28-5-2003
Gli operatori deittici
A che punto siamo con l’elaborazione teorica? Dunque che cosa sappiamo del linguaggio fino ad oggi? Molte cose, intanto sappiamo che non si impara, che ciascuno è già da sempre nel linguaggio, non siamo stati noi ad avere avuto questa trovata, già Heidegger ne aveva parlato però l’abbiamo posta in termini precisi, logicamente precisi, cioè non come una intuizione ma come una deduzione, è diverso, sappiamo che l’unico scopo che ha il linguaggio è proseguire se stesso e cioè che gli umani in quanto discorsi fanno questo, proseguono a parlare, le modalità e le esche per proseguire a parlare sono quelle cose che comunemente si chiamano problemi, si chiamano emozioni, anche progetti sogni, intenzioni etc. vengono chiamati in vario modo ma l’obiettivo è quello di proseguire, costruire proposizioni, e sappiamo anche che per questo sistema operativo che chiamiamo linguaggio quali proposizioni si producano è assolutamente irrilevante, semplicemente queste proposizioni devono soddisfare due requisiti, essere coerenti con ciò che precede e concludere con la proposizione che il gioco che si sta facendo possa stabilire vero, nient’altro che questo, il discorso è soddisfatto e a questo punto prosegue. Questione non indifferente questa di affermare che il discorso prosegue costruendo proposizioni, che sono quelle proposizioni che fanno muovere gli umani attraverso appunto le emozioni, i progetti, le tragedie, qualunque cosa sia, sono nomi che si danno a delle proposizioni in base a delle regole del gioco particolari, dunque questo sappiamo per lo più, e cioè che gli umani non sono altro che discorsi, non solo ma anche questi pronomi così detti personali, non sono altro che indicatori, in definitiva degli shifters, operatori deittici, tutti sinonimi che hanno una funzione grammaticale e cioè quella di distinguere un discorso da un altro, se dico io, il mio discorso è diverso da suo, e facendo questa operazione cioè potendo distinguere il discorso “il mio” dal resto del mondo, costituisce questo la condizione o meglio la possibilità della creazione di quella che si chiama comunemente realtà, realtà delle cose. Il linguaggio ponendo questo operatore deittico noto come io consente di distinguere io da ciò che non è io e quindi il così detto mondo esterno, invece quello interno è quello dentro qua o fuori. A questo punto la possibilità della realtà c’è e il linguaggio naturalmente costruisce (…) la possibilità dunque di costruire queste proposizioni che parlano della realtà e le stabilisce come tali, come realtà cioè chiama realtà questa cosa. Come si può immaginare una cosa del genere? La realtà per definizione è ciò che è rivelata dai sensi, come si diceva una volta “cade sotto i sensi”, sì non c’è altro modo di definire la realtà cioè il mondo esterno se non come ciò che è percepito dai sensi, tutto, cinque o uno dei cinque, non ha importanza ora a questo punto possiamo dire che la realtà è ciò che io chiamo quel qualcosa che i sensi percepiscono, qualunque cosa sia, come dire che se X è percepita dai sensi allora X è la realtà, se c’è realtà ci sono i sensi, non c’è altro modo di definire la realtà, se non come ciò che cade sotto i sensi, il perceptum che prevede un percipiens ovviamente, come dire ancora che avviene quel fenomeno che io chiamo percezione, dopodiché ciò che è percepito lo chiamo realtà, ma questa è una decisione, in realtà non c’è nessun motivo se non una decisione perché io la chiami realtà, decido che è così, ciò che i miei sensi avvertono questo lo chiamo realtà, e cioè qualcosa che è necessariamente vero e che è altro da me, allora a questo punto sappiamo che la realtà non è nient’altro che ciò che i miei sensi percepiscono e che io decido di chiamare così “realtà” per distinguerla da che cosa? Da ciò che realtà non è, ovviamente e che cos’è che non è realtà? Prima di Freud tutto ciò che non era percepibile dai cinque sensi, dopo si è parlato di realtà psichica, però rimane il fatto che non è reale o è irreale ciò che non può essere percepito, allora oggi ci