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28 luglio 2021

 

Lezioni sulla storia della filosofia di G.W.F. Hegel

 

Lezioni di storia della filosofia di Hegel. Siamo sempre con Platone, il capitolo sulla dialettica. Abbiamo già accennato di passaggio che il concetto della vera dialettica è quello di mostrare il movimento necessario dei concetti puri, non come se essa si risolvesse con ciò nel nulla, ma nel senso che il risultato, espresso così semplicemente, è appunto che i concetti… e che l’universale è appunto l’unità di tali concetti opposti. Che sarebbe nient’altro che l’Aufhebung. Senonché, in contrapposizione alla realtà esteriore la massima realtà è invece ideale e che questo sia l’unica realtà, e precisamente il pensiero di Patone, che determina l’universale o il pensiero in opposizione al sensibile. Lo scopo di molti dialoghi platonici, che terminano senza alcuna conclusione affermativa, è perciò di dimostrare che l’essere nella sua immediatezza, le molte cose che ci appaiono, anche se abbiamo rappresentazioni del tutto vere di esse, tuttavia non sono il vero in sé oggettivo, essendo soggette a mutazione ed essendo determinate dalla loro relazione con altro, non da se stesse. Quindi, anche nell’individuo sensibile si dovrebbe considerare soltanto l’universale, ciò che Platone ha chiamato idea. Il lavoro che Platone sta facendo è quello di riuscire a fermare, a individuare l’universale, universale di contro al particolare. Il particolare si muove, cambia continuamente; l’universale si presume che rimanga sempre lo stesso: essendo universale, per definizione non dovrebbe cambiare. Ed è questo che Platone cerca, che poi definirà come il Bene, come ciò che gli umani dovrebbero cercare. C’è, sì, l’universale e il particolare, ma Platone trascura il particolare come qualcosa di scarso interesse, di pochissima importanza. L’arte, poi, doppiava questa scarsa importanza, perché l’arte è una rappresentazione dell’immanente, di ciò che c’è e, quindi, aumenta la scarsa importanza dell’elemento aggiungendo una rappresentazione a qualcosa che è già una rappresentazione di un’idea. Codesto indirizzo contro la forma del finito induce la dialettica in primo luogo a scompigliare il particolare, in quanto la trae a dare risalto alla negazione che vi è contenuta, sicché esso non è in realtà quello che è ma trapassa nel suo contrario, nel suo limite che gli è essenziale; ché se questo limite vien tenuto saldo il particolare sparisce ed è già altro da ciò che è stato preso. Il particolare scompare se teniamo saldo, come ha fatto Platone, l’universale. Platone tiene fermo l’universale, il particolare è irrilevante. Questi due aspetti della dialettica volti a dissolvere il particolare… Questo è l’obiettivo di Platone: sbarazzarsi del particolare a vantaggio dell’universale, cioè, dell’idea. …e a produrre in tal modo l’universale, non sono dunque ancora la dialettica nel suo vero aspetto. Questa dialettica Platone l’ha comune con i Sofisti, che furono maestri nel dissolvere il particolare. A tal fine Platone si compiace assai spesso di dimostrare che la virtù è una sola; in tal modo dalle virtù particolari fa emergere precisamente il Bene universaleQuesto era il suo solo obiettivo: fare emergere il Bene universale quale riferimento ultimo, ciò a cui gli umani necessariamente devono tendere. Sicché le filosofie precedenti scompaiono, non perché Platone le abbia confutate, ma perché le ha accolte nella propria. Tali pensieri puri, nella considerazione dei quali l’in sé e per sé insiste risolutamente l’indagine platonica, sono, oltre l’essere e il non essere, l’uno e i molti, il limitato e il limite. Sono i concetti su cui verteva la filosofia e su cui continua a vertere ancora oggi in buona parte. Così grande è il valore che Platone assegna al movimento dialettico che non è considerazione dell’esteriorità ma indagine viva che