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28 giugno 2023

 

I concetti fondamentali della filosofia aristotelica di M. Heidegger

 

Siamo a pag. 301. Ho tentato di stabilire la seguente connessione: rendere comprensibile la concettualità stessa in base all’esserci in quanto tale, rappresentare l’esserci secondo una possibilità fondamentale del suo essere. Quindi, la concettualità è una possibilità fondamentale dell’uomo, e cioè costruire concetti. Il concetto, dicevamo, non è altro che il pensato. Questo particolare ente ha la possibilità di recare in sé le determinazioni fondamentali della concettualità. Lo stato di fatto: nella vita umana è possibile qualcosa come la scienza e la ricerca scientifica. Ciò grazie al fatto che possiamo costruire concetti, perché senza concetti non facciamo niente. Tre elementi: esperienza fondamentale obiettiva, appello primario, comprensibilità dominante. Qui dice una cosa importante. 1. Esperienza fondamentale obiettiva: dobbiamo intenderci circa il fatto che questo ente, chiamato esserci umano, ha la possibilità di recare in sé il concettuale. Questo primo elemento, che lui chiama esperienza fondamentale obiettiva, non è nient’altro che l’apparire di qualche cosa, qualcosa mi appare. 2. L’appello primario: l’esserci così inteso implica di per sé un determinato senso dell’essere e, quindi, di ciò che esso non è. Vedo qualche cosa, ma il vedere qualche cosa mi mette di fronte a ciò che questo qualche cosa che vedo non è. Cesare è qui di fronte a me ma non è tutte quelle cose che ha intorno, non è la sedia, non è il termosifone, ecc. 3. L’esserci, così come esso parla da sé di se stesso e del modo peculiare del suo avere a che fare, ha una misura determinata di comprensibilità. L’esserci, così come parla normalmente, ha un grado di comprensibilità perché è il dire comune, la δόξα. Ora, in un esserci così caratterizzato, come è possibile la concettualità stessa? Dobbiamo distinguere due possibilità. Se la scienza è qualcosa per cui l’esserci può decidersi, ἓξις, allora questa ἓξις è caratterizzata dal fatto di essere πῶς ἓχομεν πρός ἄλλων: πῶς, ciò che è; πρός, “contro”, “in relazione a…” Qualcosa è in quanto in relazione con altro. In primo luogo, quindi, possibilità nel senso della situazione contro cui la ἓξις si forma, in secondo luogo, poi, in senso positivo. Questo avere a che fare dell’esserci è caratterizzato dall’essere pro qualcosa e contro qualche cos’altro. La dico in termini molto semplici: sono pro nel senso che affermo qualcosa, sono contro nel senso che è altro questo ciò che affermo. A pag. 302. L’esserci in quanto “essere nel mondo” è dominato completamente e primariamente dal λόγος, si muove nel pensiero verbale, nel sentito dire, in ciò che legge. In riferimento ai tre elementi ciò significa: l’esserci in quanto “essere nel mondo” è sempre un essere in un contesto già noto, già interpretato così e così – l’esserci è già concepito in questo e quel modo. Noi siamo immersi, da quando nasciamo, in un essere già tutto interpretato. Non usciamo da questa cosa: tutto ciò che pensiamo, che costruiamo, che inventiamo, ecc., sorge da lì, da ciò che è già interpretato. Quindi, tutto ciò che pensiamo, inventiamo, ecc., ovviamente non potrà che procedere da questo, nel senso che è proprio lì che trova il proprio humus, il proprio terreno. Quando di viene al mondo si cresce radicati in una determinata tradizione del parlare, del vedere e dell’interpretare. Nascendo, in un certo qual modo, siamo già interpretati. L’“essere nel mondo” è un “avere il mondo già così e così”. Il fatto peculiare che il mondo in cui nasco e cresco “ci” è per me in quanto già interpretato in un modo determinato lo definisco terminologicamente pre-disponibilità. Il mondo “ci” è già così e così, e con esso anche il mio esserci… Anche io sono già così e così, cioè, già interpretato, già determinato. …in quel mondo che “ci” è già così e così. Mentre nell’avere a che fare con esso è già dominante e prioritario un determinato modo del rivolgersi al mondo in cui ci si prende cura di esso e se ne discute. Noi possiamo prenderci cura del mondo, ne discutiamo continuamente, sempre a partire da qualcosa che è già interpretato, da qualcosa che è già pensato. Ciò delimita una determinata possibilità del concepire, porre domande e problemi, il che significa che le prospettive in relazione alle quali ci si prende cura del mondo sono già date. Questo è importante perché non è soltanto il fatto che io dicendo sono già interpretato – teniamo sempre conto che tutto ciò avviene nel λόγος, nel dire – ma è un λόγος che arriva da migliaia di anni, che io mi porto appresso e che non posso in nessun modo eliminare, perché il mio essere già interpretato presuppone che questa interpretazione giunga a sua volta da altre interpretazioni che la precedono.

