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28 maggio 1998

 

Iniziamo muovendo da alcune considerazioni intorno alla psicanalisi visto che dovremo parlare di fantasie. Oggi su La Stampa c’è un articolo intorno a Freud nel centenario dell’Interpretazione dei sogni e questo ha sollevato nuove questioni intorno alla psicanalisi. Ciò intorno a cui stavo riflettendo ultimamente è che la psicanalisi è sorta e si è consolidata a partire da un equivoco, senza il quale forse non sarebbe mai esistita, e cioè l’idea cioè che gli umani siano degli incapaci, imbecilli e incapaci, imbecilli letteralmente, cioè senza sostegno, “in bacillus”. Questo pensiero non è stato certamente inventato dalla psicanalisi però tutta la psicanalisi, dalla sua invenzione fino ad oggi, è stata supportata da questo pensiero e cioè che ciascuno sia bisognoso, necessiti di qualche cosa, perlopiù di una risposta, una risposta a dei pensieri che lo affliggono. Ora, ciascuno si trova a recitare questo ruolo, che lo sappia o no, che lo voglia o no, dal momento che è stato addestrato a pensare così, e cioè a pensare che esista qualche cosa che possa rispondere alla sua domanda. Adesso faccio un esempio a partire dall’incontro di martedì scorso, per riprendere alcune questioni. Quella persona che si definiva ansiosa ha messo in atto tutto ciò che in effetti avevo appena descritto della struttura dell’ansia e mostrava in modo molto evidente, chiedeva, pretendeva, esigeva, si aspettava comunque che la soluzione ai suoi problemi arrivasse da un qualche cosa o da un qualcuno. Questo, se in quel caso poteva essere una sorta di rappresentazione, anche di caricatura se volete, rappresenta però un struttura che è piuttosto diffusa, e cioè l’attendersi da qualche cosa o da qualcuno una riposta, una soluzione, un qualunque cosa, come se questo fosse possibile. Questo pensiero ovviamente è supportato da tutto il pensiero occidentale per cui sembra assolutamente normale e inevitabile che questo accada, come se non potesse essere altrimenti. Posta la questione in questi termini è chiaro che la psicanalisi è sorta a partire da questo presupposto e cioè che di fronte ad un disagio occorreva che qualcuno lo dissolvesse, questione che, se presa con un certo rigore, è piuttosto bizzarra. Tuttavia, va considerata perché finché permane questo pensiero non c’è nessuna possibilità di riuscita. Come abbiamo detto in varie circostanze, la psicanalisi in linea di massima opera in modo religioso e cioè suppone che l’altro abbia bisogno di qualche cosa e pertanto risponde a questo bisogno, che è la struttura stessa del discorso religioso. Si tratta a questo punto di considerare le cose in termini forse più radicali, rovesciando il tutto e cioè considerare, per esempio, tutto ciò che Freud ha descritto e chiamato come nevrosi, come un modo per esibire, per esibirsi in varie forme. Qualunque forma di disagio è tale sempre per un pubblico, che è reale o ideale, sempre qualcuno cui è rivolta questa rappresentazione. All’eventualità che questo pubblico non ci sia né reale né fittizio, per chi ci si esibisce? Il fatto che martedì scorso questa fanciulla si esibisse moltissimo e che utilizzasse tutto sommato ciò che andava chiamando ansia come occasione per esibirsi, non è marginale e non riguarda poi né soltanto lei né soltanto questa struttura dell’ansia; ma pensate a qualunque forma di disagio, dall’angoscia alla depressione o alle varie strutture di discorso, sono tali in quanto esibiscono una certa condotta. E allora viene da domandarsi, come dicevo prima, se tutto ciò che Freud ha indicato con nevrosi in realtà non sia altro che un modo per esibire qualcosa all’altro, un esibire qualcosa all’altro in modo che dall’altro giunga una sorta di certificazione. Ma in termini più generali dall’altro deve arrivare una risposta, qualunque essa sia, e questa risposta ha una funzione che è quella di certificare l’esistenza. Tutto ciò che vi sto dicendo è sorretto da un’unica cosa e cioè dall’idea che una qualunque domanda abbia necessariamente una risposta, il che per un verso è, nel senso che grammaticalmente è così, ma solo grammaticalmente, al di fuori di questo ambito grammaticale tutto ciò non ha nessun senso, per cui io esibisco, per esempio, l’ansia, mi agito in modo da ottenere una risposta, come se quest’ansia