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28 agosto 2019

 

Fenomenologia dello spirito di G.W.F. Hegel

 

Pag. 174. Questa coscienza infelice scissa entro se stessa è così costituita che, essendo tale contraddizione della sua essenza una coscienza… Cioè, lo sa. …la sua prima coscienza deve sempre avere insieme anche l’altra; e in tal modo, mentre essa ritiene di aver conseguita la vittoria e la quiete dell’unità, deve immediatamente venir cacciata da ciascuna (delle sue due coscienze). Questa è la premessa che fa Hegel. Ricordate il discorso che faceva rispetto allo scetticismo: c’erano questi due poli nei quali l’uno nega sempre quell’altro – se affermo uno allora questo affermare l’uno immediatamente si sposta sulla sua negazione, se ci si ferma sulla sua negazione di nuovo si ritorna ad affermare il primo, e così via. Per Hegel questo è un modo di pensare inconcludente. Ma anche qui ci sono due momenti, però qui il discorso è differente, perché entrambe queste due coscienze non vengono cacciate l’una dall’altra ma tendono a comporsi in una unità. Cosa che poi avverrà nella Ragione, ma questo lo vedremo nel capitolo successivo. È un’unità a cui tendono queste due coscienze, quindi, a essere qualcosa di unitario, di intero, per potersi affermare. È chiaro che se una coscienza è la negazione dell’altra, in questo processo una delle due deve scomparire. Ma il discorso religioso non riesce a fare questo, non riesce cioè a integrare la sua negazione nell’affermazione. Questo lo farà la Ragione. Dice che questa coscienza duplicata essa stessa è l’intuirsi di un’autocoscienza in un’altra;… Questa autocoscienza si intuisce in quanto ce n’è un’altra. …essa stessa è l’una e l’altra autocoscienza, e l’unità di entrambe le è anche l’essenza;… Perché è questo ciò che cerca, ciò che vuole, ciò a cui tende. …ma essa per sé non è ancora questa essenza medesima; essa per sé non è ancora l’unità di tutte e due le autocoscienze. Permangono due in quanto distinte e separate. Punto 43, La coscienza trasmutabile. Essendo essa da prima solo l’unità immediata di entrambe le autocoscienze, ma non essendo entrambe per lei lo stesso, per lei anzi essendo opposte; l’una, quella semplice e intrasmutabile, le è l’essenza; mentre l’altra, quella che si trasmuta per molte guise, le è l’Inessenziale. Ambedue sono per essa essenze reciprocamente estranee; essa stessa, essendo la coscienza di questa contraddizione, si pone dal lato della coscienza trasmutabile ed è a se stessa l’Inessenziale; ma come coscienza dell’intrasmutabilità o dell’essenza semplice deve in pari tempo procedere a liberarsi dall’Inessenziale, vale a dire a liberare sé da se stessa. Hegel introduce questi termini: l’intrasmutabile e il trasmutabile. Si considera l’intrasmutabile come l’universale, il concetto, l’intero, ciò che è necessariamente quello che è; mentre il trasmutabile anziché essere l’universale è il singolare, cioè, l’immanente, l’accadere, che è sempre accidentale. L’intrasmutabile interviene qui, sì, certo, come l’intero, come l’universale, ma lo si intende meglio se lo si pone anche come il divino. Hegel non cita mai dio, il nome dio non compare mai, però, parlando dell’intrasmutabile allude a qualcosa del genere, perché in effetti ciò che è universale, la verità, l’intero nella religione – sta parlando della religione – è dio, ovviamente. Quindi, da una parte pone una coscienza intrasmutabile, cioè quella consapevolezza di qualche cosa di divino, di qualcosa di universale, qualche cosa che è da raggiungere; dall’altra parte, pone una coscienza trasmutabile, che è quella con cui ciascuno ha a che fare, cioè limitata, particolare, singolare, immanente, il qui e ora. Più avanti prosegue. Ma mentre le due coscienze le sono egualmente essenziali e contraddittorie, essa è soltanto il movimento contraddittorio, nel quale il contrario non giunge alla quiete nel proprio contrario, anzi si riproduce in quello nuovamente soltanto come contrario. Cerca di eliminare l’altro come contrario ma, volendo fare questo, si ritrova il contrario di quell’altra, e quindi non riesce a cavarsi d’impiccio. Noi assistiamo così alla lotta contro un nemico,… Il nemico sarebbe questa situazione di opposti, che necessariamente insistono. …contro il quale la vittoria è piuttosto una sottomissione:… Perché per ciascuno dei due vincere sarebbe come sottomettersi all’altro. …aver raggiunto un contrario significa piuttosto smarrirlo