Intervento: Posso modificarlo…

Posso modificarlo, ma Heidegger ci avverte che questa modificazione che noi facciamo, la possiamo fare sempre partendo dal modo in cui pensiamo, che è un modo di pensare che viene da molto lontano. Un modo che, per farla breve, viene dai miti più antichi, che sono ancora presenti qui e adesso mentre parliamo e che ci orientano; non sono presenti così in astratto, sono presenti e ci orientano, decidono ciò che dobbiamo o non dobbiamo fare, ecc. Naturalmente, tutto questo non è avvertito e questo costituisce un problema, in alcuni casi un grossissimo problema, perché si dà per acquisito qualcosa che acquisito non è affatto. Un esempio molto banale: affermare che la vita è sacra. Tutti sanno che la vita è sacra, ma nessuno sa perché, ma è proprio per questo che funziona, proprio perché nessuno sa perché. Tutti sanno che la vita è sacra, che la vita di chiunque è sacra, ma perché? Chi l’ha detto? La vita è sacra a una condizione: che si ritenga appartenere a Dio, solo allora è sacra, ma se appartiene alla persona allora questa ne fa quello che vuole. Però, si tratta di intendere come funziona la cosa: un’affermazione che è praticamente universale come quella per cui la vita è sacra, nessuno sa perché ma funziona fortissimamente, nessuno osa metterla in discussione. L’ente che “ci” è già si pone in una determinata prospettiva – ogni vedere, ogni presa di posizione prospettica è determinata in senso concreto. Determinata dal pre-interpretato, da quella che lui chiama pre-disponibilità. Dell’ente, vale a dire del mondo e della vita, ci si prende cura sotto la guida di un determinato senso dell’essere:… Che è quello pre-determinato, pre-interpretato. Quindi, noi ci prendiamo cura del mondo e di noi a partire da questa pre-interpretazione, e non possiamo uscirne. Si tratta di cominciare – e questo in fondo è il messaggio di Heidegger – a tenerne conto e vedere cosa succede quando ne teniamo conto. … “essere prodotto”, “essere attualmente presente”, dove proprio questo senso dell’essere non ha bisogno di essere esplicito. Come l’esempio che facevo prima – la vita è sacra – non ha bisogno di essere esplicitato, è implicito comunque, tutti sanno che è così. Anzi, proprio l’essere implicito gli attribuisce una peculiare tenacia nella guida e nella conduzione della presa di posizione prospettica. È come se dicesse che deve essere implicito per potere funzionare. Volete che portiamo la cosa alle estreme conseguenze? Non dobbiamo sapere di che cosa parliamo per potere continuare a parlare. Non dobbiamo saperlo perché, per saperlo, dobbiamo fermarci mentre parliamo, e questo fermarci sarebbe ciò che consente di sapere quello che stiamo dicendo. In effetti, è illusorio perché ciò che sto dicendo si modifica e, quindi, non saprò mai quello che sto dicendo, ma questa è la condizione per continuare a parlare.

