli esseri; ma senza bisogno di alcun intermediario, per la sola vicinanza tra l’essere è un’altra cosa, l’Anima, improvvisamente brillò una forma, un’immagine di Lui, sia direttamente, sia per mezzo dell’Anima ciò non ha importanza per il momento di un’anima qualsiasi. Di lassù dunque proviene questa totalità, anzi lassù essa è ancora più bella.... Perché la totalità sia bella non si è mai saputo, ma non importa. …poiché le cose di quaggiù, non quelle superiori, derivano da mescolanza. Tutto qui è tenuto insieme dalle forme, dal principio alla fine; anzitutto, la materia dalla forma degli elementi; poi, sulle forme altre se ne sovrappongono ad altre ancora di nuovo, sicché è difficile trovare la materia nascosta sotto tante forme. /…/ Il Creatore produsse questo universo in silenzio, … Mentre per i cristiani, per esempio in Agostino, ma anche fino a Cusano, è la parola di Dio che fa essere le cose, quindi c’è la parola; qui no, è in silenzio. …poiché egli è tutto, essenza e forma; anche per questo, la creazione si compie senza fatica ed è creazione del Tutto proprio perché nascesse l’universo. Non ci fu ostacolo allora; ma anche ora la creazione è dominatrice, anche se le cose sono di ostacolo le une alle altre ma non alla creazione, nemmeno ora, poiché essa, come totalità, sussiste. Questa creazione è come un processo inarrestabile che muove dall’Uno, che trabocca. Ma non si può fermare, è sempre in atto, ed è proprio questo fatto, che non si può fermare e che non si ferma, che è ciò che consente alle cose di continuare a esistere. Ma torniamo al punto che ci siamo proposti. Tu puoi apportare delle ragioni per le quali la terra è al centro, perché è sferica, perché l’eclittica è così disposta; ma lassù non è stato deliberato di farle così perché doveva essere così, ma perché Il mondo di lassù è così com’è, anche il mondo di quaggiù è bello: è come se nel sillogismo causale la conseguenza precede le premesse invece di venir dopo. La creazione non procede né da un ragionamento né da un progetto, ma è prima di qualsiasi ragionamento e di qualsiasi progetto, poiché tutte queste cose, ragionamento, dimostrazione, prova, sono posteriori. Dal momento che c’è un principio, tutto ciò che ne deriva senz’altro, immediatamente; ed è ben detto che non bisogna inventare alcuna causa di tale principio, che è tale nella sua perfezione da fare tutt’uno col fine: esso è insieme principio e fine, è tutt’insieme con se stesso, e non ha bisogno di nulla. Cioè, sarebbe il compimento di potenza e atto, dove potenza e atto si mantengono separati, naturalmente, però alludono o pongono un compimento di qualche cosa, che da quel momento è compiuto. A Plotino, però, preme di dire che la creazione non procede da un ragionamento, non è che Dio ci ha pensato per creare, è avvenuto così, e il mondo è così come lo vediamo perché così deve essere, perché è così nell’Uno.
Intervento: Come se fosse lui stesso la creazione.
Ed è così. Non c’è bisogno di cercare, come nella fisica, il perché le cose sono in un certo modo: sono così perché devono essere così, perché è giusto che sia così, perché Dio lo vuole. Siamo ora all’enneade sesta. È importante perché incomincia a discutere della questione, posta da Aristotele, anche se non lo cita, delle categorie. Categorie che chiama genere, ma il genere è una categoria. Il suo intento è naturalmente quello che si era già visto in precedenza, quando ha accennato alla questione delle categorie, e cioè mostrare che il genere è uno e che non ce ne sono molti o, meglio, ce ne sono molti ma questi molti sono riconducibili al genere uno. A pag. 961. Chiediamoci ancora una volta: gli esseri intelligibili sono generi? Tra l’altro, da qui poi è partita nel Medioevo tutta la disputa sugli universali: gli universali sono enti di natura o enti di ragione? Disputa che ha visto combattere tra loro Guglielmo di Champeaux (realismo) fino ad arrivare ad Ockham; nel mezzo c’era anche Tommaso, Abelardo e tanti altri. Che nella sostanza intelligibile e in quella sensibile sia impossibile un genere unico, l’abbiamo già detto. Si accorge che non è possibile, sia nel