nel suo contrario. La coscienza della vita, la coscienza dell’esistere e dell’operare della vita stessa, è soltanto il dolore per questo esistere e per questo operare; quivi infatti come consapevolezza dell’essenza ha soltanto la consapevolezza del suo contrario,… Consapevolezza dell’essenza, cioè di ciò che è veramente, non ha altro che questo: il sapere che è il suo contrario. …ed è quindi conscia della propria nullità. Vedete come comincia a prendere forma la figura della coscienza infelice, cioè della coscienza religiosa, che considera se stessa una nullità a fronte dell’intrasmutabile, del divino. Da questa posizione essa inizia la sua ascesa verso l’intrasmutabile. Ma tale ascesa non è che quella consapevolezza medesima, ed è quindi immediatamente la coscienza del contrario… Tale ascesa, dice, non è altro che la propria consapevolezza di volere ascendere. E, quindi, rivelandosi come consapevolezza, volontà di ascendere, di fatto, si pone nella condizione di non poterlo raggiungere, perché si pone proprio come coscienza, esattamente come ciò che non è intrasmutabile. L’intrasmutabile che entra nella coscienza è quindi parimente toccato dalla singolarità… Cioè: questo intrasmutabile, che entra nella coscienza e di cui la coscienza vuole impadronirsi, è toccato dalla singolarità perché questo intrasmutabile appartiene in qualche modo alla mia coscienza, che è singolare, è mia. Quindi, è come se viziassi l’intrasmutabile del fatto che in qualche modo è mio. …ed è presente soltanto insieme con questa che, lungi dall’essere stata cancellata nella coscienza dell’intrasmutabile, vi ricompare di continuo. Io voglio raggiungere l’intrasmutabile ma, in questo volerlo raggiungere, mi rendo conto che io non lo sono e, quindi, non posso che continuamente prendere atto della limitatezza, per cui più voglio raggiungerlo più mi rendo conto della mia limitatezza. Punto 45, La figura dell’intrasmutabile. Ma in questo movimento la coscienza duplicata fa esperienza appunto di quello scaturire della singolarità nell’intrasmutabile e dell’intrasmutabile nella singolarità. La singolarità ritrova l’intrasmutabile come suo obiettivo, come ciò a cui tende, ma questa consapevolezza dell’intrasmutabilità non può che ritornare alla coscienza che vuole essere ciò che non è, e quindi sempre limitata. Si attua per essa la singolarità in genere nell’essenza intrasmutabile, e si attua in pari tempo la sua in lei. Giacché la verità di siffatto movimento è appunto l’esser-uno di questa coscienza duplicata. Ma da prima questa unità le si attua in modo tale che elemento dominante vi è tuttora la diversità dei due membri. Ciò che la coscienza rileva è la persistenza di questi due elementi: la coscienza dell’intrasmutabile, il divino, e la coscienza di non esserlo, e quindi voler giungere al divino. Ma non riesce a separare le due cose in modo definitivo, perché punta all’unità; non riesce a porle come distinte in modo definitivo, in modo da lasciarle per sempre separate, perché sarebbe la rinuncia all’intrasmutabile, al divino. A pag. 177. Ciò che qui si presenta come modo e relazione dell’intrasmutabile, resultò quale esperienza che l’autocoscienza scissa fa nella sua infelicità. Questo è un tema fondamentale: la scissione dell’autocoscienza. Sappiamo che l’autocoscienza non è altro che la consapevolezza di sé, di essere pensanti, ma questa scissione dell’autocoscienza, che non riesce a trovare la propria unità, che invece troverà con la ragione, questa scissione è ciò che produce la sofferenza. Perché? Infatti, parla a un certo punto anche di nostalgia e, come sappiamo, Hegel non solo conosceva perfettamente il greco ma anche la filosofia greca. Nostalgia viene da νόστος, letteralmente il ritorno, ma per ritornare occorre una distanza, ci vuole un qualche cosa a cui ritornare: se ritorno è perché non sono là, ovviamente. Potremmo tradurla così, forse in modo grammaticalmente meno corretto ma concettualmente più appropriato, come dolore per la distanza, distanza, che, come sappiamo, appartiene al linguaggio. Il dolore per la distanza è ciò che fa sì che la sofferenza, e qui arriviamo a un punto importante, incominci ad avere valore. In effetto, avendo l’intrasmutabile assunto una figura, il momento dell’al di là non solo è rimasto, anzi è addirittura rafforzato; giacché se, da una parte, mediante la forma dell’effettualità singola questo momento sembra sia stato avvicinato alla coscienza