M. Heidegger, Essere e Tempo
28 giugno 2017
Siamo al § 37, L’equivoco, pag. 212. Se ciò che si incontra nell’essere-assieme quotidiano è tale da risultare accessibile a tutti e siffatto che chiunque può dire qualunque cosa su di esso, presto non sarà più possibile decidere che cosa è stato dischiuso in una comprensione genuina e che cosa no. Questo sarebbe il vivere nella chiacchiera e a un certo punto, dice, sembra che ogni cosa sia accessibile a tutti, che tutti sappiano tutto, e questa convinzione si radica sempre di più perché, come diceva nelle pagine precedenti, la chiacchiera non soltanto dà sicurezza ma è anche acquietante, è come se trascinasse in un gorgo in cui ci si ritrova insieme con tutti, tutti che pesano la stessa cosa, quindi, non è più possibile distinguere una comprensione genuina. La comprensione genuina è quella comprensione che non si ferma alla chiacchiera ma domanda intorno a ciò che è da pensare. La chiacchiera non domanda, la chiacchiera accoglie, recepisce, fa proprio, ma non interroga nulla. Questa equivocità non investe soltanto il mondo, ma anche l‘essere-assieme come tale e il rapportarsi stesso dell’Esserci al proprio essere. Come che ciascuno finisce per pensare, rispetto a sé, allo stesso modo, cioè, attraverso il Si: si pensa, si fa, ecc. Perde, cioè, la sua autenticità, non è più un qualcuno che pensa ma è semplicemente qualcuno che ripete ciò che altri a loro volta ripetono. Tutto sembra genuinamente compreso, afferrato ed espresso, ma in realtà non lo è; oppure non sembra tale ma in fondo lo è. L’equivoco non riguarda soltanto la disposizione e l’impiego dell’utilizzabile che si incontra nell’uso e nella fruizione, ma si è già inserito saldamente anche nella comprensione come poter-essere, nella modalità del progetto e nella predisposizione delle possibilità dell’Esserci. Questo modo di porsi, dice Heidegger, è talmente invasivo che a un certo punto coinvolge totalmente l’Esserci, cioè la persona, al punto che vede come sue possibilità, il suo progetto, unicamente il Si mentre tutto il resto scompare. Non soltanto ognuno sa e discute di qualsiasi cosa sussista o gli capiti, ma ognuno sa già parlare con competenza di ciò che deve ancora accadere, di ciò che ancora non è ma dovrebbe “propriamente” essere fatto. Ognuno ha già sempre presentito e fiutato ciò che gli altri hanno presentito e fiutato. Questo esser-sulla-traccia, ma per sentito dire (chi è effettivamente “sulla traccia” di qualcosa non ne parla), è il modo più subdolo in cui l’equivoco può presentare all’Esserci le sue possibilità, perché le vanifica fin dall’inizio. (pagg. 212-213) È come se fosse sempre in attesa di qualcosa che accada, che si sa già che accadrà perché deve accadere. Per esempio, è molto frequente nel discorso paranoico il sapere già come andranno le cose: io so già che accadrà questo. Ne è sicuro, è una certezza e, quindi, è già lì, è già in ciò che deve accadere, senza ovviamente domandarsi alcunché circa quello che sta facendo, perché ciò che specifica la chiacchiera è il non domandarsi mai che cosa si sta facendo. Se un giorno ciò che si presentiva e si fiutava si realizzasse, l’equivoco avrà già fatto in modo che venga meno l’interesse per la cosa di cui si tratta. Infatti l’interesse ha luogo solo sotto forma di curiosità e di chiacchiera, e non dura più di quanto duri il superficiale presentimento comune. Anche questo è interessante perché ci fa riflettere sulla questione del potere. Dicevo prima di questa fantasia che dice “io so come andranno le cose”. Questa fantasia consente alla persona di immaginare di avere un potere sulle cose. Ma se, dice Heidegger, questa cosa, che io fiutavo, dovesse per caso accadere, allora questa