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28-8-2013

 

Ciò che distingue, che fa la differenza tra gli umani e le macchine, è che gli umani sono provvisti della fantasia di potere. È tale fantasia che ha consentito agli umani di costruire, di inventarsi la scienza, l’arte, la religione, la filosofia, l’amore, i sentimenti e tutte queste belle storie, senza la fantasia di potere tutte queste cose non si sarebbero potute produrre perché non ci sarebbe stato nessun motivo per farlo. Per questo invece le macchine non hanno la possibilità di inventarsi queste storie, a meno che qualcuno non inserisca queste informazioni. Ora se tutto ciò, così come appare, cioè questa fantasia di potere è ciò che rende gli umani tali, tecnicamente togliere questa fantasia di potere sarebbe rendere un umano non più tale, cioè per l’umano non ci sarebbe più il motivo per fare delle cose. Questa è una questione importante, e cioè la connessione tra il motivo per fare qualunque cosa e la fantasia di potere, se si riesce a connettere bene questi due elementi si possono intendere più facilmente molte cose, molte questioni, la domanda a quel punto è: da dove viene un motivo, un’intenzione. Per molti è un fatto naturale, già Aristotele parlava della “curiosità” come qualcosa di naturale. Ciò che a noi interessa è che cosa innesca, che cosa muove, qual è il motivo per fare qualcosa. Freud si è inventato le pulsioni per esempio, ma in linea di massima è considerato qualcosa di assolutamente naturale, qualcosa di connaturato con gli umani, mentre non è connaturato con le macchine, le macchine non hanno né intenzioni né motivi, poi diremo anche perché. Il motivo procede dal linguaggio, dal modo in cui funziona, è sufficiente dire che un significante, un elemento linguistico è connesso con un altro per formare una catena, una combinatoria, ciascun elemento è connesso con altri che lo precedono e che lo seguono, è sufficiente questo per parlare di “motivo”? Cioè il fatto che un elemento attende il successivo per proseguire? No, non è sufficiente, anche gli elementi che compongono il programma di un computer sono connessi ciascuno con gli altri, ma non per questo il computer ha dei motivi. Il motivo appartiene agli umani, al linguaggio certamente, a qualcosa che riguarda strettamente il funzionamento del linguaggio, a questo punto non so se è il caso di precisare il linguaggio “negli” umani; il motivo di questa precisazione ha a che fare con questo, che nel linguaggio degli umani è inserito un elemento che non è inserito nelle macchine, anche le macchine hanno linguaggio, però negli umani è inserito un elemento e cioè la necessità di verifica delle proposizioni. La verifica di una qualunque proposizione non è attuata tenendo conto unicamente delle regole del gioco in cui è inserita, ma la verifica della proposizione avviene attraverso una sorta di confronto, di esposizione a quella cosa che chiamiamo realtà, dal momento in cui si immette questa necessità di confrontare la verità di ciascuna proposizione con la realtà, da quel momento il discorso di qualunque persona continuerà a cercare la propria verità all’esterno del sistema; la fantasia di potere viene da lì? Sì, viene da lì, e come ho detto all’inizio è questo che differenzia gli umani dalle macchine, dunque viene da questa necessità di raffrontare, per verificarne la verità, tutte le proposizioni con il mondo esterno, con quella cosa che chiamiamo “realtà”. Viene da lì perché tutto ciò che la proposizione costruisce deve concludere con un’affermazione vera per potere da lì costruire altre sequenze, ma il fatto che sia vera dipende dall’adeguamento con la realtà, come forse abbiamo detto questa è l’unica cosa che consente di potere esercitare il potere, qualunque cosa una persona dica. Uno può sempre chiedere “chi lo dice?”, ma se ciò che io dico corrisponde alla realtà delle cose allora non si chiede della realtà, o chi glielo ha detto, perché la realtà viene considerata, possiamo chiamarla “ideologia”, come la verità suprema, la realtà assoluta oltre la quale non è possibile andare. Dire che la fantasia di potere procede da questo inganno, tale per cui le proposizioni devono essere confermate dalla realtà, ci