pensiero, l’intelligibile, che nel sensibile, un genere unico: si vede che sono tanti. E inoltre, dovrebbe esserci un altro termine anteriore all’essenza intelligibile come a quella sensibile, un’essenza completamente diversa, che si possa predicare di ambedue, e che non dovrebbe essere né corpo né incorporea, perché, altrimenti, il corpo sarebbe incorporeo e l’incorporeo sarebbe corpo. Qui c’è anche un richiamo a una delle sue più grandi preoccupazioni, e cioè la contraddizione, i paradossi. La contraddizione non deve, né può essere, assolutamente presente nell’Uno, in Dio, cioè, Dio non può autocontraddirsi. Per questo l’Uno, o Dio, deve essere identico a sé, perché non contiene contraddizioni. Se contiene contraddizione, vuol dire che è molti, che non è Uno e che, quindi, non è Dio. Da qui la necessità, che vedremo più avanti nei teologi medievali, di ribadire questo concetto, cioè che l’Uno è al di fuori di ogni possibile contraddizione. Le contraddizioni ci sono dopo; per esempio, per Plotino sono nell’intelligenza, nell’anima, certo, ce ne sono quante se ne vuole di contraddizioni, ma nell’Uno no, porre l’Uno come autocontraddittorio significa distruggere l’Uno totalmente. Vi rendete conto che tutto il lavoro che sta facendo Plotino verte soprattutto sulla necessità di separare l’uno dai molti. Ma potremmo anche dire che tutto il pensiero, da Plotino a oggi, non sia stato altro che un’enorme, colossale, faraonico tentativo di rimediare a quelle tre parole famose di Eraclito: ἒν πάντα εἰναι. il primo che ha tentato di rimediare in modo corposo è stato Diels, traducendo questa frase con “L’uno è il tutto”. Fortunatamente, Heidegger ha notato questa cosa, dicendo che πάντα non è singolare ma è plurale, per cui, dunque: l’uno è tutte le cose. Ecco, qui ce l’ha con la relazione. Adesso sta facendo un po’ la lista delle categorie di Aristotele, per dimostrare come ciascuna di queste categorie sia riconducibile all’Uno. E infatti dice, parlando della relazione, a pag. 969. Quanto al “destro” e al “sinistro”, all’“avanti” all’“indietro”, sono rapporti che appartengono piuttosto alla categoria del “giacere”: una cosa giace qui, un’altra là; siamo noi che abbiamo pensato il destro e il sinistro, ma nelle cose non c’è nulla. Anche “anteriore” e “posteriore” sono due aspetti del tempo, ma siamo noi che col pensiero creiamo il prima e il dopo. Qui sta succedendo una cosa interessante. Plotino, si accorge, rimediando poi subito dopo, che le cose – naturalmente riprendendo Aristotele – sono in ciò che si sta dicendo. Dice: siamo noi che stabiliamo che c’è una relazione tra questo e quest’altro, ma questa relazione tra cose non c’è in natura. Quindi, siamo noi a porre le relazioni, ma fra le cose, che naturalmente lui dà per acquisito che esistano, non c’è questa relazione. La relazione c’è soltanto tra le cose che noi diciamo, cioè nelle categorie, sì, di cui parla Aristotele, certo, lì c’è ovviamente la relazione, ma è come se Plotino dicesse, anche se non lo dice esplicitamente, che Aristotele non tiene conto che la relazione non è soltanto tra le parole, ma la relazione è anche tra le cose, e le cose non mentono perché procedono direttamente dall’Uno, che è la verità assoluta. Ma se queste relazioni esistono anche se noi non le pensiamo e non le diciamo, sicché una cosa è il doppio di un’altra cosa, e questa possiede e quella è posseduta ancor prima che noi lo sappiamo; se le cose, ancor prima che noi le pensiamo, sono uguali l’una all’altra e anche nell’ambito della qualità, sono identiche fra loro; se in tutti i casi in cui parliamo di relazione, il rapporto reciproco vien dopo l’esistenza degli oggetti e noi la constatiamo soltanto allora e la nostra conoscenza è relativa all’oggetto conosciuto – e proprio allora diventa ancor più evidente la realtà che nasce dal rapporto -cessiamo, dunque dal cercare se tale rapporto esista. Osserviamo soltanto che in questi casi fino a quando gli oggetti rimangono come sono… Cioè, fino a quando Dio lo vuole. …anche se siano separati, il loro rapporto esiste; n altri casi il rapporto nasce quando gli oggetti si incontrano; altre