fosse una domanda. In effetti, molti la pongono proprio in questi termini. (...) Dicevo che tutto ciò è sorretto da questa idea, da questo pensiero, che ai più pare assolutamente connaturato, la natura dell’uomo, ma in effetti se riflettete un momento, se non avessero nulla da esibire a nessuno, una serie infinita di rappresentazioni, tra cui mettiamoci pure la nevrosi, c’è una buona probabilità che non avrebbero nessun motivo di esistere. Perché ciascuna forma di disagio esibisce qualcosa, e cioè la propria mancanza, alla quale altri o altro è chiamato a supplire, a porre rimedio quanto meno. Ma non soltanto chi avverte un disagio si ritiene incapace e imbecille, nell’accezione letterale del termine, e quindi bisognoso di soccorso, di risposta, perché è una questione che riguarda la più parte degli umani, che si ritengono tali e cioè incapaci e bisognosi. Tutto ciò comporta e ha comportato una notevole difficoltà nell’elaborare questioni intorno alla psicanalisi che potessero andare al di là di quanto è stato proposto fino ad oggi. Potremmo dirla così in termini spicci, un po’ folcloristici: il problema non è fornire una risposta a una persona, il problema è che questa persona faccia una domanda in quel modo e cioè che chieda questa cosa, e cioè che chieda una risposta, qualunque essa sia non ha importanza, ma che ponga la domanda supponendo che da qualche parte e in qualche modo sia possibile rispondere, in modo tale che questa risposta sia soddisfacente, definitiva, e non sia soltanto un rinvio linguistico, fine a se stesso. Una risposta, così come mano a mano stiamo figurando la questione, non è altro che un rinvio linguistico che logicamente non serve assolutamente a niente, è soltanto una funzione all’interno di un gioco particolare che si sta facendo in quel momento e la cui funzione è quella di fare proseguire il gioco, nient’altro che questo. Generalmente gli umani si attendono da una risposta qualcosa di più, che non sia solo questo, ma che sia qualche cosa di saldo, di fermo, ed è questa supposizione il fondamento della nevrosi. In effetti, quando accade di muoversi con assoluta scioltezza, agilità nei pensieri? Quando questi sono assolutamente per niente, per niente, per nulla, quando non sono finalizzati se non al loro proseguire. Pensate per esempio ad una psicanalisi, perlopiù la più parte degli psicanalisti compiono il loro lavoro per uno scopo, hanno un obiettivo, in questo sono perfettamente inseriti all’interno del gioco di cui dicevo prima, della domanda e della risposta e cioè fanno il gioco della nevrosi; poi, se sono dei buoni religiosi ottengono dei buoni risultati. In alcuni casi sortisce buoni risultati, tuttavia in questo modo avviene sì uno spostamento da una religione ad un’altra ma rimane immutata quella stessa struttura che sostiene ed è la condizione stessa della nevrosi e cioè che ad una domanda, ad un bisogno, segua una risposta. È ovvio che muoversi in un’altra direzione risulta amorale, non immorale ma amorale, cioè proprio senza morale, perché non va contro la morale ma la ignora, il che è diverso. Immaginate per esempio un incontro analitico dove all’analista, adesso vi faccio una formulazione paradossale, della guarigione dell’analizzante non gli importa assolutamente nulla, né che stia bene o che stia male, assolutamente niente e che si trovi unicamente ad ascoltare un discorso e intervenga in questo discorso intervenendo come in qualunque altro discorso, unicamente perché è chiamato in causa, ma per nessun motivo e senza nessuno scopo, assolutamente niente, senza alcun obiettivo da raggiungere, nulla. Ciò che mi stava interrogando in questi giorni è se questa fosse esattamente la condizione per potere intervenire. C’è questa eventualità, nel senso che tutto ciò che io faccio per un obiettivo, uno scopo è sempre un tentativo di rispondere a un qualche cosa che interroga. Ma supponiamo che io sappia che non c’è nessuna domanda a cui segua una risposta, in accezione che indicavo prima, a meno che, certo, questo non avvenga all’interno di un gioco circoscritto di cui mi siano note le regole, se vado dal tabaccaio e gli chiedo le sigarette mi aspetto che me le dia, così come se vinco a poker con Roberto mi aspetto che paghi il dovuto. Però, ecco, occorre allora puntare l’attenzione su che cosa ci si attende e forse è