sposta su un’altra questione, cioè come e perché si è creata la realtà? Solo per questo? Per avere una garanzia delle proposizioni? Difficile a dirsi, sicuramente ha questa funzione, però dire che sia stata inventata per questo per il momento è ancora prematuro. Sto parlando della realtà come ideologia cioè come riferimento ultimo alla quale le proposizioni si riferiscono, poi è ovvio che la realtà in quanto tale non c’è, in quanto indipendente da un linguaggio e da un sistema che la costruisce e quindi dalle proposizioni. Nella ideologia la realtà è posta come qualche cosa che è fuori dal linguaggio e proprio per questo non mente, cioè è immutabile, perché se fosse linguaggio sarebbe mutevole invece l’idea è che non sia così, e tutto il pensiero degli umani fino a pochissimo tempo fa è stato questo e ancora oggi, tutta o buona parte della filosofia, della scienza naturalmente, la stessa semiotica, la linguistica continuano a pensare che il linguaggio sia di straordinaria importanza ma resti comunque vincolato all’idea antica dell’adeguamento, e cioè che per verificare se un’asserzione è vera dobbiamo confrontarla con la realtà, come faceva Tarski, così come tutte le dottrine intorno alla semantica. Le dottrine sulla teoria del significato sono tutte necessariamente fallimentari nel momento in cui suppongono che il significato sia un quid che sta da qualche parte e che è da reperire, perché se ci fosse l’opportunità di considerare che il significato è una costruzione al pari di qualunque altra allora io posso attribuire al termine “significato” tecnicamente qualunque significato, basta che inventi un gioco con certe premesse, certe regole ed ecco che ciò che trarrò come conclusione sarà il significato del significato, però questo non dice assolutamente che cosa è questo significato, dice soltanto che è un termine che è stato costruito in base a certe regole e a partire da certe premesse, nient’altro che questo. Non c’è nessuna possibilità di trovare il vero significato del significato, cioè il significato di ultima istanza, cosa che ha degli effetti devastanti sulla filosofia del linguaggio e in particolare quella analitica, cioè vanifica tutte le operazioni riducendole a meri giochi fine a se stessi, eruditi, costruiti con cura e sentimento però di fatto ciò che concludono sono sempre delle ipotesi non verificabili, perché per poterle verificare occorrerebbe, queste ipotesi sul significato, trovare un altro significato più autentico che possa considerare il significato di tutte le altre formulazioni, dando a queste formulazioni un significato necessario, innescando una regressio ad infinitum senza fine, cioè “qual è il significato del significato?” “Sì, ma il significato del significato del significato?” “E il significato del significato del significato, del significato?” e così via, come sapevano già gli antichi, dei quali si tiene scarso conto e le conseguenze poi sono queste, cioè non accorgersi di quello che si sta facendo. La stessa nozione di “significato” proposta da Wittgenstein che comunque è stata sicuramente la più seguita e diciamo la meno ingenua rispetto a molte altre, cioè del significato come “uso” anche questa se presa, usiamo questo termine “realisticamente” mostra dei problemi, anche perché il “significato è l’uso dei parlanti” sì, può darsi, ma di chi esattamente? Di quanti parlanti? La totalità? È improbabile che sia possibile verificare una cosa del genere, è la grande maggioranza ma fino a che punto possiamo considerare questa maggioranza come il parametro che ci consente di dire che quello è l’uso corretto, sì, forse Wittgenstein non parlerebbe di uso corretto, anche se lui stesso accoglie come garanzia della conoscenza dell’uso di un certo termine il fatto che da certe domande vengono certe risposte, se io chiedo a Cesare “che ore sono?” e lui mi risponde “le nove e mezza” ecco che a questo punto io ho verificato che Cesare sa usare correttamente i termini “ora, orologio eccetera” perché ha risposto nel modo in cui io immaginavo che rispondesse, però siamo sicuri che tutti quanti hanno questo uso? Non è così semplice la questione, però come vi dicevo rimane per ora la posizione più attendibile, più accoglibile, più