sono strumenti che una volta non avevano per esempio un film che si considera generalmente irreale, descrive fatti non reali cioè fatti che non sono accaduti o non sono accaduti in quel modo, perché il modo in cui sono effettivamente accaduti si considera la realtà, il modo in cui viene rappresentata si considera invece non realtà, quindi ciò che è veramente accaduto non è altro che ciò che è stato possibile percepire di un evento, la sua trasformazione ecco che modifica la realtà, però c’è sempre questo richiamo comunque a ciò che è avvenuto effettivamente cioè si è mostrato ai sensi, ma non basta, non basta perché occorrono delle regole perché la realtà sia tale, ché è un gioco particolare, abbiamo visto in varie circostanze, una delle regole fondamentali riguarda la possibilità di una percezione diretta dell’evento, dico la possibilità perché io per esempio non sono mai stato in Guatemala, però faccio come se esistesse realmente, realmente quando ne parlo se ne parlo e questa è una delle regole cioè la possibilità se lo volessi di prendere un aggeggio di quelli che volano, atterrare in Guatemala e dire ecco, questo è il Guatemala, mi guardo intorno ecco qua il Guatemala,…
Intervento: il sogno
Sì, del sogno abbiamo detto, certo, il sogno si distingue dalla realtà così come un film in vario modo ciascuno generalmente sa che ciò che ha sognato è qualcosa che ha sognato non lo confonde con la realtà, mentre durante il sogno immagina che lo sia quando invece è sveglio non può in nessun modo confondere le due cose, assolutamente distinte, (…) tecnicamente sì anche se mentre sogni questo non viene avvertito, apparentemente condiviso anche da altri i quali fanno parte di quella scena, no, avevamo detto che cosa distingue il sogno, è l’impossibilità di modificarlo, il sogno segue una sua via cioè non posso decidere di svegliarmi a meno che non metta la sveglia a una certa ora ma questo è un evento diverso ma non posso mentre sogno decidere di cessare di farlo, e il gioco che si gioca nel sogno ha regole differenti una fra queste appunto è l’impossibilità di svegliarsi cioè di cessare di sognare. È una questione fondamentale questa dei giochi linguistici perché ciascun gioco ha delle regole assolutamente differenti dalle altre e qualunque cosa può essere intesa intendendo quali sono le regole di quel gioco cioè quali sono le condizioni secondo le quali è possibile fare quel gioco, per esempio il sogno? Bene a quali condizioni posso parlare di un sogno, quali sono le condizioni? E ce ne sono ampiamente, così come per qualunque altra cosa…
Intervento: anche per il desiderio
È un gioco linguistico anche quello sì, così come la percezione, anche questa è un gioco linguistico, io percepisco in base a delle regole, stabilisco che se si verificano certe cose allora chiamo queste percezione, poiché anche la percezione non esula dall’essere all’interno di un gioco linguistico, di un sistema linguistico, se è all’interno del linguaggio allora è all’interno di un gioco linguistico, e quindi segue delle regole precise e non può essere altrimenti, tant’è che non possiamo affermare che i sensi per esempio siano fuori dal linguaggio, cioè che esistano di per sé, sarebbe complicato, poiché perché esista qualche cosa io devo percepirla per potere accorgermi della sua esistenza e quindi ho bisogno dei sensi ma questi sensi possono essere fuori dal linguaggio? Occorre che mi accorga di qualche cosa perché questa cosa abbia degli effetti e cioè significhi qualcosa per qualcuno, e se significa qualcosa per qualcuno allora è inserito in un sistema segnico quanto meno, che è quello noto come linguaggio, al contrario se invece non significa nulla per nessuno allora è nulla, cioè questi sensi sono sensi di nulla e pertanto sono nulla se sono fuori da una struttura segnica e allora questi segni non percepiscono nulla, perché ciò che viene percepito non significa nulla. Ma gli animali? (…) Reagisce, è vero. ma anche se lascia cadere un bicchiere va in pezzi, cosa vuole dire? Che un bicchiere ha dei sensi? Dove? Già. Sì è differente stabilire qualche cosa all’interno di una struttura segnica che per altro è quella che mi consente (…) è differente che qualcosa sia all’interno di una struttura segnica, semiotica se preferite dove qualunque cosa acquisisce un senso per qualcun altro o esserne fuori dove tutto ciò non c’è, non esiste. L’animale reagisce ma non lo sa, più o meno come il bicchiere che va in pezzi ma non lo sa…