qui la questione centrale e cioè in definitiva che cosa ci si attende dal proprio discorso, dalle proprie parole, dall’altro, che è un altro modo di porre la questione. È una domanda: che cosa ci si attende dall’altro? Perché ci si attende continuamente qualche cosa. Occorre forse riflettere bene su che cosa, perché esistono circostanze particolari che vanno al di là di quella in cui qualcuno si rivolge al tabaccaio o al panettiere, dove si rivolge a qualche cosa o a qualcuno per ottenere ben altro, cioè una soddisfazione ai propri pensieri. Sono questi i pensieri, ciò che inquieta, non è mai ciò che accade, sono i pensieri, ciò che viene costruito. Questo comincia appena a introdurci alle fantasie, siamo ancora lontani, dunque ciò che soddisfa ai propri pensieri, ma essendo configurato il discorso occidentale in questo modo è come se l’unica soddisfazione al pensiero fosse la sua fine, il suo termine. Heidegger aveva colta la questione, a proposito di metafisica, dicendo che gli umani cercano disperatamente qualcosa che se trovassero li annullerebbe. Ed è proprio così in effetti, non ha torto in questo caso. Ora, si tratta di intendere in termini forse più precisi tutta la questione che così ho appena illustrata, questione che per altro è piuttosto complessa. Occorrerebbe che chi si trovasse in questa posizione non avesse nessun obiettivo da raggiungere, assolutamente nessuno. Ma non soltanto in questa circostanza ma anche in qualunque altra, come dire cessasse di pensare che sia possibile reperire la soddisfazione dei propri pensieri nell’ambito di questa struttura che propone il discorso occidentale e che appare quasi ormai connaturata al punto che a nessuno è mai venuto in mente che potesse non essere così, cioè, torno a dire, pensare per niente, per niente. Che poi è un per niente rispetto al discorso occidentale, di fatto poi è comunque per qualche cosa, è per il proseguire del pensiero e cioè del discorso. È una bizzarra consapevolezza questa, trovarsi in una qualunque circostanza, qualunque cosa si faccia, si dica o si pensi o non si dica o non si pensi, che tutto ciò ha un unico obiettivo, come abbiamo appreso riflettendo intorno all’etica, e cioè il proseguire del linguaggio, del discorso propriamente. Questo conduce a una posizione ben strana. Adesso vi dico una bizzarria. Sapete che ogni tanto c’è sempre qualcuno che chiede: ma allora come pensano gli animali, c’è il linguaggio allora non pensano, ecc., ecc. Riflettendo su queste cose c’è l’eventualità di potere immaginare un pensiero, non c’entra niente con gli animali, ma portando il linguaggio alle estreme conseguenze, è come se potesse quasi concepire l’assenza del linguaggio. L’ho detta grossa questa volta. Come se portando il linguaggio alle estreme conseguenze quasi potesse concepire un esistenza del pensiero fuori dal linguaggio, cioè senza linguaggio  - chi è il soggetto? Il soggetto è chi si trova a portare il linguaggio alle estreme conseguenze, al limite estremo - e cioè dove ciascun elemento interviene effettivamente senza nessun apporto fantasmatico. Parrebbe assolutamente impossibile, c’è l’eventualità che lo sia. Tuttavia, provate a pensare in effetti, a immaginare più che a pensare una cosa del genere e immediatamente a muovervi in un modo molto strano dove le cose esistono per l’istante in cui esistono sotto i vostri sensi, poi cessano di esistere, non sono mai esistite. Ma, al di là di queste amenità che vi dico per il gusto di intrattenervi, tutto questo pone una questione piuttosto importante riguardo al percorso che andiamo facendo e mostra, se volete così forse in modo un po’ folcloristico, un’immagine di un pensiero, la raffigurazione di un pensiero, che come abbiamo detto in molte occasioni non può non tenere conto che tutto ciò che accade, tutto ciò che pensa, non ha altro obiettivo né altra funzione se non quella di far proseguire il linguaggio. Qualunque altra funzione è un attributo che viene catapultato lì in un ambito che è prettamente ed esclusivamente retorico. Pure in quest’ambito non abbiamo non potuto concludere che il linguaggio non ha altro obiettivo che proseguire, poi come prosegue qui decide dell’esistenza il modo in cui esiste ovviamente, delle cose che pensa, che crede, che lo spaventano, che lo divertono, che lo angosciano, che lo angustiano...