ha per contenuto soltanto i pensieri puri e il movimento di questi ultimi sta appunto nel fatto che si fanno altro da sé, mostrando in tal modo che soltanto nella loro unità è la verità. L’unità dei particolari che diventa l’universale, naturalmente. L’Uno è. Da ciò segue che l’Uno non è equivalente all’è e che l’Uno e l’è sono differenti; quindi, nella proposizione “L’Uno è” è contenuta una differenza e, dunque, vi sono in essa i molti e dicendo l’Uno io dico già i molti. Questa dialettica è senza dubbio esatta ma non del tutto pura, giacché prende le mosse dal legame di due determinazioni. Torno a dire ancora una volta, Platone aveva solo questo come proponimento: cogliere l’universale e sbarazzarsi del particolare, mostrare che soltanto l’idea pura, che sta nell’Iperuranio, ha valore. Tutto il resto sono illusioni, sono rappresentazioni, sono cose che vanno e vengono, nulla di cui, secondo lui, la filosofia dovrebbe occuparsi. Queste idee sono presentate dialetticamente, sono essenzialmente l’identità col loro altro. È questa la verità. Qui Hegel sta dicendo che la sua verità è superiore. Un esempio ce lo offre il divenire. Nel divenire essere e non essere si trovano in una unità indissolubile e, tuttavia, vi sono anche come differenti. Infatti, il divenire si ha soltanto in quanto l’uno trapassa nell’altro. Questo non lo dice Platone ma Hegel. Acquisteremo allora la coscienza che il concetto non è in verità né il solo immediato, sebbene questo sia il semplice, né soltanto ciò che si riflette in se stesso, la cosa della coscienza, ma è semplicità spirituale e quindi essenziale in quanto pensiero ritornato in se stesso e quindi in sé, vale a dire, essenza oggettiva, cioè tutta la realtà. Però, dice Hegel, Platone non ha espresso con precisione questa coscienza, non ci è arrivato. Infatti, qui stava parlando di lui. La cosa interessante, che vedremo poi con Aristotele, è che legge Aristotele attraverso la Fenomenologia dello spirito. Contro gli eleati dice: La loro tesi, che a modo suo è tesi anche dei Sofisti, secondo cui solo l’essere è e il non essere non è. Per i Sofisti, a quanto ne dice Platone, questo voleva significare siccome il negativo non è affatto ma è soltanto l’essere, il nulla è erroneo. Tutto ciò che è, tutto ciò che per noi è, è quindi necessariamente vero; ciò che non è noi non lo sappiamo né lo sentiamo. Platone rimprovera ai Sofisti di avere in tal guisa cancellato la differenza tra vero e falso. Il che non è propriamente perché quando il sofista, come ricorda qua, dice che il negativo non è affatto ma è soltanto l’essere, il nulla è erroneo già dice che cosa è vero o falso. Quindi, non è che neghino questa cosa, ciò che negano, come accennavamo qualche volta fa, è che ciò che non è, è ciò che non è nel pensiero, è ciò che non è nel linguaggio: è questo che non è e non può essere. I Sofisti possono dare ciò che promettono, ammettere cioè che tutto ciò che per l’individuo, secondo il suo opinare, giova al suo fine e al suo interesse è affermativo e giusto. Pertanto, non si può dire questa è un’ingiustizia una colpa, un delitto, senza affermare implicitamente l’erroneità della massima dell’azione. Il che non è vero, e neppure si può dire che questa opinione è ingannatrice, ché secondo l’interpretazione sofistica è implicito nella proposizione che ciò che io sento o mi rappresento in quanto è mio ha contenuto affermativo e, quindi, è vero ed esatto. Tutto sommato, Gentile diceva la stessa cosa. La dialettica platonica differisce essenzialmente da questo genere di dialettica. Ciò che intende più da presso Platone si è che l’idea, l’in sé e il per sé universale, il bello, il buono, il vero, si debbono prendere per se stessi. Lo stesso mito, da me riferito, significa già che non si deve badare a una buona azione ad un uomo bello, non già insomma al soggetto, di cui queste determinazioni sono