volte invece, anche se essi rimangono tali, il loro rapporto cessa completamente o cambia… Questa relazione c’è anche se noi non la pensiamo, perché questa relazione, di cui lui parla, esiste prima del pensiero. Il pensiero la formalizza, quindi è nel pensiero che possono esserci paradossi, contraddizioni, ecc., ma non nell’Uno. Prendete il paradosso del sorite, il paradosso del mucchio: quand’è che un granellino dopo l’altro fa un mucchio? È una scemenza, naturalmente, perché siamo noi che chiamiamo quella cosa lì mucchio: io posso anche decidere che il granellino è un mucchio, nessuno me lo proibisce. Quindi, è un falso problema, in realtà, che non esiste, perché sono io che ho deciso a un certo punto che cos’è un mucchio. Questi paradossi, in effetti, sono paradossi generati dalle parole: parole che possono significare qualunque cosa, come, appunto, la parola mucchio. Quando una cosa è un mucchio? Come lo decidiamo? In base a che? In base al ghiribizzo del momento, e quindi immediatamente si crea quel finto paradosso. Poi parla ancora del relativo, perché il relativo è importante. A pag. 973. Così è del grande e del piccolo: quello è grande per la presenza della grandezza, questo è piccolo per la presenza della piccolezza. Ma se una cosa è più grande e un’altra è più piccola, la più grande è tale perché la grandezza si manifesta attualmente in essa, e la più piccola è tale perché in essa si manifesta la piccolezza. Cioè, questa cosa è grande perché c’è l’idea di grandezza. Riprende Platone, non dice nulla di che. Però, questo per dire che anche la relazione, sì, certo, è generalmente tra parole, però è anche tra le cose, perché la grandezza rimane grandezza, anche se messa in relazione con la piccolezza. C’è comunque l’idea di grandezza che mi permette di parlare, di creare una relazione: questo è più grande, questo è più piccolo. A pag. 1005. In generale, però, è veramente assurdo… Qui ce l’ha con gli stoici. …porre al primo posto ciò che è in potenza e non mettere l’atto prima della potenza. Poiché non è possibile che il potenziale passi all’atto, se il potenziale occupa il primo posto nell’ordine degli esseri: esso, infatti, non vi passerà da sé; ma o prima di esso ci sarà necessariamente l’attuale, e allora il potenziale non è più principio; oppure, se essi (gli stoici) diranno che sono simultanei, verranno a porre i principi in balia del caso. Sappiamo bene che fine fece Democrito. L’eventualità che ciò che accade sia in balia del caso, questo per Plotino è una cosa che lo manda fuori di matto. E inoltre, se li dicono simultanei, perché non mettono al primo posto ciò che è in atto? E perché è il potenziale al primo posto e non l’attuale? Ciò che lo spaventa è l’eventualità che non ci sia un ordine; ordine che nessuno sa che cosa sia, né perché ci sia, ma che c’è. E come sappiamo che c’è? Perché si sente; ciascuno sente che c’è un Bene e se, c’è un Bene, c’è un ordine, perché il Bene è la verità e, se c’è una verità, è la verità che ordina le cose in base a se stessa: vero/falso, buono/cattivo. A pag. 1009. Il relativo, infatti, è tale in rapporto a un altro che sia dello stesso genere, come lo è il doppio rispetto alla metà, non come l’essenza rispetto al doppio. Ma ente come può essere relativo a non-ente se non per accidente? Qui fate bene attenzione a quello che dice, perché l’ente può essere relativo al non-ente solo per accidente, cioè, può capitare, ma è un malanno, un malanno gestibile, controllabile, ma che non dovrebbe accadere. Poiché, se ciò che deve giungere all’essere è potenza, cioè non-essenza… Perché la potenza non è ancora essere qualcosa, lo sarà quando sarà atto. …allora nemmeno la materia è essenza; avviene così che essi (gli stoici) mentre accusano gli altri di fare essenze delle non essenze, fanno poi essi stessi non-essenze delle essenze: poiché il mondo, in quanto mondo, per loro non è essenza. Quindi gli opposti, l’uno e i molti, devono essere regolati, separati, perché sennò, l’ha detto prima, è il caos, e il caos non va bene. A pag. 1017. Poiché l’indagine verte sull’essere o sugli esseri… È l’indagine sui generi, quindi