Intervento: È come le fantasie, che per potere operare non devono mai essere esplicitate.

Una fantasia è l’idea che si ha delle cose. Intendere qual è l’idea che si ha delle cose e intendere che questa idea non è il corrispettivo della cosa è una cosa straordinariamente difficile. Questa idea in fondo è una rappresentazione, di qualunque cosa io ho una rappresentazione, non ho accesso alla cosa; il mio accesso è alla rappresentazione, rappresento continuamente. Per potere vedere Cesare, che è qui di fronte a me, io devo rappresentarlo, devo cioè costruire un discorso che diventa Cesare, come dire che Cesare è quel discorso lì. È una rappresentazione di che cosa? Che cosa rendo presente? L’unica cosa che rendo presente è il discorso che mi consente di parlare di Cesare. Ora, ciò che, in questi termini, si ha già in anticipo (già interpretato) – il mondo e la vita, e, nel contempo, ciò che è già posto in questa determinata previsione ed è spiegato sotto la sua guida – viene al tempo stesso mediamente e per lo più espresso in parole – άποφαίνεσθαι –, “mostrato”, articolato. Sotto la guida della prospettiva (del già interpretato) l’aspetto viene poi spiegato in modo più preciso, nella misura in cui domina l’appello alla comprensibilità, cioè finché a essere prioritaria è una determinata idea di dimostrazione e di dimostrabilità. In che modo viene spiegato? In base alla chiacchiera corrente, a ciò che in un certo periodo storico si ritiene vero. Se torniamo con il pensiero ai secoli XVI e XVII sappiamo che erano le discipline matematiche a guidare la modalità specifica del concettuale, l’appello al rigore scientifico. Abbiamo già visto in parte perché questo: viene dallo strapotere della logica, così come è stata costruita nel Basso Medioevo dopo Anselmo. La logica è ciò che ha fornito la possibilità alla scienza di diventare quella che è diventata. Determinate possibilità del concepire possono assumere il potere, mentre tutte le altre devono adattarsi alle concezioni dominanti. Proprio come nel XIX secolo la tendenza era: poiché le scienze naturali sono le scienze rigorose, anche nella scienza storica ciò che importa è procedere esattamente nel oro stesso modo. Come in tutti questi casi, si trattava di un fraintendimento. Definisco pre-cognizione la comprensibilità dominante, che implica l’espressione verbale in quanto articolazione. La pre-cognizione: io so già delle cose perché sono la chiacchiera dominante. È questo che io so: quello che domina nella chiacchiera, il dire comune. Questi tre elementi costituiscono di per sé una costellazione di disponibilità, visione e cognizione. Sono tutto, praticamente. Tutto ciò che io posso pensare, quindi concettualizzare, viene da lì, dalle cose che si credono, che si pensano, leggermente modificate a seconda della moda dell’epoca, ma vengono da lontano e non si possono mai abbandonare queste antiche posizioni, questi miti. D’altra parte, se ci si pensa, il modo in cui comunemente viene oggi pensata la scienza è un mito, né più né meno, cioè, questa fede assoluta e cieca in qualche cosa che si ignora totalmente. Nella loro unitarietà questi tre elementi caratterizzano ciò che definisco l’“essere già interpretato” dell’esserci, l’essere trasparente. L’essere già interpretato è ciò che si pensa comunemente, è questo che fornisce l’interpretazione di base, quella secondo la quale ci muoviamo, pensiamo, decidiamo qualunque cosa. Aggiunge poi una riflessione intorno al λόγος. Il λόγος in quanto possibilità di errore e simulazione. Il dominio dell’“essere già interpretato” lo ha il λόγος, che