Intervento: se gli pesto il piede l’animale lo sa
L’animale lo sa, cioè che cosa sa esattamente, che cosa dobbiamo intendere con questo sapere? (…) Si lamenta e scappa (…) sì certo reagisce, reagisce come qualunque cosa anche questo se lo lascio cadere scappa, mi scappa di mano e si rompe va in mille pezzi, i computer sono ancora più sofisticati se lei compie degli errori se ne hanno a male e bloccano il sistema, per esempio, e le dicono “il sistema ha eseguito una operazione non valida e sarà terminato” le parlano, pensi lei, sì certo è chiaro che posso anche dire che il computer parla perché mi parla, mi dice che “ha compiuto una operazione non valida e sarà terminato” sì uno può obiettare “c’è stato un programmatore che ha deciso di fare così certo” è un sistema operativo, programmato per reagire a degli input, come qualunque cosa che abbia un sistema sufficientemente elaborato come un corpo, una pianta, un aggeggio, è sufficiente che abbia un sistema abbastanza sofisticato e reagisce a degli input per i quali è programmato. Ma dunque, ecco la percezione cioè i miei sensi non possono stare da soli, se fossero da soli allora non esisterebbero, fuori da un sistema segnico, semiotico non significano niente per nessuno, la realtà come sapete è una questione che interviene sempre, poi giovedì prossimo ci sarà l’intervento di Gabriele sulla realtà, è il cavallo di battaglia degli umani ed è una delle domande che vengono poste più frequentemente. Poste o non poste, anche se non vengono poste ci sono ottime probabilità che le persone se le pongano fra sé e sé “sì ma la realtà” qualcuno ha il coraggio di dirlo, di esporle mentre gli altri tacciono e poi non tornano più, sì, e questa potrebbe essere la sua fortuna, potrebbe… è una possibilità. Quindi sulla realtà occorre insistere anche nei vari incontri, adesso stiamo terminando, però potrebbe essere una indicazione per una serie successiva, che vaglieremo quando decideremo di farlo, proprio sulla realtà anzi, viene bene il fatto che l’ultimo intervento, quello di Gabriele, sarà proprio sulla realtà che potrebbe essere l’aggancio per la serie successiva, proprio intorno alla questione della realtà o almeno alcuni di noi possono occuparsene altri se hanno altre ambizioni le seguiranno…
Intervento: il titolo la realtà come l’inganno degli umani
Troppo lungo come titolo… un po’ come il titolo di Gabriele “I paradossi della realtà” “la realtà come inganno” “la religione della realtà” se ne possono pensare altri. Potremmo utilizzare qualche incontro di questi per valutare in base a tutto ciò che è accaduto in questa serie di conferenze che abbiamo fatto, quali siano le questioni più efficaci da svolgere, da elaborare, sicuramente quella della realtà, questa di sicuro è la questione più ardua anche perché la realtà essendo costruita da questa differenza fra io e il resto del mondo, pone in prima istanza l’Io, io esisto indipendentemente da qualunque cosa, sì come dire io esisto, anche “se taccio esisto” questa è la petizione più trita e ritrita. Sì quindi la realtà, l’esistenza, questi sono i temi dominanti per cui occorre lavorare perché in fondo potrebbe anche accadere che alcune delle persone che ci seguono, e che ci seguiranno se meglio indirizzate, possano anche accostarsi a questo corso, possono decidere di affrontare le cose in termini più precisi, ché è questo l’ostacolo, lo sappiamo da sempre, la questione della realtà, dell’esistenza, tutto ciò non può essere. Allora quindi tutte queste cose che ho riassunte in quattro parole possono e devono essere riprese in termini retorici che è quello che faremo questa estate, continuare ancora e ancora a riconsiderare, a