singola, esso, d’altra parte, le sta di contro come un impenetrabile… Cioè: si è avvicinato, nel senso che io lo voglio questo intrasmutabile, voglio possedere questo divino; me lo figuro, però, in questo figurarmelo, non solo non riesco ad assumere questo intrasmutabile ma si rafforza sempre di più in quanto elemento irraggiungibile, che deve, come vedremo tra poco, rimanere irraggiungibile. … giacché se, da una parte, mediante la forma dell’effettualità singola questo momento sembra sia stato avvicinato alla coscienza singola, esso, d’altra parte, le sta di contro come un impenetrabile Uno sensibile con tutta la crudezza di una realtà effettuale;… Nonostante questo, questo mi sta di contro come un Uno che sta per conto suo, che non riesco a raggiungere mai. …la speranza di potersi unificare con l’intrasmutabile deve rimanere speranza, deve cioè restare senza compimento e senza presenzialità;… Non deve mai essere presente. Dio devo sempre rappresentarmelo, ma non può né deve apparire. Dovesse apparire sarebbe immediatamente arrestato e giustiziato, come d’altra parte è accaduto. …ché tra speranza e compimento spazia appunto l’accidentalità assoluta o l’indifferenza immobile implicita nella figurazione stessa, cioè nel fondatore elemento della speranza. Per via della natura dell’Uno nell’elemento dell’essere, per via dell’effettualità di cui si è rivestito, accade necessariamente ch’esso sia dileguato nel tempo e nello spazio, e che sia stato lungi e senz’altro lungi rimanga. Questo Uno, che diventa un essere in quanto tale, occorre che rimanga irraggiungibile. Punto 48. Mentre da prima il mero concetto della coscienza scissa si determinava come il processo per cui essa toglievasi come singola per diventare coscienza intrasmutabile… Che cosa fa questa coscienza scissa? Cerca di togliere la coscienza singola per diventare coscienza intrasmutabile. È questo che voleva fare: togliermi di mezzo in quanto animale, in quanto persona, in quanto peccatore, ecc., per arrivare all’intrasmutabile; solo a questo punto ho riunito in un tutto e, quindi, non più questa distanza, perché tutte queste operazioni sono messe in atto per evitare la distanza. Tutto ciò senza rendersi conto che questa distanza stessa, cioè il funzionamento del linguaggio, è ciò che consente di costruire tutte queste cose; però, è avvertita come l’impossibilità della felicità. Infatti, nella tradizione cristiana-cattolica il paradiso è il luogo della verità, dove si contempla la verità, dove ogni cosa ha trovato la sua verità, dove non c’è più il falso, dove cioè il significante e il significato hanno fatto un tutt’uno: non c’è più nessuna distanza tra i due, la cosa è quella che è e non è altro dicendosi. È questa la verità del paradiso. …il suo travaglio, la sua aspirazione hanno ormai questa determinazione: essa toglie piuttosto la sua relazione col puro intrasmutabile non figurato e si procura il rapporto soltanto con l’universale figurato. Ché a tale coscienza essenza e oggetto è ormai l’esser-uno del singolo con l’intrasmutabile, così come, nel concetto, l’oggetto essenziale era soltanto l’intrasmutabile astratto, privo di figurazione; e ciò da cui essa deve distaccarsi, è ora la relazione di questo assoluto esser-scisso del concetto. Prego di porre attenzione a quest’ultima riga che è esplicativa di tutto: ciò da cui essa deve distaccarsi, è ora la relazione di questo assoluto esser-scisso del concetto. La scissione che c’è nel concetto, la distanza che c’è nel concetto: è questo che deve essere eliminato per arrivare al divino, all’intrasmutabile, cioè al concetto universale, al tutto, all’intero, alla verità. A pag. 180. Tuttavia qualche cosa non è per lei (la coscienza): non è per lei che questo suo oggetto, l’intrasmutabile, il quale a lei ha essenzialmente la figura della singolarità, sia lei stessa, lei stessa cioè la singolarità della coscienza. Non è per lei che questo intrasmutabile sia a lei, alla coscienza: non lo può raggiungere, non lo raggiungerà mai. Si presenta così l’interiore movimento del pur animo che sente bensì se stesso, ma si sente dolorosamente come scissione; movimento di una infinita nostalgia… Il dolore per la distanza. … la quale ha la certezza di avere a propria essenza un siffatto puro animo, - puro pensare pensantesi come singolarità, - da venir conosciuta e riconosciuta da quell’oggetto, proprio perché quell’oggetto stesso pensa sé come singolarità. Rileggo perché è