è l’autentico portatore dell’essere già interpretato – il λόγος in quanto dominio dell’essere già interpretato. Vedete come insiste su questo aspetto, e a ragione perché noi viviamo da sempre nell’essere già interpretato. Ora, se è in tale λόγος che si svolge il concettuale, allora è proprio esso che, nel contempo – nell’esserci così come lo abbiamo caratterizzato –, costituisce la possibilità dell’errore. Ciò che vediamo e di cui facciamo esperienza “ci” è per lo più in quanto espresso in parole, nell’espressione verbale esso viene comunicato agli altri ed entra in circolazione in virtù di tale comunicazione: ciò che è ripetuto verbalmente. In questo spargersi di voce, nella chiacchiera, il verbalmente espresso perde a poco a poco il suo terreno. Mano a mano che la chiacchiera avanza, il senso di ciò che si dice svanisce, si dissolve, rimane soltanto qualcosa di vero, che io posso dire per cercare il consenso parlando in pubblico. Tra l’altro è questo il motivo per cui si parla: per potere esibire un sapere, per potere quindi esibirsi, cioè, mostrarsi più bravi, più informati, ecc. L’espressione verbale implica la possibilità della simulazione in senso letterale. Già il comunicare è in un certo senso un fuorviare, benché in modo implicito e involontario. Io racconto e dico qualcosa, ma questo qualcosa che dico non si riferisce alla cosa in quanto tale, è soltanto chiacchiera. In questo senso è fuorviante, è inesorabilmente e inevitabilmente fuorviante. Se io voglio dire come stanno le cose, tutto ciò che dirò sarà necessariamente fuorviante. Se tale fuorviare viene perpetrato intenzionalmente si dà la possibilità dell’inganno e dell’essere ingannati – dominio del falso, dello ψεῦδός. Da questo punto di vista possiamo cogliere anche il nesso tra λόγος (discorso) e εἶδος (immagine). Eἶδος: aspetto, così com’è. Λόγος: ciò a cui ci si rivolge, il rivolgersi-a, l’appello. Nella misura in cui il λόγος è ciò che domina, e io in certo modo acquisto la mia conoscenza per sentito dire, in virtù di tale λόγος l’εἶδος perviene sì a una e-videnza, però nel come: appare come se fosse… ma non lo è; qualcosa appare come oro, ma non lo è – qualcosa che viene scambiato per oro: la parvenza, l’εἶδος, come aspetto nel senso dell’“averne solo l’aspetto”. Qui fa un’annotazione importante. Tutto ciò non si riferisce soltanto alla vita di tutti i giorni e all’esserci con cui si ha quotidianamente a che fare, ma riguarda proprio – e in misura assai più precisa – quell’interpretazione dell’esserci che viene concepita come compito esplicito dell’esserci stesso, l’indagine e la filosofia. L’indagine, la concettualità, si svolge tutta in questo modo: è un come se… È come se si dicesse: se le cose fossero così come dico io, allora potrebbe accadere quest’altro. Se le cose fossero così: in genere non si dice così, ma si dice “le cose stanno così, quindi, succederà quest’altro”. Invece, Heidegger ci suggerisce di riflettere bene sulla questione. In effetti, tutto ciò che io credo essere la realtà, l’essere uno stato di cose, è ciò che mi sembra che sia. Non lo è ma mi sembra, ma poiché sono mosso dalla volontà di potenza allora ciò che mi sembra diventa ciò che è. Finché dico “mi sembra”, questa cosa ha poco potere; se, invece, dico che “è così” – magari battendo i pugni sul tavolo –, ecco che allora diventa la realtà. Può accadere che determinati λόγοι, una volta enunciati, assumano, proprio in epoche in cui le indagini sono giovani e vive, un predominio tale da rendere per lungo tempo inaccessibile l’ente a cui si riferiscono. Un dominio siffatto