predicate; sebbene, bisogna assumersi per sé ciò che in queste rappresentazioni o intuizioni appare sotto forma di predicato. Dice Platone, secondo Hegel, che queste idee – la verità, il bene, ecc. – devono essere prese per se stesse, cioè, non sono per altro. Che significa che non sono per altro? Se dovessimo leggere questa cosa con de Saussure diremmo che non hanno significato, perché il significato è ciò a cui ciascuna cosa rinvia per essere quella che è; quindi, immaginare che siano prese per sé significa immaginare che l’universale possa stare senza il particolare, cosa che non può accadere. Aristotele, a detta di Hegel, se ne accorgerà, Hegel se ne accorge chiaramente: l’universale senza il particolare non esiste. Il lavoro che ha invece tentato di fare Platone è di isolare l’universale ed eliminare il particolare perché non ci serve, è inutile. Platone cerca di dimostrare che il non essere è determinazione essenziale dell’essere e che il semplice identico a sé ha parte nell’esser altro. Questa unità dell’essere e del non essere si trova anche nel modo di vedere dei Sofisti, certo, ma questo solo non basta. Infatti, Platone, continuando l’indagine, giunge al risultato che il non essere è meglio determinato la natura dell’altro, le idee si mescolano e l’essere e l’altro penetrano attraverso tutto l’uno e attraversa l’altro; l’altro, partecipando dell’essere grazie a questo inerire dell’essere, diventa bensì essere, non però identico a quello cui inerisce sibbene diverso, e in quanto è l’altro dell’essere esso è necessariamente il non essere. Così lui sbriga la questione: il non essere necessariamente non è. È la tesi di Parmenide, ma qui ha un’altra portata che in Parmenide non aveva, e cioè isolare l’universale per poterlo porre come obiettivo, come fine, cosa che era totalmente assente in Parmenide. Orbene, codesta determinatezza consiste in questo, che l’uno è identico con sé nell’altro, nei molti e nei diversi. Questo è quanto vi ha di vero e di unicamente interessante per la conoscenza in quella che si chiama filosofia platonica, e se non si ammette questo non si ammette ciò che più importa. Al pensiero speculativo preme soltanto di congiungerli (l’essere e il non essere), l’Uno e i molti, senza fermarsi a semplicemente passare dall’uno all’altro. Questo è quanto c’è di più intimo e di veramente grande nella filosofia platonica. Questa determinazione, se piace dire così, costituisce l’elemento esoterico della filosofia platonica, tutto il resto è essoterico. Esoterico è l’insegnamento riservato a pochi, l’essoterico invece è per il pubblico, per il popolo. Distinzione ad ogni modo poco felice, quasi che Platone avesse avuto due filosofie. La verità si è che l’elemento esoterico non è altro che l’elemento speculativo, il quale, anche se scritto e stampato pur non essendo un mistero, rimane celato per chi non sente il desiderio di affaticarvisi su. Questo è un modo con cui Hegel cerca di recuperare Platone, in parte giustamente, come se alludesse all’eventualità che Platone abbia già posta la questione, ma poi gli è sfuggita l’Aufhebung. Ma se non gli fosse sfuggita, ecco che avrebbe colto davvero la verità della cosa, per cui, tutto sommato, Hegel sembra seguire Platone, come dire: ha detto bene, non ha fatto quest’ultimo passaggio, ma in fondo c’era quasi arrivato, aveva posto i due momenti, l’in sé come il particolare e il per sé come universale. Quindi, era lì vicino oramai, secondo Hegel, doveva soltanto integrare i due momenti. In Platone la filosofia contiene la direzione che l’individuo deve prendere per conoscere questo o quello, ma egli ripropone in generale l’assoluta felicità per sé, la stessa vita beata nel proporsi a scopo della vita la contemplazione di quegli oggetti divini. Questa vita di contemplazione appare in tal modo senza scopo, ché da essa scompare ogni interesse, ma per gli antichi fu scopo in sé e