plausibile. Ma la posizione di Wittgenstein è ancora debitrice del concetto di realtà, perché per lui la correttezza dell’uso è sapere comunque, e questo gli viene ancora dal Tractatus, dall’adeguamento della parola alla cosa. Si tratta di regole, ma chi ha stabilito queste regole? Questo potrebbe anche essere irrilevante, quello che interessa è che il funzionamento del linguaggio prevede che un certo termine abbia un certo significato cioè un certo rinvio. Ora torniamo alla questione delle macchine, per una macchina un certo elemento ha un rinvio ovviamente, la totalità di questi rinvii si chiama generalmente il “funzionamento” delle macchine, ma a che cosa rinvia? Sicuramente non al mondo esterno, se io dico “tavolo” la macchina non si riferisce a qualcosa di esterno a questa parola ma alle regole, agli input che gli sono stati immessi dentro per riconoscere un tavolo, e la macchina questo lo può fare, ogni volta che vede un aggeggio che è fatto come un piano sostenuto da uno o più supporti lo chiama “tavolo”, esattamente come faremmo noi, ora questo non ha nessun riferimento a qualcosa di esterno, per gli umani invece appare di sì, e cioè che si impari la parola “tavolo” solo perché esistono dei tavoli, se no la parola “tavolo” non avrebbe nessun riferimento e quindi non sarebbe niente, ma a questo punto chi saprebbe porre in termini più corretti la questione? Se io affermo che gli umani imparano la parola “tavolo” perché esistono dei tavoli sto dando un grosso contributo al realismo, cosa obietteresti tu Eleonora a questa affermazione? Che dice che le parole seguono la realtà e cioè se non ci fosse la realtà non ci sarebbero le parole…

Intervento: praticamente è “questo è questo” è di lì che nasce poi il tutto…

Sì, sto dicendo che per affermare che “questo è questo” occorre che il primo “questo” ci sia, l’obiezione che potremmo fare muovendo dal funzionamento delle macchine è valida fino ad un certo punto, perché la macchina sì, riconosce un tavolo senza mai averne visto uno, in base alle informazioni che gli sono date, e queste informazioni gliele ha messe dentro qualcuno che invece sa che è un tavolo perché ne ha visto uno, e quindi può essere utilizzata fino ad un certo punto, dopo di che questo nostro obiettore potrebbe mettere in discussione ciò che noi stiamo affermando, a meno che non abbiamo qualche forte argomentazione per smontarlo, insomma che dire a questo nostro obiettore che sta dicendo che le parole esistono perché ci sono delle cose di cui parlare? Accogliamo questa posizione e diventiamo tutti realisti? Oppure no? Su cosa si basa questa “confutazione” tra virgolette? Sull’esperienza, come tutto il realismo, senza l’esperienza il realismo si svuota come un palloncino, se il realista ci dice che la parola “tavolo” esiste perché esiste il tavolo, allora io questo tavolo devo averlo visto in prima istanza, come prima cosa, ma come accade che io veda un tavolo? Come è possibile? Come è possibile che io veda qualcosa? Occorre intanto che io veda qualcosa, e ciò che distingue i parlanti da qualunque cosa non sia parlante è che il parlante è in condizioni di sapere che c’è qualcosa da vedere, anche perché la vista di cui siamo provvisti, i sensi in generale, sì, possono fornire degli stimoli, stimoli che a questo punto non sono assolutamente differenti da quelli del termometro, perché io possa vedere qualcosa è necessario che io sappia che c’è qualche cosa da vedere, se no non vedo, perché dovrei? Perché i miei sensi trasmettono alle varie cortecce cerebrali degli input? È possibile, ma come so che questi stimoli costituiscono quella cosa che io chiamo “vedere” non lo posso sapere cioè non posso sapere che sto vedendo, esattamente come un qualunque aggeggio che risponda ad uno stimolo. Occorre che io sappia che c’è qualcosa da vedere, sappia in che cosa consista questa operazione di “vedere” qualcosa, possa distinguerla da altre, ma come so tutte queste cose, da dove arrivano? Perché la famosa vite parker non lo sa, io invece sì se qualcuno cerca di avvitarmi me ne accorgo, per vedere dunque devo sapere quello che sto facendo allora posso vedere qualche cosa, non soltanto dire di “vedere” ma vedere di fatto, ora queste