nell’interpretazione dell’esserci ce l’ha il λόγος di Parmenide, secondo cui “l’ente è uno”, ἒν τό ὅν. Questo λόγος costituì anche un impulso positivo a porre in senso autentico la questione dell’essere, nonché a risolverla entro i limiti delle possibilità greche. Come dire che in certi casi, all’inizio, quando si pongono determinate posizioni ben precise, accade che queste posizioni diventino dominanti su tutto e ci si dimentichi poi ciò da cui sono partite. Quanto fosse acuta la comprensione aristotelica del dominio del λόγος appare nell’Etica Nicomachea (H 14): κληρονομία όνόματος, l’“eredità della parola”, del significato verbale… Qual è l’eredità della parola? Lo dicevamo prima: la parola si porta appresso millenni, una quantità infinita di cose, per lo più ignorate. Ma se possiamo parlare è grazie anche a questa eredità. …il fatto che questa κληρονομία όνόματος, nello specifico della parola ήδονή, fu assunta precocemente da una determinata interpretazione dell’esserci…. Quella particolare situazione che è in assoluto la più ovvia, il piacere sensibile, il godimento, questo sentirsi-situati, interpretato nell’orizzonte della situazione media della moltitudine assunse l’eredità della parola ήδονή. Si è formata così. Non è detto che la parola ήδονή significhi in origine ciò che essa dice bell’interpretazione dell’esserci della maggioranza: il quotidiano si impadronisce dell’interpretazione. Il quotidiano, la chiacchiera, si impadronisce della interpretazione, non può d’altra parte che impadronirsi di questo. In effetti, per continuare a parlare non serve sapere, per esempio, nello specifico qual è l’etimologia di ήδονή, da dove viene esattamente questa parola: primo, perché stabilire l’origine di una parola è straordinariamente difficile; secondo, perché posso parlare tranquillamente senza avere una qualche idea circa il da dove viene la parola ήδονή. Qualunque cosa è sufficiente che sia utilizzabile, che io la sappia utilizzare. Cosa significa imparare a parlare? Sapere utilizzare dei termini più o meno nel modo giusto, nel modo in cui altri lo fanno. Ci sono delle cose che, in effetti, sono difficili da stabilire. Possiamo fare un altro esempio: l’uso del congiuntivo in una ipotetica. Il non uso del congiuntivo in una ipotetica è considerato un grave errore. Se, per esempio, uso l’indicativo imperfetto al posto del congiuntivo piuccheperfetto, cioè, se dico: “se andavo era meglio” anziché “se fossi andato sarebbe stato meglio” questo è un errore. Intanto, questa cosa non compromette la comunicazione, la comunicazione è salva. Infatti, se io dico “se andavo era meglio” l’interlocutore capisce benissimo cosa sto dicendo, però la grammatica vuole che si usi il congiuntivo piuccheperfetto. Perché? Subito sorge qualcuno a dire che in latino era così, i latini usavano questa forma “se fossi andato”, si ivissem e non si ibam, l’indicativo imperfetto. Certo, è così, lo sappiamo, ma perché i latini usavano questa forma? Chi glielo ha detto? È un’eredità del proto latino sicuramente, si potrebbe dire. Lo usavano loro? Se sì perché? Oppure, se lo sono inventati? Se se lo sono inventati avranno avuto i loro buoni motivi. Quali? Il proto latino è grosso modo come il latino, quindi, bisogna andare più indietro. Chi c’era prima del proto latino? I popoli dell’Italia centrale, i Volsci, gli Osci, i Sabini etc. Loro usavano già questa forma? Se sì perché? Il problema è che mano a mano che si retrocede le informazioni e le notizie diradano fino a scomparire del tutto.

Intervento: Potrebbe anche essere il modo in cui si forma la chiacchiera.