importante. Questa coscienza si sente dolorosamente come scissione … una infinita nostalgia … la quale ha la certezza di avere a propria essenza un siffatto puro animo … da venir conosciuta e riconosciuta da quell’oggetto, proprio perché quell’oggetto stesso pensa sé come singolarità. Cioè: la nostalgia riguarda il dolore per la lontananza, riguarda il non venir riconosciuti dall’intrasmutabile, da dio. Ci vuole un suo riconoscimento che dia la certezza. Se al posto di dio ci mettiamo il concetto, cioè il significato, è chiaro che il significante si aspetta dal significato il proprio significato, la propria essenza. A pag. 181. Come, da una parte, adoperandosi a raggiungere sé nell’essenza, essa attinge soltanto la propria separata effettualità, così, d’altra parte, non può attingere l’Altro come qualcosa di singolo e di effettuale. Non può attingere l’Altro, non può prenderselo. È questo il grossissimo problema. Dove questo vien cercato, la non può venir trovato; perché esso deve appunto essere un al di là, un qualcosa siffatto da non poter venir trovato. A questo punto si pone una questione interessante. Che cosa fa la sofferenza? Mi dice che questo intrasmutabile, il divino, non è raggiungibile. Quindi, finché soffro io garantisco l’esistenza dell’intrasmutabile, perché se lo raggiungessi diventerebbe un singolare. È un po’ il discorso che faceva Heidegger rispetto all’essere e all’ente: se io pongo l’essere come un qualche cosa, non sto più parlando dell’essere ma di un ente, cioè di un qualche cosa. E così potete pensare anche tutta questa situazione, cioè, sono io che con tutta la mia sofferenza, con il dolore della distanza, mantengo la distanza. In un certo senso, è un modo per farmi padrone di questa distanza, per gestirla: se non posso eliminarla, la padroneggio. Se soffro allora vuol dire che questa distanza c’è. A un certo punto il cristianesimo ha posto la sofferenza come un valore, vale a dire, come un qualche cosa che, essendo un valore, dà importanza. Ancora oggi è così: chi soffre è importante, chi soffre merita rispetto. Se pensate a tutta la storia dell’al di là, al soffrire in terra per poi potere godere nell’al di là… Sì, anche, ma occorre qualcosa anche nell’al di qua, che dia un supporto. Ciò che viene dato nell’al di qua è questo: la tua sofferenza ha valore, ti rende rispettabile, perché gli altri ti rispettano, e quindi ti pone nel vero. La sofferenza è il vero, non si mente nella sofferenza. Perché si ritiene che Gesù Cristo abbia detto la verità? Perché ha sofferto sulla croce, per stabilire che quello che diceva era vero: se soffro, se mi sacrifico, questo mio sacrificarmi invera ciò che affermo. Come dire: Tizio è morto per le proprie idee. È un esempio abbastanza evidente di come il proprio sacrificio inveri il proprio pensiero, lo rende vero. La cosa interessante è che questa modalità, cioè di nobilitare la sofferenza, è ciò che ha consentito di sottomettere, di soggiogare l’intera popolazione per duemila anni; come dire: tu soffri ma in cambio io ti do potere, il potere della sofferenza, il potere della verità, il potere del rispetto. Ecco che cos’ha in cambio ed ecco perché le persone si assoggettano così facilmente. Pensate a ciò che accade anche attualmente nel mondo: un governo che proponga un periodo, come si usa dire oggi, di lacrime e sangue. Ora, i cittadini, che si sentissero proporre una cosa del genere, rovescerebbero all’istante quel governo, se non fosse che sono intrisi della religiosità e della sofferenza, per cui questa sofferenza, che viene proposta loro, ha un vantaggio, un tornaconto. Il mio soffrire è ciò che mi rende importante. Importante, perché? Qui c’è un passaggio dove parla di un medio fra i due estremi, tra l’intrasmutabile e il singolare, un medio che fa da tramite e che mette in connessione me con l’intrasmutabile - in definitiva, sarebbe il prete, ma non solo, anche l’uomo politico. Quest’ultimo mette in connessione il cittadino con l’intrasmutabile, in questo caso la verità assoluta, nel senso dell’ideologia politica come un qualche cosa che si pone come il bene assoluto, che può essere dio o il bene assoluto per i cittadini, per la società, per la civiltà. L’idea è che il politico costituisca quell’elemento che fa da tramite che, dicendo cosa si deve fare, può mettere in relazione il cittadino con l’intrasmutabile, cioè con dio o con il bene assoluto della società, della civiltà, di quello che si vuole.