cosa è accaduta, non ho più da esibire il mio sapere su ciò che deve accadere, è accaduta, quindi, non interessa più. Chiacchiera e curiosità perdono allora ogni forza. … La chiacchiera è addirittura stizzita se ciò che essa presentì e costantemente sollecitò diviene a un tratto reale. È come se togliesse il potere, il potere di dire quello che sarà, che succederà. L’equivocità che caratterizza lo stato interpretativo pubblico accredita il parlare-prima e il presentimento curioso come l’autentica realtà, screditando l‘esecuzione e l’azione come qualcosa di secondario e privo di interesse. Questo echeggia ciò che in qualche modo diceva nelle pagine precedenti, e cioè che ciò che importa in una discussione, in un discorso qualunque, non è il ciò di cui si tratta ma è il discorso stesso, perché attraverso il discorso stesso che io posso imporre il mio potere, non attraverso la cosa. È per questo che c’è una grande attenzione al discorso e tutto si rivolge lì. Sono le parole, attraverso cui io dico la cosa, che importano, la cosa è soltanto l’esca per costruire un discorso che deve persuadere, la cosa è irrilevante. La comprensione dell’Esserci fondata nel Si si inganna quindi costantemente quando si tratta di progettare le proprie possibilità di essere genuine. Si inganna perché immagina che il proprio progetto sia quello di dominare, che sia quello il progetto autentico, quello di controllare le cose. A pag 216. La chiacchiera apre all’Esserci la comprensione dell’essere-per il suo mondo, per gli altri e per se stesso… Tenete conto che per Heidegger la chiacchiera non è negativa, è ciò da cui parte tutto. È prendendo le distanze dalla chiacchiera che è possibile un progetto autentico. Il progetto autentico non nasce indipendentemente dalla chiacchiera, non nasce da solo, c’è innanzitutto la chiacchiera, l’opinione, la doxa, avrebbe detto Husserl, è dalla doxa, dalle opinioni, da ciò che le persone pensano, credono, che si parte. Per esempio, che noi siamo in questa stanza è un’opinione, non è una certezza assoluta. Come posso dimostrarlo? Come posso avere una certezza assoluta che sia così, che noi siamo qui e adesso in questa stanza? Posso, sì, fare dei riferimenti ma non ho la certezza, non ce l’ho mai la certezza assoluta che le cose siano esattamente così. Quindi, l’affermare che noi siamo qui e adesso in questa stanza è un’opinione, che è utile per tante cose ma è ciò che accogliamo, come diceva Husserl, necessariamente per potere fare una qualunque cosa, dobbiamo basarci su ciò che abbiamo a disposizione e ciò che abbiamo a disposizione è ciò che abbiamo imparato, è ciò che ci serve per muoverci qui in un certo modo e ci serve, eventualmente, per incominciare a pensare. Senza questa chiacchiera, però, non c’è neanche la possibilità di incominciare a pensare. È per questo che Heidegger non la denigra ma la considera un passaggio inevitabile. La curiosità apre tutto e qualsiasi cosa, ma in modo tale che l’in-essere è ovunque e in nessun luogo. Quando parla la chiacchiera parla di qualunque cosa, in qualunque modo, non ha importanza, non c’è nulla di preciso, di determinato, di pensato, non c’è ancora niente di pensato nella chiacchiera. L’equivoco non nasconde nulla alla comprensione dell’Esserci, ma soltanto per precipitare l’essere-nel-mondo nello sradicamento dell’”ovunque e in nessun luogo”. Ovunque e in nessun luogo, è lì che abita la chiacchiera. Noi diciamo di essere qui, in questo momento, in questa stanza. Abbiamo dei motivi fondanti per affermare una cosa del genere? Possiamo stabilirlo con certezza? No. Quindi, ciò che pensiamo del fatto di essere qui è fondato su niente. Qui, ovunque e in nessun luogo, perché non posso delimitarlo, non