Sì, certo. Sono cose che si tramandano. Nessuno sa che cosa sono, però si tramandano, perché i nonni facevano così e i nonni erano saggi: questa in genere è la spiegazione scientifica. Magari erano anche saggi, però non risponde propriamente alla domanda. A pag. 305. Dobbiamo fornire ancora qualche breve chiarimento circa la possibilità in senso positivo. L’esserci si muove all’interno di un “essere già interpretato” dominante, che Aristotele designa come ύπολήψεις (supposizione, ipotesi): la vita, l’essere l’uno con l’altro, “suppone”, e precisamente in riferimento a determinati stati di fatto fondamentali, ha cioè determinate “ipotesi”. Le ύπολήψεις sono dati primari dell’interpretazione dell’esserci, ed è il loro inteso che va fatto oggetto d’indagine. Si usano spesso le ipotesi. Un’ipotesi non è niente finché non viene verificata, ma si utilizzano ipotesi che non solo non vengono verificate ma che non possono essere verificate. Il caso più macroscopico è l’induzione, che è un’ipotesi che non può essere verificata. Non può essere verificata nel senso che la verifica dell’ipotesi prevede appunto il già interpretato, in quanto alla base dell’induzione c’è l’analogia, il si crede, il si pensa, il si suppone: è questo il suo fondamento. Quindi, può essere verificata solo sulla base della chiacchiera. Esse (ύπολήψεις) debbono essere liberate dalle incrostazioni con cui sono state ricoperte dalla chiacchiera e dalla discussione arbitraria. Se si impegna in un simile compito l’esserci non esercita più un’attività specificamente pratica, poiché il λόγος, in questo caso, fornisce una prestazione autonoma in quanto άποφαίνεσθαι: l’avere a che fare con il mondo e con la vita adesso non è più un agire, un trattare nel senso del prendersi cura pratico, bensì un trattare nel senso dell’esporre, un mettere in chiaro ciò che si evidenzia in ciò che è stato verbalmente espresso, a prescindere da ogni utilizzo concreto. Non si considerano più gli enti del mondo in senso pratico, per farne qualche cosa, ma si considera il λόγος, che diventa, come dice lui, autonomo, non è più per qualche cosa ma è per se stesso. Ora, noi sappiamo che non è esattamente così; d’altra parte, avrebbe potuto saperlo anche Heidegger. Il λόγος è sempre un λέγειν τί κατά τίνός, è sempre un dire qualcosa in vista di altro; quindi, il λόγος non può mai essere per se stesso, se io lo considero è in vista di una riflessione, di un pensiero intorno al λόγος in quanto tale, è questo il suo κατά τίνός, il suo in vista di altro, per esempio, l’essere in vista di una comprensione. Se il λόγος non è più μετά (per qualcosa) per la πρᾶξις, per che cosa mai, allora, è μετά? Se adesso la πρᾶξις viene abbandonata, e se il λόγος diventa autonomo, ci si può chiedere: a che cosa si riferisce il μετά? A che cosa è indirizzato il linguaggio? Non è che adesso il λόγος non sia più μετά, dato che la prestazione del λόγος è l’άποφαίνεσθαι: anche qui, nella sua funzione pura, esso è riferito al “porre in evidenza” in quanto modo di attuazione del rivolgere lo sguardo in quanto tale. Comunque c’è μετά anche nel λόγος, c’è un essere per qualche cosa, un essere verso qualcosa. Abbiamo ora il διανοεῖσθαι (credere, supporre), l’έπιστήμη μετά λόγου (un sapere nel linguaggio). Autonomia del λόγος significa: esso è μετά per il νοεῖν e il διανοεῖσθαι. Il λόγος è per il pensiero e per il credere, per il supporre. L’“opinare”, il “percepire” sono caratteri che determinano con maggiore precisione l’“essere nel mondo” in riferimento all’essere orientato. Aristotele, De anima Γ4. L’“opinare” è l’autentica possibilità di essere dell’“essere nel mondo”,…Qui è ancora più preciso: l’opinare è l’unico modo di essere nel mondo. …sia dell’“avere dimestichezza con…” sia del φρονεῖν (pensiero attento), del “guardarsi intorno” con circospezione. Le due possibilità dell’essere orientato sono: 1. il mero “prendere conoscenza” senza alcun genere di scopo pratico… Che sappiamo essere impraticabile. 