fare diventare ancora più semplice, per esempio la questione di cui dicevo prima per cui il linguaggio è lì già da sempre ecc. non è così semplice da intendere, proprio per nulla (…) perché sono queste in fondo le questioni intorno a cui stiamo girando ultimamente, cioè il fatto che il linguaggio sia sempre lì e non faccia altro che proseguire se stesso e che costruisca quella cosa che si chiama realtà, perché tutte le proposizioni che costruisce di per sé non significano niente se non in quanto inserite all’interno di un gioco, è questo gioco che fornisce a queste proposizioni un senso, una direzione, un significato, una portata, un valore, tutto quanto…
Intervento: è questa la realtà cioè intendo dire mi sembra che venga percepita la contrapposizione come una negazione della realtà mentre invece noi non neghiamo la realtà stiamo semplicemente dicendo che la realtà è tale in quanto è inserita in un sistema linguistico
Sarebbe più preciso dire chiamiamo realtà quella cosa che, se no sembra quasi che la ponga come…
Intervento: però in effetti per ciascuno una determinata cosa può essere considerata reale e in effetti lo è, perché comunque è il linguaggio che ci consente questo, la questione mi sembra che venga percepita come se noi invece negassimo la questione in termini di a priori come se noi stessimo ponendo la questione in termini di contraddittorietà mentre viene avvertita nei termini di contrarietà, non in senso logico, mentre noi diciamo che è contraddittorio dire che qualcosa esiste fuori dal linguaggio, la cosa viene posta nei termini di contrarietà e cioè che la cosa non esiste. Non stiamo dicendo che la realtà non esiste la realtà esiste in quanto costruzione del linguaggio, un gioco linguistico
Sì però anche questo risulta non semplice da intendere…
Intervento: queste affermazioni non vengono avvertite come un sistema che contraddice immediatamente ciascuna credenza e quindi imposta la direzione al discorso partendo da una costrizione logica cioè anche noi sentiamo la botta in testa perché sappiamo parlare e quindi esiste ma esiste in quanto costruzione di un sistema che per funzionare utilizza anche la botta in testa… è la questione del piacere che non si può affrontare come piacere cioè come una costruzione peculiare al discorso, non si può ammettere il proprio piacere…
Sì certo la questione centrale è che ciascuno si ritiene non responsabile della realtà, questo direi che è fondante (…) certo ha questo utilizzo però è anche una produzione del linguaggio di cui occorre tenere conto, viene costruita o meglio non sono altro che le proposizioni che il linguaggio produce, questa si chiama la realtà, il punto è che non viene avvertito che queste proposizioni non hanno questa realtà come referente ma che queste proposizioni sono la realtà, abbiamo usato questo termine cioè ciò che esiste. È una questione di referenza…
Intervento: la questione della contrarietà la spiego così: apprezza la “vita” per quello che è immediatamente ciò che viene percepita è la morte. Come le procedure, si parlava del terzo escluso che delle due sono una, si può praticare esattamente come fa il linguaggio io parlo di una certa cosa e solo con metafore posso utilizzare due direzioni, se no l’una esclude l’altra. Questo lo riallaccio alla questione del piacere cioè a questa cosa che chiamo piacere non potesse essere messa in gioco perché immediatamente ciò che accade è la preclusione del piacere, come se ci fosse l’idea della distruzione del piacere perché parlando già si aggiungono elementi e quindi diventa ineffabile