posso costruire un’argomentazione che mi certifichi che qui è proprio qui. Quindi, sono preso in questo giro, in questo gorgo, in questo vortice, che mi è indispensabile per muovermi. È un po' come il discorso che faceva Husserl rispetto allo scienziato e al suo laboratorio. Fa delle cose che sembrano importantissime, però, il fatto di sapere muoversi in un certo modo, prendere una certa cosa, sapere che quella cosa serve a quest’altra, sapere che lui è lì e che deve muoversi bene altrimenti butta giù tutti gli alambicchi, ecc., tutte queste cose dove le ha sapute, come le sa? Non sono cose dimostrabili né provabili scientificamente, non è certo la scienza che gliele insegna, le ha imparate e le ha imparate parlando. Sta qui, come dicevamo, la pre-comprensione, e cioè le ha imparate perché, imparando a parlare, ha acquisito una serie di informazioni che non sono né certificabili né dimostrabili ma servono unicamente per continuare a parlare. A pag. 217. La chiacchiera è lo stesso modo di essere dell’essere-assieme e non è il prodotto di particolari circostanze che, “dal di fuori”, influirebbero sull’Esserci. La chiacchiera è il modo di stare insieme delle persone, non è che questa cosa venga dal di fuori; la chiacchiera è il modo stesso di stare nel mondo, è il modo in cui ciascuno sta nel mondo. Ma se è l’Esserci stesso che nella chiacchiera e nello stato interpretativo pubblico offre a se stesso l’impossibilità di perdersi nel Si, di cadere deiettivamente nell’infondatezza, vuol dire che è l’Esserci stesso a preparare a se stesso la tentazione costante della deiezione. L’essere-nel-mondo è in se stesso tentatore. È ciò che dicevo prima, cioè, il fatto che l’essere nel mondo è la deiezione, la infondatezza, perché io sono nel mondo nella chiacchiera, nell’opinione, nella doxa, non c’è assolutamente nulla di certo da cui si parte, la certezza arriva dopo. Per esempio, nella scienza la certezza arriva dopo, nel metodo tradizionale attraverso il calcolo, ma questa certezza è fondata su che cosa? Sulla chiacchiera, sulla doxa, su niente. Da qui la deiezione, la dimenticanza dell’essere, come qualcosa di inevitabile. Nella chiacchiera è ovvio che c’è la dimenticanza dell’essere perché non c’è un pensiero che pensa, tutto è ovvio, scontato. La scontatezza è il principio fondamentale della chiacchiera, tutto è ovvio, tutti sanno tutto, non succede nulla che non sia già previsto, che tutti sappiano; in realtà non sanno nulla e non sanno nulla perché riguardo a questo non c’è nessun pensiero. E questa è anche, in parte, l’accusa di Heidegger nei confronti della filosofia, cioè, di non avere pensato cosa c’era da pensare, e cioè che l’ente non è l’essere. In questo suo esser-già tentazione a se stesso, lo stato interpretativo pubblico mantiene l’Esserci nella sua deiettività. La tentazione è quella, ne parlava prima, della tranquillità, della sicurezza, della quietezza. È questo che tenta: tutto in quiete, tutti sanno tutto, anche se nessuno sa niente, però, in questo stato c’è una sorta di quiete tranquilla che attrae. Chiacchiera ed equivoco, l’aver tutto visto e tutto compreso, creano nell’Esserci la presunzione che l’apertura dell’Esserci così disponibile e dominante sia tale da garantire la certezza, la purezza e la pienezza delle possibilità del suo essere. Dice qui che l’Esserci si inganna. La chiacchiera fa questo, cioè, dà all’Esserci la presunzione che ogni apertura che incontra sia tale da garantire la certezza, perché tutti sanno già tutto. La certezza è già lì, tutto ciò che accade è una certezza, sempre perché non c’è pensiero pensante. La sicurezza di sé e la disinvoltura del Si diffondono un’indifferenza crescente verso la comprensione