per sé il vivere liberamente nel regno del pensiero ed essi conobbero che soltanto nel pensiero è libertà. Questo è importante perché, non per la prima volta ma sicuramente in un modo più determinato ed efficace, viene posto che il pensiero, cioè la filosofia, deve fornire una direzione di vita, deve indicare che cosa gli umani devono perseguire. Se ci pensate bene, questo negli eleati e nei sofisti era totalmente assente, nulla di tutto ciò, poi vedremo perché. Qui Hegel parla di ciò che Platone descrive dello Stato. Sapete che Platone ha dedicato una buona parte del suo lavoro a questo nella Repubblica. Con Platone inizia questo filone che incomincia a dire che cosa è il bene e, quindi, che cosa ciascuno dei cittadini deve perseguire all’interno di questo sistema organizzato che si chiama Stato. Ora, perché possa darsi la politica è necessario che ci sia l’etica, che cioè ci sia l’idea di bene che diriga il pensiero politico. Qual è il bene dei cittadini? Parafrasando Platone, potremmo dire che è una nobile menzogna. Riprendendo invece Machiavelli, potremmo dire che la politica è un’arte, l’arte di mantenere il potere, costi quello che costi. Il fondamento della legge deve essere la razionalità e così difatti è nell’insieme, ma d’altra parte nella razionalità sono essenzialmente contenute anche la coscienza, la convinzione personale, insomma, tutte le forme della libertà oggettiva… Cioè, ciò che voglio io. Orbene, questa soggettività si schiera in un primo momento contro le leggi, contro la ragione dell’organismo statale in quanto potere assoluto, che in forza della necessità esteriore dei bisogni, nella quale però inerisce la razionalità in sé e per sé, tende a sottrarre l’individuo alla famiglia e ad appropriarselo. Se prendono le mosse dalla soggettività del libero arbitrio, ci si coordina al tutto, si sceglie una classe sociale e ci si eleva in tal modo all’eticità… L’eticità risulta fondamentale per avere un obiettivo. Senonché Platone in generale non tiene conto di questo momento del movimento dell’individuo, del principio della libertà soggettiva, anzi, in parte lo ferisce a ragion veduta, perché esso si manifesta con quell’attività che aveva provocato la corruzione greca. Platone si limita a indagare la migliore organizzazione dello Stato, non già la forma migliore dell’individualità soggettiva, sulla quale lavora ma per intendere qual è quella collettiva. La filosofia platonica, mentre si eleva al di sopra del principio dell’eticità greca, incapace nella sua libertà sostanziale di tollerare la libertà soggettiva, non sa però sottrarsi a questo principio, anzi, lo svolge con maggiore compiutezza. … La proprietà è un possesso che appartiene a me in quanto persona determinata, la quale mia persona come tale perviene all’esistenza, alla realtà; per questo motivo Platone la esclude. Niente proprietà privata. Tuttavia, la libertà esiste solo in quanto la persona è fornita di proprietà. Vediamo in tal modo lo stesso Platone escludere consapevolmente dal suo Stato la libertà soggettiva. Questa grosso modo era l’idea di Stato per Platone. Certo, uno Stato che si sarebbe detto poi di impronta comunista, una sorta di utopia. Dopo Platone, pochi sono stati quelli che hanno pensato e che non si sono in qualche modo prodigati a ideare una loro visione perfetta dello Stato; quasi tutti si sono impegnati in questo, come dire: io so qual è il vero bene. Torno a dirvi, perché è una questione che va ripresa, che per gli eleati e i sofisti non c’è mi stata nessuna idea di che cosa dovrebbe essere uno Stato. Cosa interessante e che ci porta dritti ad Aristotele. C’è tutta una parte dove Hegel fa la storia della vita di Aristotele, interessante e anche divertente, però dobbiamo saltarla. Dicevo che la lettura che fa Hegel, il quale apprezzava tantissimo Aristotele, è una lettura attraverso la Fenomenologia dello spirito, attribuendo