informazioni che io ho acquisite non possono venire da prima, cioè non possono venire dal tavolo, perché il tavolo non mi dice letteralmente niente, né può farlo, dunque ci deve essere qualche cosa prima dell’esistenza del tavolo che io sono in grado di combinare, di connettere, che cosa sono queste cose? Sono delle informazioni, informazioni che vengono fornite nel momento in cui si avvia il linguaggio e, come abbiamo detto tante volte, insieme con queste informazioni ci sono delle istruzioni per poterle combinare fra loro, se no sarebbero niente; fra le varie combinazioni possibili ce n’è una in particolare che è quella che fornisce l’informazione dell’esistenza, cosa dice questa informazione? Dice che se si verificano certe condizioni che sono state trasmesse, allora se si trasmettono queste informazioni, allora sono in grado di sapere che c’è qualche cosa da vedere. A questo punto io incomincio a vedere, che è una cosa che di per sé è abbastanza semplice, forse l’ho fatta più complicata di quanto si sarebbe dovuto perché ho fatti molti passaggi o almeno buona parte, però la conoscenza di qualche cosa deve necessariamente precedere il qualche cosa di cui ha conoscenza. Questo potrebbe apparire un paradosso ed è questo lo scoglio su cui si impianta il realismo: per sapere ci vuole qualche cosa da sapere, per dire ci deve essere qualche cosa da dire, qualche cosa da vedere per poterlo vedere, invece ciò che stiamo dicendo è esattamente il contrario, e cioè che occorrono delle condizioni perché io possa vedere qualcosa, e cioè delle informazioni che mi dicono “ecco adesso stai vedendo un tavolo” per esempio. Informazioni che senza istruzioni non sarebbero niente, quando parlo di “informazioni” magari pongo l’accento su un aspetto ma è chiaro che sono simultanee entrambe le cose, perché le “istruzioni” senza le “informazioni” non possono istruire nulla e le informazioni senza le istruzioni non sanno cosa fare. Prima dicevo che anche alla macchina sono state date informazioni per cui la macchina sa riconoscere il tavolo però, dicevo, chi gli ha messo queste informazioni è uno che sa che cos’è questo tavolo, ma lui, il programmatore, come l’ha saputo? Se alla macchina queste informazioni gliele ha messe lui, a lui chi gliele ha messe? È una domanda legittima, gliele ha messe chi lo ha addestrato a parlare, e cioè sto dicendo che senza questo sistema operativo non c’è nessuna possibilità di vedere le cose, perché le cose, come andavamo dicendo un po’ di tempo fa non sarebbero segno di niente, cioè non rinvierebbero a niente: io mi metto davanti a questo tavolo, questo tavolo non rinvia a nulla, è niente, come il pavimento, il soffitto, la telecamera, tutte queste cose se non rinviano a qualche altra cosa non ci sono, non esistono. L’obiezione del realista qual è? Però un pipistrello vede un ostacolo, gli manda dei messaggi acustici come il sonar che usano i sottomarini, il suono rimbalza e sa che c’è un ostacolo e quindi lo evita con una buona precisione, non sempre, certe volte vanno a sbattere malamente non è un sistema così perfezionato nemmeno quello, però tendenzialmente evita l’ostacolo. Questa è l’obiezione del realista, una possibile obiezione, ma il pipistrello che manda il segnale acustico che gli rimbalza, possiamo dire che sa che c’è un ostacolo? Cosa intendiamo con “sapere” a questo punto? Perché posta la questione in questi termini allora dobbiamo dire che il termometro quando è nel frigorifero sa che fa freddo, allo stesso modo, ma a questo punto allora è da ridisegnare totalmente la nozione di sapere, è come dire che il ferro sa che deve essere attratto dalla calamita, la benzina sa che in prossimità di una fiamma viva deve bruciare, cosa che ci porterebbe a delle conclusioni che sono assolutamente inaccettabili e inutilizzabili soprattutto. A questo punto “sapere” vorrebbe dire qualunque cosa e il suo contrario, quindi solo gli umani possono sapere e possono sapere perché sono provvisti di questa cosa che chiamiamo “linguaggio”, che è quella cosa che costruisce letteralmente le cose, incominciando a insegnare che ci sono delle cose da vedere, insegnando questo ecco che la persona incomincia a vedere quelle cose e da lì parte la