2. il guardarsi intorno con circospezione. Dunque: 1. l’essere orientato su qualcosa, 2. l’essere orientato per qualcosa. Sono orientato “su” qualcosa: è il dire. Sono orientato “per” qualcosa: è ciò che il dire dice. Nella misura in cui è una determinazione fondamentale dell’“essere nel mondo”, il νούς caratterizza l’essere dell’esserci in quanto essere orientato. Il pensiero è tale in quanto è sempre orientato, cioè, non esiste da solo, senza un orientamento, senza una direzione. È quello che diceva Platone, λέγειν τί κατά τίνός, un discorso su qualcosa in vista di altro. Il νούς, l’orientamento,… È interessante il fatto che traduca νούς con orientamento, mentre generalmente viene tradotto con pensiero. Il mio pensiero non è altro che un orientamento. È interessante porre la questione in questi termini: il mio pensiero è solo un orientamento, mi orienta, mi dà delle direzioni. Il νούς, l’orientamento, ha nell’esserci umano un proprio carattere: ό καλούμενος τῆς ψυχῆς νούς. Aristotele parla del “cosiddetto” νούς, mai del νούς in senso assoluto, ma di quello noto nella quotidianità, come se ne parla, e solo se ne può parlare, innanzitutto. Noi possiamo parlare del νούς, del pensiero, soltanto nel modo in cui se ne parla, in cui siamo abituati a parlarne, in cui ci hanno insegnato a parlarne, in cui abbiamo studiato e deciso di parlarne, tutto questo è ciò che ci orienta. Tutte le cose abbiamo imparate, che ci hanno dette, che abbiamo viste, che ci hanno insegnate, ecc., tutto questo orienta il nostro pensiero, il pensiero è fatto di tutte queste cose. Questo καλούμενος νούς, non il νούς autentico, è descritto come διανοεῖσθαι. Dobbiamo chiedere: come ci arriva Aristotele? Perché mai l’opinare, realizzandosi nell’esserci umano, è un διανοεῖσθαι? /…/ origine del διά (separazione), cioè del fatto che il νούς dell’uomo è un δια-νοεῖσθαι. “Il percepire e l’opinare son simili al semplice chiamare qualcosa”. Percepire qualcosa: vederlo lì presente d’un sol colpo. Opinare qualcosa: nominare, chiamare qualcosa per nome, nominare nel semplice avere-lì. Stretto rapporto tra parlare e vedere, αἴσθησις (percezione) e φάσις (dire) senza strutture ulteriori – il νοεῖν, che ha la struttura del semplice avere-lì. Il νοεῖν, il pensare, è la struttura del semplice avere-lì; senza sapere di fatto di che cosa si tratti propriamente, però ce l’ha lì. Cosa ha lì? Ha lì ciò che è già stato interpretato, è questo che abbiamo sempre lì a disposizione, ed è per questo che continuiamo a utilizzarli, perché sono degli utilizzabili. Ce li hanno forniti a piene mani, nel corso della vita, attraverso la chiacchiera, le letture, ecc., una quantità enorme di utilizzabili e che noi continuiamo a utilizzare, senza sapere di fatto che cosa sono. Com’è che questo opinare è un δια-νοεῖσθαι? Lo è nella misura in cui il νούς è νούς τῆς ψυχῆςψυχή,… È un pensiero dell’umano, dell’uomo … che costituisce l’autentico “essere nel mondo”. Qui ψυχή non è ovviamente la psiche ma l’autentico essere nel mondo, quindi, immerso in tutte le cose. Faceva l’esempio di uno che può leggersi il giornale: è in questo senso che la ψυχή è l’essere nel mondo, poterlo utilizzare, quindi, saperlo utilizzare. Lo ζῆν, la ζωή viene da Aristotele identificata con la ήδονή, il sentirsi-situati. La vita non è nient’altro che sentirsi situati, cioè, essere soddisfatti o insoddisfatti: se le cose vanno come voglio io sono soddisfatto; non vanno come voglio io sono insoddisfatto. Secondo Aristotele questa è la vita, si vive così. Ogni trovarsi è un sentirsi-situati presso