emotiva autentica. La presunzione del Sidi condurre una “vita” piena e genuina crea nell’Esserci uno stato di tranquillità: tutto va “nel modo migliore” e tutte le porte sono aperte. L’essere-nel-mondo deiettivo è verso se stesso tentatore e, nel contempo, tranquillizzate. Questo essere nel mondo deiettivo, cioè, nel mondo della chiacchiera, è tranquillizzante perché si sa tutto. L’idea, ed è questo che tranquillizza, è di avere il dominio su tutto e questo tranquillizza, acquieta, dà tanta soddisfazione. La chiacchiera ha questa virtù, Heidegger non lo dice ma la virtù primaria su tutte è che la chiacchiera ci si illude, sapendo tutto, di avere il potere, il dominio su tutto. È per questo che è così attraente e così acquietante: controllo tutto, tutto è in mio potere, a condizione, direbbe Heidegger, di non pensare. L’essere-nel-mondo deiettivo, in quanto tentatore e tranquillizzante, è nello stesso tempo estraniante. Cioè, estrania dal pensiero, estrania l’Esserci dal suo progetto autentico, lo mantiene nella chiacchiera, nella deiezione, nella dimenticanza dell’essere, ma in senso heideggeriano, cioè, nella dimenticanza di ciò che è da pensare, perché per Heidegger l’essere è ciò che è da pensare, da pensare nel senso che mostrando qualche cosa costringe a interrogare questo qualche cosa, a metterlo di nuovo in gioco, in questione, cioè, a problematizzarlo. Ma, di nuovo, questa estraniazione non può significare che l’Esserci venga effettivamente strappato a se stesso. Al contrario, essa sospinge l’Esserci in modo di essere caratterizzato da un’”autoanalisi” eccessiva, secondo le più svariate possibilità interpretative, sicché le “caratteriologie” e le “tipologie” che ne risultano sono per ciò stesso illimitate. (pagg. 217-218) L’Esserci, in questa estraniazione, è come se venisse caratterizzato, lui dice, dall’autoanalisi, cioè, cerca delle ragioni, delle categorie, delle tipologie, in modo da poter inquadrare ogni cosa. Questa estraniazione dell’Esserci, cioè, questo prendere le distanze dal pensiero pensante, è ciò che gli umani, secondo Heidegger, avvertono, è qualcosa che crea difficoltà, angoscia, crea un problema. Perché? Il motivo è questo: di fronte all’autoanalisi, per cui mi do tutte le giustificazioni che voglio, tutte queste giustificazioni riescono a dominare la cosa? Oppure, mi trovo sempre di fronte a qualche cosa che non riesco controllare totalmente? Perché è questo il motivo per cui interviene questa sorta di angoscia, come la chiamerà dopo: l’angoscia segue all’eventualità di perdere il dominio, di perdere il controllo, tutte le spiegazioni che mi do non sono sufficienti, rimane qualche cosa, nel senso che qualunque cosa io possa dire ciò che dico richiede comunque una ulteriore giustificazione, un’ulteriore spiegazione. Se io voglio spiegare qualche cosa mi metto lì a spiegare questa cosa ma a che punto mi fermo in questa spiegazione? Questa spiegazione può andare avanti all’infinito. Tuttavia l’estraniazione che chiude all’Esserci la sua autenticità e la sua possibilità, fosse pur quella di un genuino fallimento, non lo condanna però a essere un ente che egli stesso non è, ma lo sospinge nella sua inautenticità, cioè in una possibilità di essere che gli è propria. L’inautenticità è una possibilità dell’Esserci che gli è assolutamente propria, anzi, quasi potremmo dire che è la più propria. L’inautenticità, la chiacchiera: cosa c’è di più facile? Lo diceva prima: la tranquillità, la quietezza, ecc. L’inautenticità è la primaria possibilità dell’Esserci, mentre l’uscire dalla inautenticità, cioè mettere in atto il pensiero pensante è sicuramente la cosa più complessa. Questi fenomeni della tentazione, della tranquillizzazione, della