sull’universale. …bisogna anzitutto fare, da noi stessi, le seguenti distinzioni: come noi intendiamo l’“essere”, sul quale giustamente facciamo ora la ricerca, e cosa pensino gli altri dell’essere, che noi invece chiamiamo “divenire”, in quanto esso non è affatto essere in nessun modo. Sta già mettendo le mani avanti: ciò che gli altri chiamano essere per noi è divenire, perché è un qualche cosa che si modifica, perché contiene i molti, mentre l’essere non ha i molti, li ha espunti, li ha eliminati. È necessario pensare queste cose separate l’una dall’altra e non come se un genere, il “qualcosa” si divida in essi, e non credere che Platone abbia fatto così. È ridicolo porre in uno stesso genere l’essere e il non-essere, come se si ponesse nello stesso genere Socrate e il suo ritratto. Non c’entra niente; comunque, per lui è ridicolo porre sotto lo stesso genere l’essere e non-essere, cioè, il dire e ciò che il dire dice, il λέγειν e il τί. Qui “dividere” vuol dire delimitare e mettere a parte; vuol dire affermare che ciò che appare come essere non è essere, dimostrando a loro che il vero essere è tutt’altro. Perciò Platone, aggiungendo “sempre” all’“essere”, fa capire che l’essere deve essere tale da non mentire mai nella sua natura. E come fa a non mentire mai? Deve essere la verità, quindi deve essere uno: l’essere deve essere l’Uno, sennò è divenire, cioè, è essere ma mischiato con i molti. Anche se poi dice che l’essere non è Uno, ma non è Uno nel senso che l’Uno è comunque al di sopra dell’essere. A pag. 1019. Ma ora, poiché abbiamo ammesso che alcuni generi sono anche principi dell’essere e che, per un altro aspetto, i principi sono diversi dai composti, è anzitutto necessario chiarire in rapporto a che cosa noi li chiamiamo generi e in che modo li distinguiamo gli uni dagli altri e non li riduciamo a un genere unico; è come se concorressero per caso a formare un’unità; eppure, sarebbe molto più ragionevole ridurli senz’altro ad unità. Se si è ragionevoli si riducono i molti a unità. Questa è, potremmo dire, la sintesi di tutto il pensiero plotiniano: se si è ragionevoli si riducono i molti a unità, si fa di molti uno, e bell’è fatto. Certo, se fosse possibile che fossero, tutti, specie dell’essere e avessero subordinatamente gli individui e che non ci fosse altro al di fuori delle specie, forse questa riduzione si potrebbe fare, ma una tale tesi porterebbe alla distruzione delle specie stesse; le specie, così, non sarebbero più specie, né quella sarebbe una molteplicità subordinata all’Uno, ma sarebbe un Tutto-uno e al di fuori di questo Uno non potrebbe esserci un’altra o altre cose… Sta dicendo delle specie che non possiamo farne una, perché sono tante, per cui bisogna che ci sia il genere, che tutte queste specie, cioè che i molti, i particolari diventino un universale, che gli astratti diventino il concreto, che l’infinito diventi il finito. E, infatti, si chiede: …in che modo l’Uno si moltiplicherebbe per generare le specie, se non ci fosse, oltre il suo essere, qualcosa d’altro? Esso (l’Uno) non è molteplicità, a meno che uno non lo spezzi come se fosse una grandezza, ma anche in questo caso sarebbe diverso colui che lo fa a pezzi. Ma se può farsi a pezzi o comunque dividersi da sé stesso, vuol dire che è già diviso ancor prima che lo si divida… Cioè, è divisibile, mentre l’Uno non è divisibile. …per questa ragione e per molte altre, bisogna rinunciare ad ammettere un genere unico: altrimenti non sarebbe possibile dare il nome di ente o di assenza a una cosa qualsiasi. Qualora la si chiami essere, la si dirà così solo in senso accidentale, come se di una cosa bianca si dicesse che “è l’essere”: non si direbbe certamente ciò che è il bianco. Noi affermiamo dunque che i generi sono molti e che sono molti non per caso: perciò derivano dall’Uno! Certamente dall’Uno: però, se l’unità non è predicabile di essi, nel loro essere, nulla impedisce che ciascuno, non essendo uguale all’altro nella specie, sia un genere a sé. Cioè, quest’Uno, che è esteriore ai generi che ne derivano, è dunque la causa ma non il predicato degli altri generi nella loro