Intervento: I cittadini prendono di mira i politici perché attribuiscono loro una sorta di onnipotenza. Da qui il senso di tradimento…

Quando per qualche motivo non è supportata questa fantasia di non poter accedere all’intrasmutabile, questa cosa viene presa come un tradimento. Quindi, chiaramente, il cittadino se la prende con il politico che in questo caso ha fallito, cioè lo ha tradito: facendo quello che lui mi dice, mi aveva promesso il paradiso, cioè il bene assoluto e, invece, non è così. Con il prete è più facile sgattaiolare, perché dio non c’è. Quello che mi interessava sottolineare è questo aspetto, che in Hegel non c’è, l’ho tratto io, naturalmente, non c’è neanche in Kojève e neanche in Jean Wahl, che sono quelli che più di altri hanno riflettuto su questo aspetto della coscienza infelice, del servo-padrone, ecc., e cioè questa nobilitazione della sofferenza. La sofferenza è il dolore della distanza. Distanza, potremmo dire semioticamente, tra significante e significato, ma soprattutto tra me e l’intrasmutabile, tra me e il divino, tra me e il concetto, tra me e ciò che mi fa essere quello che sono. È l’essere, potremmo dire, comunemente inteso: ciò che fa essere me quello che sono realmente. Come dicevo, questo rende conto della possibilità di tenere sottomessa la popolazione intera perché in cambio gli si dà questo, non tanto l’idea di un paradiso nell’al di là… sì, anche, ma non basta, ci vuole qualche cosa qui, adesso: io ti do la mia vita ma in cambio dammi qualche cosa, cioè l’idea di essere importante; se faccio ciò che tu mi dici io sono importante, perché sono nella via che porta, come dice Hegel, all’intrasmutabile, al divino, alla verità o all’essere. È un modo che si può anche porre perché rende conto, come dicevo prima, di come sia stato possibile, come continui a essere possibile, l’assoggettamento della popolazione intera. Cosa che si chiede persino Luttwak: come è possibile che tutti si sottomettano a malversazioni, estorsioni, senza aprire bocca, anzi, contenti. Certo, la questione del potere, di cui parla Nietzsche è fondamentale, anche quella di cui parla La Boétie, ma c’è un qualche cosa di più, c’è un qualche cosa che viene dato qui e adesso: io ti impongo di soffrire… anzi, c’è già questa sofferenza che è la sofferenza che si instaura con la distanza, cioè, non riesci a essere quello che vuoi essere. Ricordate Freud, l’Io ideale e l’ideale dell’Io: l’Io ideale è ciò che vorrei essere, l’ideale dell’Io è ciò che dovrei essere. C’è sempre questo movimento, questa spinta verso un intrasmutabile, di cui si immagina che finalmente raggiunto io sono quello che sono. Solo che questo, nel discorso religioso, deve rimanere, come ci dice Hegel, irraggiungibile, perché se lo raggiungo istantaneamente cessa di essere l’intrasmutabile.