estraniazione e dell’auto-imprigionamento caratterizzano il modo di essere specifico della deiezione. Noi chiamiamo questa “modalità” dell’Esserci nel suo proprio essere caduta. L’Esserci cade da se stesso e in se stesso nella infondatezza e nella nullità della quotidianità inautentica. Lo stato interpretativo pubblico gli nasconde però questa caduta, che è interpretata come “ascesa” e “vita vissuta”. Abitando nella inautenticità l’Esserci, cioè la persona, si trova ad abitare nella infondatezza, nella nullità della quotidianità, però, dice lui, lo stato interpretativo pubblico, cioè quello che la gente pensa, gli nasconde questa caduta, perché tutti pensano così e, quindi, perché farmi dei problemi? Siccome tutti pensano così la mia vita è quella giusta e degna di essere vissuta. Qui ci sta illustrando il motivo per il quale la filosofia non ha mai considerato la differenza ontologica, cioè non si è mai fatta carico del problema dell’essere propriamente, e cioè del fatto che ciascuno è costantemente “nel” e “il” mondo che lo fa essere in quel momento. Questo non è tranquillizzante, nel senso che il mondo in cui mi trovo non è un mondo che è di tutti, anche se io sono sempre insieme agli altri, ma io sono con gli altri in quanto sono nel mio mondo e questo mio mondo non è propriamente condivisibile, perché è fatto del modo in cui io mi relaziono a ciascuna cosa che fa parte di questo mondo. Quindi, perché non è tranquillizzante? Non è tranquillizzante perché non lo posso condividere con gli altri, il mio mondo rimane il mio, con le mie relazioni, i miei pensieri, con le mie fantasie. Ma il Si dice, invece, che il mio mondo è il mondo di tutti, che il mio mondo è partecipato e che, quindi, c’è un qualcuno o un qualcosa che dice come stanno le cose. Di fatto, poi questo “qualcuno” è la metafisica, cioè l’idea che ci sia la certezza di qualche cosa fuori dalla parola, dal linguaggio o, come direbbe Heidegger, fuori dal mondo, e cioè che esista la semplice presenza, che sia possibile reperire e stabilire qualcosa fuori dal mondo, che sia ciò che è per virtù propria. Questa è la questione centrale, come sempre ed è il problema che Heidegger cerca di risolvere, il problema dell’Esserci che si ritrova preso nel mondo di cui è fatto e che cerca di trarre da questo mondo una propria esistenza, come se da questo mondo gli tornasse la sua stessa esistenza. E gli ritorna, in un certo senso ma gli ritorna come esistenza in quanto soggetto, in quanto qualcosa che è quello che è, ma in quanto preso nel progetto, preso nel mondo. Il tentativo è sempre quello, metafisico, di arrivare a un qualche cosa che è quello che è per virtù propria. Qui la questione, invece, è più complessa perché questo Esserci non è il soggetto, quindi, non è un qualche cosa di isolabile ma è il progetto, il progetto gettato. A pag. 219. La deiezione nel mondo varrebbe come “argomento” fenomenico contro l’esistenzialità dell’Esserci solo se quest’ultimo fosse concepito come un io-soggetto isolato, … L’idea che la deiezione nel mondo, cioè il trovarsi presi nella chiacchiera e che, quindi, a causa di questo la persona si possa costituire in qualche modo come soggetto. Dice Heidegger che questo potrebbe andare contro l’idea dell’esistenzialità dell’Esserci, e cioè il fatto che l’Esserci è un progetto, chiunque non è altri che un progetto. È un’obiezione che solo a lui poteva venire in mente: come se, perdendosi nel mondo, l’Esserci diventasse un’altra cosa, perdesse la sua esistenzialità, cioè l’essere un progetto gettato. Se non c’è pensiero pensante, se non c’è più o non c’è ancora la progettualità autentica ma c’è soltanto deiezione, l’Esserci diventa una cosa qualunque. M in tal caso il