spesso ad Aristotele cose che sono suo pensiero. Questo è un motivo in più per cui necessita urgentemente da parte nostra la lettura della Metafisica di Aristotele, per vedere se è così, ma non solo, ovviamente. Hegel mette sull’avviso perché le opere di Aristotele sono state maneggiate, rimaneggiate, riscritte da copisti incapaci che hanno sbagliato, poi errori corretti secoli dopo tenendo conto di altri scritti, di alcuni che non è sicurissimo che siano suoi. Insomma, anche per Aristotele, nonostante ci siano una infinità di testimonianze, il problema sull’autenticità comunque rimane. Aristotele era un allievo di Platone, però se ne discosta e la differenza fondamentale che pone Hegel tra Platone e Aristotele è che mentre Platone ha colto perfettamente i due momenti tenendoli però separati a vantaggio dell’universale scartando il particolare, Aristotele no, mantiene sia il particolare che l’universale e li fa agire insieme attraverso due concetti fondamentali nel pensiero di Aristotele, e cioè dinamis (δύναμις) e enérgheia (ένέργεια), la potenza e l’atto, i quali insieme formano la entelechia (εντελέχεια). L’entelechia è l’agire di qualche cosa che può agire; sarebbe il pensiero pensante, secondo Gentile. Questa differenza risulta determinante perché mentre Platone esclude il particolare in Aristotele torna invece in modo poderoso, potente. Ritorna come l’in sé di Hegel, e cioè è il momento che inizia, dove questo inizio però è un inizio retrogrado, perché questo momento di inizio non c’è senza l’universale. Questo è il primo elemento che Hegel intravede in Aristotele, e cioè che l’universale non si dà senza il particolare; poi, ripreso da Hegel, dicendo che non c’è la potenza senza l’atto né l’atto senza la potenza, non si possono disgiungere in nessun modo, cosa che invece aveva fatto Platone, anzi, era il suo obiettivo. Per Aristotele l’indagine principale ovvero il sapere più essenziale è la conoscenza del fine. In Aristotele interviene il fine, cioè l’entelechia, mentre per Platone, come sappiamo, è il Bene. Questo è secondo lui il bene di ciascuna cosa e in generale l’ottimo dell’intera natura. È la stessa concezione di Platone e di Socrate ma in Aristotele il fine è il vero, non il Bene... Una differenza che potrebbe apparire irrisoria ma ha poi degli effetti. …il concreto di contro all’astratta idea platonica… Il concreto nel senso che tiene conto anche dell’immanente, che Platone aveva scartato a vantaggio dell’idea platonica di bene, di verità, ecc. Perciò, egli, parlando del valore della filosofia, afferma che gli uomini sono stati tratti alla filosofia dalla meraviglia… Qui ci sarebbe da fare un riferimento inevitabile a Severino. Secondo lui è una traduzione troppo debole quello di thauma che viene tradotto con meraviglia: thauma è più lo sgomento di fronte a qualcosa che non si riesce a padroneggiare, che sfugge. …giacché questa implica almeno il presentimento da alcunché di più alto. Poiché si incominciò a filosofare per sottrarsi all’ignoranza è chiaro che si è ricercato il sapere al solo scopo di conoscere e non già per ragione di utilità. Qui con Aristotele interviene qualcosa di notevole ma che era già in nuce in Platone, e cioè il sapere fine a se stesso. Un sapere, quindi, che ha come riferimento un qualche cosa che trascende gli umani e che è ciò da ricercare. Con Aristotele incomincia a porsi la questione del trascendente in modo forte, pur mantenendo naturalmente l’immanente. Ma cosa vuol dire questo? Incomincia a porsi la questione su cui si è impiantato tutto il discorso occidentale, e cioè che esiste necessariamente un bene superiore. Idea completamente assente negli eleati e nei sofisti, per i quali non c’è nessun bene superiore, ma avrebbero detto: dimostramelo che è superiore e poi dimostrami che la nozione, che hai tu di superiore, sia quella vera! Quindi, accade questa cosa e Hegel