Di fatto l’’idea che una proposizione abbia un referente che è fuori di sé è piuttosto diffusa, in fondo anche il signore della botta in testa immagina che questa proposizione “la botta in testa” abbia un referente che è fuori dalla proposizione che enuncia, la proposizione enuncia qualcosa che invece è fuori, ora noi abbiamo i mezzi per mostrare, per provare che non è possibile che qualcosa, che una proposizione abbia un referente che sia fuori dal linguaggio, che sia altro da un altro elemento linguistico, l’abbiamo anche fatto, ma è una prova logica e come tale è difficile da seguire, ché io posso dire “come so che un elemento è fuori dalla struttura linguistica? E che quindi questa proposizione ha un referente che è altro da un elemento linguistico, come posso saperlo, con che cosa?” supponiamo per un istante che sia, per assurdo, se fosse allora occorrerebbe un’altra proposizione che metta in connessione le due cose, ma allora anche in questo caso questo elemento che è fuori dal linguaggio verrebbe saputo unicamente tramite il linguaggio, ma con “saputo” cosa intendo dire, esattamente? Vuole dire che significa qualcosa solo se può significare qualcosa per qualcuno, allora è un evento, se no come dicevo prima, se non significa nulla per nessuno è un evento? Come, per chi? Posso crederlo, esattamente così come posso credere che esista dio, ma a questo punto forse un buon utilizzo retorico sarebbe questo: porre questa idea che esiste un elemento fuori dal linguaggio come una superstizione, mostrando, cioè facendo proprio dei passaggi, anzi sia la superstizione per antonomasia, e come muovere da un pensiero superstizioso non possa che produrre altre superstizioni e pertanto vivere di conseguenza. Potrebbe essere una via, perché no? Cioè mostrare che soltanto perché esiste il linguaggio può esistere un evento, abbiamo detto prima, che essendo fuori dal linguaggio necessita di un’altra proposizione che faccia da tramite, senza la quale questo evento è niente perché non significa niente per nessuno, quindi non è mai esistito. Nella? (…) se lo dico io è giusto? Allora siamo a posto Ipse dixit, e se fosse sbagliato? Come faremmo a saperlo? (…) esatto occorre che ci riflettiamo bene, sì ma per stabilire che è sbagliato come facciamo? Quali criterio utilizziamo? Dovremo pure averne uno, quale?
Intervento: lo stesso
Sì, cioè la struttura del linguaggio, quale criterio meglio di questo? È inconfutabile ed è sicuramente il criterio che è a fondamento di qualunque altro criterio, una sorta di metacriterio, il criterio che è la condizione di qualunque altro criterio, che è fatto di ciò di cui è fatto il linguaggio, cioè la possibilità di inferire da un elemento ad un altro, di distinguere un elemento da un altro, se noi togliamo questo non possiamo più fare niente, né provare né confutare niente, né pensare niente…
Intervento: la questione della realtà mi viene in mente la questione dell’autoreferenza. La realtà sarebbe autoreferente in questo caso
Se lei al posto della realtà mette giustamente il linguaggio allora è autoreferente…
Intervento: perché questo non viene accolto invece?
Tutte le volte che si vuole fornire autoreferenzialità alla cosa, estenderla
al di fuori del linguaggio si giunge a un paradosso…
Viene inserito all’interno di un entimema, non è altro che la premessa maggiore in modo che a nessuno venga in mente…
Intervento: se tentassimo con la convenzionalità… quando si parla di interpretazione come costruzione della realtà, sì, sì è vero ognuno la pensa a suo modo… è quel là la sostanza, il fatto esiste comunque… nessuno può considerarsi il discorso che fa…
Intervento: si può accettare che la realtà sia una costruzione ma che l’io agisca al di fuori, anche per una questione grammaticale l’io è agente
Dovresti riuscire a provare che la realtà esiste se e soltanto se non è reale
Intervento: la realtà è il vero per forza
È quello che ho detto all’inizio, la realtà è una decisione…
Intervento: è inutile dire esiste o non esiste, due + due = 4 ma questo lo stabilisce una regola e dal momento in cui una regola è stabilita è reale,chi ha stabilita la regola? Nessuno l’ha stabilita… la convenzionalità non è altro che il funzionare di una regola
Si, ha detto bene Sandro nel luogo comune in effetti è reale ciò che è stabilito da regole, ciò che è mosso da regole questo è reale…
Intervento: due+due= quattro è una convenzione, ma se io metto questi quattro qua e dico questi qua sono quattro questo è reale, non è già più una regola
Va bene, proseguiamo mercoledì, ci vediamo domani sera alla conferenza.