mondo diverrebbe un oggetto e la deiezione presso di esso sarebbe interpretata ontologicamente come semplice-presenza, sul modello dell’ente intramondano. L’Esserci diventerebbe una semplice presenza al pari di qualunque altra cosa, una cosa, un quid, anziché un progetto sempre in atto, sempre gettato, sempre progettante. Se teniamo invece fermo l’essere dell’Esserci secondo la costituzione già chiarita di essere-nel-mondo, si farà chiaro che la deiezione, in quanto modo di essere di questo in-essere, costituisce la prova più lampante a favore dell’esistenzialità dell’Esserci. Occorre tenere conto, dice lui, che l‘essere nel mondo è l’essere “in” questo mondo, cioè, l’Esserci non può darsi se non “in” questo mondo, non è possibile isolarlo. Diceva prima, come se questa deiezione lo mettesse fuori da questo in-essere nel mondo, perché fa parte della chiacchiera, del tutti sanno tutto. E, invece, no, questo non può accadere, dice Heidegger, perché l’Esserci continua ad essere ciò che è perché è nel mondo. Questo indipendentemente dalla deiezione, che è qualche cosa in cui sorge l’Esserci ma questo non significa che la deiezione possa avere il sopravvento sull’Esserci, cioè trasformarlo in un ente qualunque, perché questo, per Heidegger, comporterebbe la riuscita della metafisica, comporterebbe che l’essere non è più l’essere come progetto progettante ma una cosa qualunque, e secondo lui questo non deve accadere. L’Esserci può cadere nella deiezione solo perché, per esso, ne va dell’essere-nel-mondo comprendente ed emozionale. Com’è che l’Esserci può cadere nella deiezione? Perché per l’Esserci la cosa importante è il trovarsi nel mondo comprendente. Comprendente è da intendersi nel senso… Mettiamola così: a quali condizioni l’Esserci può cadere nella deiezione? Cosa vuole dire che per l’Esserci ne va dell’essere nel mondo comprendente ed emozionale? Qui c’è una questione perché, intanto dice che l’Esserci può cadere nella deiezione, quindi, la deiezione è un qualche cosa che è lì, che è presente. In effetti, lo diceva prima, è qualche cosa da cui l’Esserci stesso sorge, non può eliminare la deiezione, non può eliminare la chiacchiera, ma, dice, cade perché per l’Esserci ne va dell’essere nel mondo, cioè è sempre alla ricerca di essere nel mondo, quindi, di relazionarsi con le cose, di volere comprendere, di volere sapere, di volere che cosa, in definitiva? Di volere il controllo, il dominio. È questo che fa cadere l’Esserci nella deiezione, la necessità di volere controllare, dominare, comprendere, sapere. Siamo al Capitolo Sesto – La cura come essere dell’Esserci. Ecco, qui siamo di fronte a uno dei temi più cari a Heidegger, che è la cura, il prendersi cura. Il prendersi cura è una nozione molto interessante in Heidegger. Infatti, verrà poi ripresa da altri, da Binswanger, ecc. Di che cosa ci si “deve” prendere cura, nel momento in cui si abbandona la chiacchiera? Ciò di cui occorre prendersi cura è il linguaggio. Intendere il funzionamento del linguaggio, la sua struttura, è il modo con cui ci si “oppone” alla chiacchiera, cioè è il modo con cui si incomincia ad avviare il pensiero pensante, pensiero pensante che domanda, che cerca le condizioni per cui ciò che afferma la chiacchiera è affermabile. Che cosa le consente di affermare qualche cosa? Da dove arriva questa affermabilità? Arriva dal linguaggio. Quindi, il prendersi cura è incominciare a interrogare, attraverso questo pensiero pensante, un pensiero che pensa ciò che è da pensare e ciò che è da pensare sono le condizioni della pensabilità di qualunque cosa. Non è esattamente così che la pone Heidegger, poi lo vedremo, però, è forse il modo di porre la questione in termini più interessanti, anche