la rileva naturalmente, è un fine lettore, cioè incomincia a porsi l’idea che parlando si usano dei termini, dei concetti, dei significanti, degli enti, che non sono più oggetto di indagine, come lo erano per gli eleati. Tu parli di verità e dici che la verità è questo. Va bene, ma la verità come la dobbiamo intendere? E perché la dovremmo intendere nel modo in cui pensi tu? Si insinua il modo di pensare che illude che le cose che io dico, vedo, tocco, ecc., siano proprio quelle che io credo che siano. Questo momento è importante perché segna un passaggio e, in effetti, Platone e Aristotele segnano un momento di passaggio nel procedere del pensare. Viene istituita la parola come ipostasi. Ipostasi letteralmente significa soggetto, ciò che sta sotto; sarebbe lo stesso di hypokeimenon, lo stesso di subjectum. Accade esattamente questo, e cioè l’idea che ciò di cui parlo sia ciò che io credo che sia. Cosa che invece non avveniva con gli eleati, che interrogavano proprio questo: ciò che dico, ciò che vedo, lo posso sapere? Questo interrogare, questo accorgersi che le cose che dico, sì, le dico, certo, ma so di che cosa sto parlando? Ecco, questo interrogare, questa domanda con Aristotele cessa e le cose sono quelle che sono. Certo, le mette in movimento tra potenza e atto, dove la potenza e l’atto diventano entelechia, e questo movimento per Hegel è un movimento dialettico, un suo prodromo. Si incominciò a filosofare non per l’utilità… Qui Nietzsche avrebbe da ridire: che ce ne importa di sapere della verità? Niente, ma se questa nozione di verità ci serve per aumentare il potere, allora ben venga la verità, che naturalmente deve essere quella che so io, oppure, devo trarla da un fine. Sì, ma il fine di cui parla Aristotele non è un fine utilitaristico ma è un fine volto alla conoscenza che è fine a se stessa. È un modo per scartare completamente l’utile. Potremmo quasi dire che gli eleati dicevano che si parla per un utile, che si parla per potere abbattere l’avversario, per potere dimostrare qualunque cosa e il suo contrario, dal momento che qualunque cosa io affermo non la posso affermare. È contro questo che si scaglia Aristotele: diceva che posso affermare perché c’è questo movimento dialettico, che mi fa porre due momenti come Aufhebung, integrazione; questi due movimenti costituiscono l’assoluto, ed è questo assoluto che io devo cercare, assoluto che non sta più nell’idea ma nella cosa in sé. Da qui il famoso dipinto della scuola di Atene di Raffaello: Aristotele con la mano aperta verso il basso, l’essere della cosa è lì che dobbiamo cercarlo; non come fa Platone che punta l’indice verso il cielo, verso l’Iperuranio. Aristotele cerca di argomentare questa cosa che dice, e cioè che questa cosa che ricerca è senza fine, senza utile. Questo è dimostrato anche dal modo di come si sono svolte estrinsecamente le cose. Infatti, soltanto dopo aver soddisfatto a tutte le necessità materiali e a ciò che serve alle comodità l’uomo ha cominciato a desiderare la conoscenza filosofica. Pertanto, noi la cerchiamo per altro uso e come diciamo che è uomo libero colui che è fine a se stesso e non fine ad un altro, così anche fra le scienze la sola libera è la filosofia, essendo essa sola fine in sé: conoscere per l’unico scopo di conoscere. Questa è scienza che spetta agli dei. Certamente, tutte le altre scienze sono più necessarie della filosofia, nessuna è più eccellente di essa. Parole roboanti di Aristotele ma che celano la fragilità della sua argomentazione, perché quando che abbiamo smesso di doverci procacciare il cibo, allora possiamo dedicarci… Sì, certo, intanto abbiamo smesso di procacciarci il cibo e di fare altre incombenze dal momento che abbiamo gli schiavi, prima cosa importantissima. La schiavitù è stata fondamentale, è stata fondamentale in Grecia per i pensatori che avevano il tempo di pensare; è stata fondamentale a Roma che ha costruito il suo impero; è stata fondamentale per gli Stati Uniti d’America che per due secoli hanno sfruttato la schiavitù, e hanno quindi potuto accumulare ricchezze immense, e poi, tanti altri esempi che ora non farò. Dunque, solo a questo punto inizia la filosofia, che sarebbe ben poca cosa, come dire “non ho altro da fare, per cui filosofeggio!”