sua conoscenza, perché ciò che gli viene trasmesso in quel momento è che lui sta costruendo la possibilità di vedere le cose e cioè sta costruendo dei segni letteralmente. Quando si impara a vedere questo tavolo si costruisce un segno, cioè si costruisce questa cosa che diventa un segno che è in relazione con altre cose, è per questo posso vederla. Invece ciò che si insegna è che esiste di per sé, anzi è sempre esistita, fornendo qui, insieme a queste informazioni e queste istruzioni, anche quella informazione che dice che le cose esistono, cioè ci sono indipendentemente da me che le vedo, le tocco, le nomino e faccio quello che voglio, e questo è l’avvio del concetto di realtà, la somma di tutte le cose che ci sono. Non si dicono le parole perché ci sono cose da dire, o sì anche, però posta la questione in termini un po’ differenti, ci sono cose da dire perché ho già detto delle cose, e queste cose che ho già dette sono loro che costruiscono altre cose da dire, cioè costruiscono altre combinazioni, altre connessioni e producono altri elementi. Così come le connessioni, le combinazioni fra i vari elementi possono produrre nuovi elementi il tavolo stesso viene creato allo stesso modo e cioè una combinazione di elementi che ho acquisiti, di informazioni attraverso le mie istruzioni producono un nuovo elemento che io chiamo “tavolo”, e a quel punto è costruita la realtà, come la totalità dei fatti, e cioè la totalità delle cose che sono, e che “sono” perché non c’è quella istruzione che mi dice che tutto questo è costruito, cioè tutti questi elementi che costruisco, che io vedo, sono segni e se sono segni è perché rinviano a qualche altra cosa, cioè sono elementi linguistici. L’assenza di questa cosa è ciò che consente alle macchine di non avere fantasie di potere che invece gli umani hanno proprio perché vengono addestrati in questo modo, e cioè le cose che io costruisco, non le costruisco perché la combinatoria consente di produrre un nuovo segno linguistico ma perché le cose ci sono ed io devo soltanto reperirle. La fantasia di potere sta proprio in questo, nella necessità di costruire proposizioni adeguate alla realtà, la realtà non mente, la realtà è quello che è, non è costruita da nessuno, se non da dio, ma questo è un altro discorso che adesso non ci interessa. Essendo la verità assoluta, cioè essendo il “come stanno le cose” se ciò che io dico è adeguato alla realtà è necessariamente vero, e la realtà è necessariamente la stessa per tutti, questo nella ideologia, e non può essere differentemente, da qui le guerre di religione eccetera ed è il motivo per cui gli umani sono diversi dalle macchine: è questa fantasia di potere che costruisce i sentimenti, le emozioni…

Intervento: per cui il potere deriva dall’adeguamento alla realtà…

Sì, questa è la condizione certo, è la condizione che si verifica nel momento in cui si trasmette il linguaggio, userei questo più che “si impara a parlare” che è soggetto a equivocazioni di ogni genere, si trasmette questo: che le cose sono così “io che ti sto trasmettendo il linguaggio dico che questo è questo” chi mi ascolta in quel momento non ha strumenti per verificare la mia affermazione, però è quell’affermazione che gli consente di incominciare a costruire cose. Sostenere il significato è “composizionale”, cioè come una somma dei significati di tutti gli elementi non è vero, perché una persona conosce alcuni significati, poi in base a quelli deduce oppure immagina che ci siano altri significati. Facevamo l’esempio della penna, io posso insegnare di dire a qualcuno che questa è una penna e lui saprà riconoscerla anche in altre occasioni, magari non sa a che cosa serve, non sa che la sua forma è più o meno cilindrica, non sa di che materiale è fatta, non sa niente, però saprà riconoscerla e questo per molti sarebbe una verifica che ha compreso la parola “penna”, ma non è vero. Buona parte dei filosofi del linguaggio sostengono questo, che la verifica per sapere se ha compreso una parola è per esempio dirgli “vai a prendermi una penna”, quello va prende la penna e la porta, ha capito che è una penna? No, anche una scimmia può farlo o anche un cane lo fa se è addestrato ma non basta una cosa del genere.