più radicali. Se non ci si prende cura delle cose… ma prendersi cura delle cose non è il trattarle bene ma è il domandare a queste cose, la filosofia direbbe “che cosa sono?”, ma noi potremmo intenderla come “che cosa sono all’interno del linguaggio”, come si strutturano all’interno del linguaggio. Questo è il prendersi cura, tant’è che la stessa psicoanalisi, almeno una parte, ha mutuato questo termine “prendersi cura” come un prendersi cura delle parole, ma un prendersi cura delle parole, che tra l’altro è un termine piuttosto vago, che significa abbastanza poco, può essere inteso come un incominciare a pensare le parole che intervengono, pensarle, cioè, farsi carico di ciò che queste parole si portano appresso. Cosa si porta appresso una parola, a parte la sua storia, a parte la sua significatività? Si porta appresso, intanto, altre parole, fantasie, discorsi, racconti. Ogni parola che interviene è una miniera di informazioni, che io posso trarre se mi metto in ascolto, e cioè se lascio che questa parola possa essere pensata. Se non la penso, allora, è come se dicesse quello che deve dire e, ovviamente, siamo nella chiacchiera.
Intervento: È come se ogni parola fosse l’inizio di un nuovo racconto… Nel momento in cui si interroga inizia un nuovo racconto.
E il modo più proprio di interrogarle è cominciare a considerarle come parole, e cioè come elementi linguistici che intervengono all’interno di una relazione. Dicevo prima che la parola si porta appresso le fantasie ma si porta appresso soprattutto ciò di cui è fatta, e cioè relazioni, relazioni fra altre parole, con altri elementi linguistici. Quindi, il prendersi cura, nell’accezione di Heidegger, che abbiamo un po' modificata, è propriamente questo: pensare il linguaggio, pensare al suo funzionamento e alla sua struttura, cogliere ciò di cui una parola è fatta. Heidegger ci ha già indicato la direzione: la parola è fatta del mondo in cui io mi trovo costantemente, di tutte le relazioni che esistono in questo istante, di tutto ciò che mi ha costituito e che mi ha portato fino a qui in questo momento. La parola è tutte queste cose. Si tratta di pensare queste parole ma, soprattutto, di problematizzarle, intendere, come dicevo prima, tutto ciò che la parola si porta appresso e tenere conto che ciascuna parola interviene portandosi appresso tutto un bagaglio immenso di cose. Se io tengo conto di questo, cioè mi prendo cura della parola, allora mi trovo in una posizione singolare e anche interessante, incomincio a mettere in discussione il fatto che una certa cosa significhi questa certa altra, che le cose debbano essere in un certo modo oppure in un altro, che io mi trovi a credere certe cose, e cioè non do più per scontato tutto ciò che per Husserl era la doxa, cioè io so che so, nel senso che ho imparato, che tutto ciò che faccio, che dico e che penso procede da una serie infinita di cose che non hanno nessun fondamento, assolutamente nessuno. Eppure, come fa la scienza, da questa assenza totale di fondamento, costruisce una certezza assoluta, il che è singolare. Invece, mi trovo in questa situazione in cui non posso più non sapere che tutto ciò che penso, che faccio, che dico, non ha alcun fondamento, appoggia su niente, appoggia su cose che non sono fondabili, che ho imparato, certo, che fanno parte delle procedure linguistiche, ma che non hanno nessun fondamento fuori dal linguaggio, servono soltanto a far sì che il linguaggio possa continuare e proseguire. Non è una cosa semplicissima, mi rendo conto, tuttavia è fondamentale per intendere non tanto Heidegger, che ci serve per pensare meglio e in modo più affinato le questioni, ma è fondamentale per vivere, per muoversi, per esistere.