. È uomo libero colui che è fine a se stesso e non fine ad un altro. L’uomo fine a se stesso non è tale solo perché fa filosofia, è tale in quanto, potremmo dire, si accorge di essere linguaggio, e cioè che non c’è un altro fine all’infuori di quello, perché per potere pensare un altro fine mi occorre il linguaggio di cui sono fatto. Quindi, questa argomentazione, che sembra fondamentale per Aristotele e con la quale peraltro comincia la Metafisica, è molto fragile, molto debole, perché in fondo dice che gli umani hanno incominciato a fare filosofia quando avevano nulla da fare, il che non è in effetti gran cosa. Poi, chiaramente il suo pensiero è andato oltre e ha fatto cose notevoli. L’idea speculativa di Aristotele si deve ricavare soprattutto dai libri della Metafisica. Aristotele distingue con molta precisione questa filosofia pura dalle altre scienze… Aristotele non usava il termine metafisica, l’ha poi imposto Teofrasto quasi un secolo dopo. Aristotele la chiamava filosofia prima. …dicendo che essa è la scienza dell’essere in quanto essere e di ciò che gli appartiene in sé e per sé. Aristotele riesce a determinare in modo eccellente quale sia questa sostanza (οσία). In questa ontologia, o come noi la denominiamo logica, indaga e distingue esattamente quattro principi: 1) il carattere determinante o qualità come tale, ciò per cui una cosa è quella che è, l’essenza o la forma; 2) la materia; 3) il principio del movimento; 4) il principio del fine o del bene. Su questi quattro principi Aristotele ha costruito tutta la metafisica. Presuppone una materia informe, che a un certo punto diventa forma e come tale diventa sostanza diventa οσία. Ma per diventare questo, per essere quello che la cosa è, occorre che ci sia il terzo principio del movimento, e cioè che questa cosa che è in potenza. La materia è in potenza, non è ancora niente, occorre la forma che la informi, letteralmente che le dia forma: questo il principio del movimento, cioè il passaggio dalla δύναμις all’νέργεια, dalla potenza all’atto, dalla materia alla forma. Quarto principio è il fine: il fine è l’entelechia. Il fine non è nient’altro che l’integrazione di questi due momenti della potenza e dell’atto, che Aristotele, da quanto ne scrive Hegel, li pone come inscindibili. Non so se sia esattamente così, Hegel sicuramente li pone come inscindibili (l’in sé e il per sé). L’espressione dinamis significa per Aristotele la disposizione, l’in sé, l’oggettivo; poi, quindi, l’astrattamente universale, l’in sé, l’oggettivo; poi, quindi, l’astrattamente universale, in generale l’idea, la materia, che può assumere tutte le forme senza essere medesima principio formativo. Vedete che dà a questa nozione di δύναμις una serie di significati. È chiaro che anche un copista non capisce come usare la parola δύναμις perché la vede usata in contesti diversi, con significati diversi. E qui, allora, ci vogliono i filologi, tedeschi come Diels e Kranz o Nietzsche. Dunque, alla materia manca il principio formativo, secondo Aristotele. Che sarebbe poi il fine, ciò per cui esiste questa cosa. Per che cosa esiste la materia, per dirla in modo spiccio? Per diventare forma. Questo movimento del diventare forma della materia è il movimento dialettico, è il movimento per cui questi due elementi alla fine risultano inscindibili. Qui c’è più Hegel di quanto ci sia Aristotele. Per Aristotele il concetto fondamentale della sostanza è che essa non soltanto è materia, sebbene nella vita comune la materia soglie essere considerata