e relativamente a uno ήδύ (piacere) e a un λυπηρόν (dispiacere), in breve: συμφέρον (utilizzabile). Ci si sente situati sempre e relativamente a qualcosa di utilizzabile: è questo che mi rende situato, che mi dice se sono soddisfatto oppure no. Per essere soddisfatto occorre un qualche cosa, che può anche essere una persona, che è utilizzabile, si comporti in un certo modo. Il sentirsi-situati, ήδονή, implica le due possibilità della διωξις e della φυγή, “dirigersi verso” il συμφέρον e “fuggire” da esso. Se sono soddisfatto vado verso una cosa; se sono insoddisfatto la fuggo. Il mondo, che si fa incontro primariamente per la situatività della gioia e dell’afflizione, “ci” è in quanto utile o nocivo… Il mondo c’è in quanto è utile o nocivo, cioè, mi serve o non mi serve. …essendo αίσθάνεσθαι caratterizzato in quanto “percepire” nella situatività… La percezione è sempre una percezione della mia situatività: questa cosa mi è utile o non mi è utile. Ma la cosa interessante che lui sottolinea è “ci è in quanto utile”. Le cose del mondo, gli enti, non si danno in un altro modo: o sono utilizzabili o non sono. Il semplice nominare non è il modo in cui si compie il percepire medio e quotidiano: il percepire inteso come modo della situatività è un percepire qualcosa in quanto qualcosa – il “rivolgersi a” non è un semplice nominare, ma un rivolgersi a qualcosa in quanto qualcosa, κατά (verso) e άπό (qualcosa). Ogni λόγος è caratterizzato dal κατά e dall’άπό, il che significa: ogni λόγος è σύνθεσις o διαίρεσιςOgni λόγος è un mettere insieme le cose oppure separarle, essere pro o contro, come diceva prima, affermare e negare, potremmo dire. …ogni λέγειν è λέγειν τί κατά τίνός. /…/ Il διανοεῖσθαι in quanto λέγειν τί κατά τίνός può essere attuato in modo tale da divenire – conformemente a ciò che è stato fatto presente in senso proprio ed è stato posto nella giusta prospettiva – un λέγειν καθαύτό (un discorso per sé), facendone scaturire così quel particolare λόγος che ci offre non nascosto l’ente nel suo essere, il concetto. Com’è che si coglie nella giusta prospettiva? Ha indicato la via: occorre occuparsi del λόγος, ma non in senso pratico del λόγος πρακτική ma del λόγος καθαύτό, del λόγος in se stesso potremmo riprendere quel famoso detto di Nietzsche: devi diventare ciò che sei! Ma che cosa sei? Sei linguaggio, quindi devi diventare linguaggio: questo è l’obiettivo. Ora, tutte queste posizioni che ha individuato sono quelle posizioni che indicano la continua relazione… Il λέγειν τί κατά τίνός mostra in atto la relazione, che qualcosa è in relazione ad altro. La struttura del nostro ragionamento è questa: il concettuale, il λόγος, è implicito nell’esserci stesso in quanto possibile “contro” e “per”. È in un certo qual modo la dialettica hegeliana. Intendiamo appurare in che senso la formazione del concetto di κίνησις (movimento) si compie in quanto coglimento radicale dell’“essere già interpretato” dell’esserci in base a questi tre momenti. Adesso ci occupiamo del movimento in quanto coglimento radicale dell’“essere già interpretato”, cioè, che cosa c’è in questo essere già interpretato che può dirci qualcosa del movimento, perché sempre da lì partiamo. E, in effetti, le pagine che seguiranno saranno la lettura di Heidegger sulla Fisica di Aristotele. Ad Aristotele non interessa la calcolabilità del movimento, la sua matematizzabilità, a lui interessano le condizioni di pensabilità del movimento. Questa parte ha come titolo Interpretazione della formazione del concetto di κίνησις in quanto coglimento radicale dell’“essere già interpretato” dell’esserci. Si parte sempre dall’“essere già interpretato”, da lì non si sfugge, non c’è uscita. Che è esattamente ciò che diceva la dea Aλήθεια rispetto alla chiacchiera.