Intervento: per chiacchierare meglio…
Però, ci sono momenti in cui è possibile sospendere la chiacchiera e pensare a cosa si sta facendo mentre si chiacchiera. Sta qui la differenza, sta qui il senso dell’apertura. La chiacchiera è la chiusura, però, questo non ci impedisce, di tanto in tanto, di aprire la cosa e pensare a quello che accade mentre si chiacchiera. Pensare questo, cioè interrompere la chiacchiera, è ciò che consente di avere di fronte questa cosa, per cui tutto quello che dico è prodotto da questa cosa che chiamiamo linguaggio e non ha nessun altro riferimento. Tutto si gioca qui, adesso, ma questo adesso è un adesso storico e si porta appresso non soltanto la mia storia ma la storia dell’umanità, perché io sono il prodotto di tutte queste cose infinite che vanno avanti da migliaia di anni. E questo è essere nel mondo, cioè, questa cosa qui (il posacenere) è questa cosa perché ci sono stati tremila anni di storia e di pensiero e sono questi tremila anni di storia e di pensiero che mi consentono in questo istante di vedere questa cosa nel modo in cui la vedo. Questa è la storicità della cosa. Questa è una bella questione su cui riflettere. Heidegger non la pone proprio così, però, a me è piaciuta intenderla in questo modo, modo che sicuramente consente a me di aprire verso altre questioni in modo più interessante. A Heidegger è mancata la questione del linguaggio, anche se insiste sulla questione del linguaggio, però non l’ha mai portata alle estreme conseguenze. È per questo motivo che possiamo fare quello che facciamo oggi perché, leggendo Heidegger, è come se lo leggessimo insieme con la semiotica, la linguistica, la logica, la filosofia del linguaggio, la retorica e altre cose. È come se tutte queste cose fossero simultaneamente presenti, per cui le cose che Heidegger manca rispetto al linguaggio, per esempio, ci vengono dalla semiotica e in parte dalla linguistica. Certo, lui pone la questione del logos in modo interessante, come un aspetto dell’essere, il modo in cui l’essere, raccogliendosi, si manifesta. Però, che cosa “manca” in Heidegger? Il considerare questo, ciò che ho appena detto rispetto al logos, riferito a ciò stesso che sta dicendo. È sempre il passo fondamentale questo ed è anche un modo di procedere abbastanza rigoroso, e cioè applicare le conclusioni delle varie argomentazioni all’argomentazione stessa e vedere cosa succede, in modo da non perdersi nella chiacchiera, nel Si dice. Nel Si dice che uno può dire anche a se stesso: va bene così, perché funziona con quest’altra idea, e così è a posto. No, bisogna vedere un momento: se io applico le conclusioni di tutto quello che ho detto a tutto ciò che ho detto, tutto ciò che ho detto, tutte queste cose, valgono ancora o si butta all’aria tutto? C’è anche questa eventualità. È questo un aspetto del prendersi cura consente di approcciare ciascuna volta ogni argomentazione, ogni pensiero, in modo più autentico, autentico nel senso che non si rifà alla chiacchiera. Questo è l’autentico: ciò che non si rifà alla chiacchiera, ciò che cerca delle direzioni, delle aperture altrove rispetto alla chiacchiera.
Intervento: Tutto ciò è meno tranquillizzante…
Certo, perché non ha il conforto della doxa, dell’opinione pubblica, nella quale, peraltro, ciascuno “nasce”, non ha altro modo perché quando uno nasce incomincia a parlare, cioè ha delle informazioni che utilizza con le istruzioni che gli vengono fornite. Queste istruzioni che gli vengono fornite servono soltanto a fare funzionare il linguaggio e, nel momento in cui funziona, ecco che si avvia la volontà di potenza, cioè la necessità che quello che dico sia quello che dico e non altro, per potere da lì proseguire a parlare. Questo viene configurato dal linguaggio come la necessità di stabilire come stanno le cose per potere proseguire, stabilire che una cosa è quella che è, ma non è quella che è per virtù propria. Sta qui la differenza fondamentale, assoluta.