come il sostanziale. Tutto ci che esiste contiene certamente materia. Dice contiene certamente materia; già qui gli avrebbero fatto un sacco di domande: come sai esattamente che esiste la materia? Lo hai dedotto, ma da che cosa? Solo dalle tue argomentazioni. Tra l’altro, questa materia non riesce mai a definirla; anche nel suo scritto De generatione et corruptione non definisce la materia perché non la può definire se non come materia signata, come dicevano nel Medioevo, e cioè come materia formata, come forma: non vedo la materia, vedo una forma, vedo una cosa. Ma poiché la materia stessa è soltanto una potenza, non l’atto che spetta alla forma, così dipende dalla attività della forma che a materia sia veramente. Questo già piace a Hegel: il fatto che ci sia la materia lo desumo dal fatto che ho la forma, e allora posso pensare che ci sia una materia. Naturalmente, è una costruzione linguistica che possiamo fare per via di una serie di argomentazioni, di conoscenze che abbiamo, che però i sofisti e gli eleati avrebbero smontato subito dicendoci che parliamo di cose delle quali non sappiamo niente. Poi, avrebbero aggiunto “non è che dovete smettere di parlare, ma tenere conto di questo”. Per Aristotele adunque dinamis non significa affatto forza – forza è piuttosto un’imperfetta configurazione della forma – ma piuttosto potere e perciò non una possibilità indeterminata… Perché ha la possibilità di diventare quello che diventa, perché è ciò che è diventato che determinerà l’esistenza di ciò che gli consente di divenire. Qui, in effetti, è molto hegeliano; si tratterà, poi, di vedere il testo di Aristotele, ma fin qui è straordinariamente hegeliano, c’è veramente la Fenomenologia dello spirito. Queste determinazioni conservarono grande importanza in tutto il Medioevo, però, secondo Aristotele la sostanza essenzialmente assoluta ha potenza e atto, forma e materia, inseparate l’una dall’altra. Il veramente oggettivo ha in sé anche attività come il veramente soggettivo ha anche possibilità. È sempre Hegel, cioè, l’in sé contiene anche il per sé, il quale contiene l’in sé e non possiamo disgiungerli. Da questa determinazione risulta manifesta la specie di opposizione in cui si trova l’idea aristotelica di fronte alla platonica. Infatti, sebbene anche in Platone l’idea sia in sé essenzialmente concreta e determinata, tuttavia Aristotele segna un progresso, in quanto cioè l’idea è determinata in se stessa. Si deve cogliere più da presso il rapporto in cui in essa stanno i momenti, e questo rapporto vicendevole tra i momenti va concepito appunto in generale come attività. È questo che intende Aristotele con trovare la sua verità in se stessa: nel movimento di cui è fatta questa cosa, movimento che invece Platone congela, separando l’immanente dal trascendente. È nella coscienza di noi tutti il senso dell’insufficienza dell’universale, cioè di ciò che soltanto è in sé… Qui, certo, è Hegel che parla, però riporta tendenzialmente la posizione di Aristotele. Qual è il fondamento di un pensiero? Il fatto che sia nella coscienza di tutti: la chiacchiera. L’universale, appunto perché universale, non ha ancora realtà… Gli manca la realtà. Direbbe Severino dell’astratto: gli manca il concreto; al concreto mancano tutti gli astratti. Fin quando ci saranno tutti gli astratti allora il concreto sarà concreto. …ragione, leggi, ecc., sono in tal modo astratte ma il razionale, in quanto si realizza noi lo riconosciamo necessario, non ci preoccupiamo di codeste leggi universali. Il punto di vista platonico consiste ora in generale nell’esprimere l’essenza piuttosto come l’oggettivo ossia in generale come l’universale. Questa era l’idea di Platone: trovare il Bene universale, che naturalmente bisogna perseguire, mentre Aristotele riconosce che c’è sì un Bene universale, però questa idea di Bene universale non cancella il particolare, l’immanente.