Intervento: La promessa della politica è l’eliminazione della distanza…

Sì, ma non deve farlo. Anche se lo potesse, per assurdo, non lo deve fare. Il compito di un governo non è quello di fare il bene dei cittadini ma di promettere il bene dei cittadini. Deve rimanere una promessa, così come nel discorso religioso l’al di là deve rimanere una promessa, questo intrasmutabile deve rimanere una promessa mai raggiungibile. A pag. 184, punto 57. Che la coscienza intrasmutabile rinunzi alla sua figura e la elargisca, di ciò appunto la coscienza singola rende grazie;… La coscienza singola, cioè la persona, immagina che sia questo intrasmutabile a dare, a lei, questa speranza. Infatti, la speranza è una delle virtù teologali, viene data da dio, non se la può dare l’uomo; viene data da dio come dono per raggiungere qualcosa che non deve raggiungere. Questo è l’inganno incredibile, che però ha funzionato e continua a funzionare, perché il discorso religioso non appartiene solo alla religione intesa come istituzione organizzata, ecc., ma in qualunque discorso si trova la struttura religiosa, cioè, qualunque discorso vuole porsi come il vero, quindi, eliminando, facendo tutt’uno con ciò che lo nega. Non integrandolo o superandolo, come dice Hegel, ma eliminandolo come falso, così come fa la scienza, come fa la logica. …vale a dire, essa interdicesi l’appagamento della consapevolezza della sua indipendenza, e rinvia l’essenza dell’operare lungi da sé, all’al di là. A ogni modo, mediante questi due momenti del reciproco abbandonarsi delle due parti, sorge alla coscienza la sua unità con l’intrasmutabile. Solo, tale unità è in pari tempo affetta da separazione, è di nuovo infranta in se stessa, e di nuovo ne scaturisce l’opposizione dell’universale e del singolo. Qui sembra parli Parmenide, non ci siamo mossi di una virgola. Sì, l’intrasmutabile promette, come dire “ci sei quasi, però, ci manca ancora un po'”. È da duemila anni che ci manca ancora un po’ per raggiungere questo intrasmutabile, così nella religione come nella politica, che a questo punto appaiono avere esattamente la stessa struttura. A pag, 186, punto 61, parla del mediatore. Col sentimento della sua infelicità… Abbiamo visto che la sua infelicità è il dolore per la distanza che la separa dal divino. …e con la miseria dell’operare di tale coscienza… Miseria perché è sempre inadeguata, insufficiente. Per questo Freud aveva connesso il discorso ossessivo con il discorso religioso: questo sentimento di costante inadeguatezza, incapacità, ecc., per cui “non sono mai all’altezza”. Col sentimento della sua infelicità e con la miseria dell’operare di tale coscienza si congiunge tuttavia la consapevolezza della sua unità con l’intrasmutabile. C’è questa unità perché io so che c’è dio, non chiedetemi come faccio a saperlo ma lo so; quindi, c’è un’unità fra me e lui, solo che non riesco a raggiungerla. Infatti il tentato annientamento immediato del suo effettuale essere… Devo annientare il mio essere effettuale, cioè ciò che sono di fatto, se voglio raggiungere dio, devo annientarmi in quanto animalità. …è mediato dal pensiero dell’intrasmutabile, e avviene in questo rapporto. Comincia a esserci un mediatore, il pensiero dell’intrasmutabile, che mi dice che io devo liberarmi del corpo - questo è un tema classico del cristianesimo sin dai tempi dei padri della Chiesa. Il rapporto mediato costituisce l’essenza del movimento negativo, nel quale la coscienza si dirige contro la sua singolarità che non di meno, come rapporto, è in sé positiva e produrrà per la coscienza quella stessa sua unità. Questa coscienza è sì povera in sé, però contiene in sé anche questo rapporto che ha con l’intrasmutabile - che non è poco. Questo rapporto mediato è quindi un sillogismo nel quale la singolarità, che da prima si fissa come opposta allo in-sé, è conchiusa con quest’altro estremo solo mediante un terzo. Rapporto mediato tra me e l’intrasmutabile: questo rapportarsi avviene, dice Hegel, attraverso un terzo che mi consente il passaggio, che mi dice quello che devo fare per raggiungere l’intrasmutabile. Attraverso questo medio l’estremo della coscienza intrasmutabile è per la coscienza inessenziale, in cui è parimente implicito di essere, alla sua volta, per quell’estremo solo attraverso questo medio. Esso è quindi tale che rappresenta ed è reciprocamente il ministro dell’uno presso