essenza? Sì, Egli è fuori: l’Uno è al di là e perciò non può essere messo nel numero dei generi, poiché i generi che, in quanto generi, sono uguali fra loro, esistono per Lui. E perché mai lui l’Uno non andrebbe messo nel loro numero? È perché noi indaghiamo sugli esseri, non su ciò che è al di là. Possiamo solo indagare sugli esseri; possiamo indagare sull’Uno? No, perché l’Uno non si offre a noi come qualcosa, l’Uno è sempre al di là. Qualunque cosa pensiate, lui è al di là. Che è poi ciò che utilizza Anselmo per la sua prova dell’esistenza di Dio: pensare qualche cosa che è superiore a qualunque altra cosa; qualunque cosa pensi, devo immaginare che ce n’è una superiore. È da lì che poi deriva la sua prova dell’esistenza di Dio perché, se questa cosa che penso è il tutto in assoluto ed è superiore a qualunque altra cosa, non può non contenere la realtà, ovviamente, e se contiene la realtà allora vuol dire che Dio esiste nella realtà effettiva. Ma si potrebbe forse anche dire che l’Uno non sia causa delle altre cose, le quali, invece, sarebbero sue parti, o, per così dire, suoi elementi e formerebbero nel loro insieme un’unica natura, spezzata soltanto dai nostri pensieri, mentre per la sua meravigliosa potenza, esso è “Uno-in-Tutto uno, che si manifesta come molteplicità e diventa molteplicità quando – diciamo così – si metta in movimento; è l’espansione della sua natura, la quale fa sì che l’Uno non sia più uno, e noi, da parte nostra, tiriamo fuori, per così dire, delle parti di Lui e di ciascuna di esse, facciamo un’unità e le diamo il nome di genere; e poiché non sappiamo di non averlo visto tutto insieme, lo presentiamo un pezzo dopo l’altro e poi lo ricomponiamo… Come dire: noi pensiamo il genere perché non riusciamo a pensare l’Uno; quindi, facciamo l’uno, lo scomponiamo, e allora ecco che sorgono i generi, gli universali. Ma è chiaro che il genere non può essere l’Uno, perché l’Uno è al di sopra del genere. Inoltre, abbiamo detto che i generi rischiano di essere molti. A pag. 1033. Quanto all’“uno”, se si tratta dell’Uno assoluto, al quale non appartiene nulla, né anima né intelligenza né altra cosa, esso né predicato di nulla e perciò non è genere. Ecco perché diceva che non è un genere: il genere è ciò che si predica di molti, ma l’Uno è al di sopra, è al di là, quindi non possiamo predicarne niente e, pertanto, non è un genere. Il genere è un predicato, è, dicevamo prima, una categoria per Aristotele, i famosi praedicamenta dei medievali, cioè, ciò che si dice, ciò che si predica. Le categorie sono i predicati, né più né meno. Siamo a pag. 1039. …ciò che non è uno s’affretta, per quanto può, a diventare uno; le cose naturali che per natura convergono verso un unico centro, desiderano unirsi a se stesse, poiché le singole cose non cercano di allontanarsi l’una dall’altra, ma tendono l’una verso l’altra e ciascuna verso se stessa; … Questo pare non avere bisogno di alcuna dimostrazione, è così e basta. …anche le anime desiderano tutte di andare verso l’Uno secondo la loro propria essenza; per esse l’Uno è da ambo i lati: Egli è, cioè, il loro punto di partenza e la loro meta, poiché dall’Uno hanno la loro origine e tengono all’Uno. E così e anche del Bene. Non esiste nella realtà alcuna cosa – e se pure ci fosse, non persisterebbe – la quale non abbia questa tendenza all’Uno. Tutto ciò che c’è tende all’Uno. Dice e se pure ci fosse, non persisterebbe, tanta è la forza di attrazione dell’Uno che immediatamente si rivolgerebbero comunque ineluttabilmente all’Uno, perché l’Uno è il Bene assoluto, anche se fino adesso non ci ha ancora detto questo Bene assoluto in che cosa consiste esattamente. A pag. 1045. Ancora rispetto alle categorie. L’“agire” e il “patire” consistono in un movimento. Se lassù vi è il patire, vi è anche l’agire, ma l’agire è dualità e, allo stesso modo, anche il patire: perciò nessuno dei due è semplice. Anche l’“aver” implica dualità, e il “giacere” vuol dire che una cosa è in un’altra in una certa maniera, e così sono tre termini. Questo orrore della simultaneità tra due elementi opposti, che non può tollerare in nessun modo.