l’altro. Questo medio è esso stesso un’essenza consapevole, in quanto operare che media la coscienza come tale: il contenuto di questo operare è l’estinzione che la coscienza imprende della sua singolarità. Questo è sempre l’obiettivo: l’estinzione della coscienza in quanto singolarità; in quanto Io limitato devo eliminarmi, devo cancellarmi, ma attraverso questo medio, questo ministro che mi dice che cosa devo fare per raggiungere il divino. Questo mediatore… È il prete e anche, come abbiamo visto, l’uomo politico. …in quanto sta in immediato rapporto con l’essenza intrasmutabile… Lui sa, il prete sa che cosa vuole dio da me; il politico sa qual è il bene assoluto del cittadino, quindi, dell’umanità, della civiltà, del progresso, ecc. …funge da ministro consigliando ciò che è giusto. L’azione, essendo essa un seguire una risoluzione esterna… Perché è lui che me l’ha detto. …cessa, secondo un lato dell’operare o del volere, di essere la propria. Non sono più io che decido ma è lui che mi dice quello che devo fare, perché lui sa. Ma alla coscienza inessenziale resta ancora il lato oggettivo dell’azione stessa, vale a dire il frutto del proprio lavoro e il godimento. Io ho fatto delle cose, ho rinunciato a me, a una serie di cose, mi sono sacrificato, ho fatto la comunione, insomma, ho fatto quello che mi si diceva di fare. Questo godimento essa respinge parimente via da sé, e rinuncia sì al suo volere, sì a una effettualità ottenuta nel lavoro e nel godimento; rinuncia all’effettualità da una parte come alla raggiunta verità della sua indipendenza autocosciente,… A questo deve rinunciare, il fatto di rendersi conto di avere operato in un certo modo instaura una coscienza che sa di avere fatto delle cose, e quindi una sorta di indipendenza: sono io che ho fatto tutte queste cose. …giacché la coscienza si mette a fare qualcosa di completamente estraneo, qualcosa che ad essa coscienza dà la rappresentazione e parla il linguaggio di una cosa priva di senso;… Tutti i cerimoniali ecclesiastici, ecc. …d’altra parte rinuncia alla effettualità come proprietà esterna, - giacché dimette qualcosa del possesso che si era guadagnato a forza di lavoro; e d’altra parte ancora rinuncia al godimento conseguito, - giacché con il digiuno e con i castighi se lo interdice di nuovo interamente. Nonostante si sia dato da fare e, quindi, abbia raggiunto in qualche modo, e questo Hegel lo dice, la possibilità di una autocoscienza piena, cioè della ragione, ma questo significherebbe togliere l’intrasmutabile, significherebbe togliere dio, togliere la promessa, togliere la possibilità della promessa, cioè, togliere il valore della sofferenza e, quindi, “io soffro per niente”. Capite cosa succederebbe se io mi rendo conto che la mia sofferenza è per niente. E, allora, ecco i castighi, il digiuno, le flagellazioni, solo per avere pensato una cosa del genere. Alla fine conclude così. A pag. 190. Ma per essa stessa l’operare e il suo effettuale operare restano un operare meschino;… È come se non potesse fare valere la propria opera, il proprio pensiero, il proprio esistere, perché avverte la minaccia mortale di eliminare dio. Eliminando dio elimina il valore della sofferenza. Eliminando il valore della sofferenza mi ritrovo a dover ammettere che soffro per niente. …il suo godimento resta il dolore, e l’esser-tolto di essi resta, nel significato positivo, un al di là. Nell’al di là si cesserà di soffrire, quindi, verrà tolto il negativo, ciò che si oppone, ciò che mi impedisce nella fantasia di essere quello che sono; questo nell’al di là, per il momento no, per il momento permane questa opposizione per cui io sono sempre in attesa di sapere cosa veramente sono. Ma questo oggetto dove a tale coscienza il suo operare e il suo essere, come operare ed essere di questa coscienza singola, sono essere e operare in sé, le è sorta la rappresentazione della ragione, cioè la rappresentazione della certezza della coscienza, di essere, nella sua singolarità, assolutamente in sé, o di essere ogni realtà. Questa sarebbe la ragione, a cui tutta l’esperienza della coscienza punta, cioè, non attendere più di essere ciò che sarò in un al di là, ma di rendermi conto di essere, qui e in questo momento, ciò che sono, di essere ciò che dico, in definitiva. Mi è parso utile riflettere su questa questione, che Hegel sembra suggerire, della sofferenza come valore assoluto.