Intervento: L’aspetto sociale del linguaggio ...

Oppure vivere socialmente è un effetto dell’esistenza del linguaggio? C’è questa eventualità.

Intervento: Come fa ad essere un elemento per nulla?

“Per nulla” rispetto al discorso occidentale, poi non è mai per nulla e cioè per un altro elemento ... (...) Occorre che tu distingua fra l’aspetto logico e retorico, che logicamente c’è sì la necessità che esista una connessione fra elementi, ma non quale. Semmai questo è in ambito retorico, si stabilisce in ambito retorico, allora sì, l’ambito retorico ti dice che stai giocando un certo gioco con queste regole, e allora certo il fine è ottenere quello scopo perché il gioco è fatto così. Il per nulla era rispetto al discorso occidentale; infatti ho fatto la precisazione di prima per questo motivo, per nulla nel senso che non c’è un fine che è pensato come elemento fuori dal linguaggio, come la risposta definitiva alla cosa, o ancora come semplicemente la risposta possibile, ma che muove dall’idea fondamentale che ciascuna domanda, che interviene nella vita degli umani, abbia una risposta in qualche modo- La risposta, sì, ce l’ha ma nell’abito di quel gioco, la risposta è determinata dalle regole del gioco, mentre il “per nulla” è rivolto alla supposizione che questa risposta non sia vincolata alla regola di quel gioco ma sia una risposta che va al di là.

Intervento:…

È l’idea che la risposta alla domanda sia qualcosa di differente da qualche cosa che è prodotto dalle stesse regole del gioco, che fa parte del gioco. Non è un elemento che da fuori gioco viene a chiudere la questione (in un certo senso porre termine al rinvio oppure trovare qualcosa che abbia se stesso come rinvio, “causa sui”) Sì, invece, è il linguaggio che è causa sui, il motore immoto, e noi in effetti non possiamo dire altrimenti. (....) Ho detto che è una formulazione paradossale; in effetti, non riesce in questa operazione, era solo così per porre la questione in un modo un po’ folcloristico, ma non è possibile perché ciascuna rinvia ovviamente ed essendo riconosciuto come tale fornisce già un’immagine, fornisce già ancora un ulteriore rinvio e quindi si è immediatamente presi in una catena, e cioè dalle regole di quel gioco, per cui in effetti non può darsi una cosa del genere, però come immagine rendere conto anche se, per assurdo, è un pensare per niente, dove in effetti, certamente intervengono rinvii continui ma ciascun rinvio, avendo come referente soltanto se stesso, è unicamente un elemento di un gioco e niente più di questo. In effetti, mi sono accorto in moltissime occasioni che laddove ad esempio c’è un qualche cosa che si pone come problema e che cerco di risolvere il problema, la cosa non funziona, se invece mi trovo a pensare proprio per niente, per gioco, allora trovo cose che...

Intervento: La ricerca di qualcosa che non c’è lo fa essere.

Qualunque negazione in quanto tale necessita di qualche cosa che deve essere confermato, poi il caso della doppia negazione è emblematico: “non vorrei che lei pensasse che io sto pensando”. Ecco, da quel momento incomincio a pensarlo. Insomma, se una persona viene da me, poniamo, chiedendomi di sbarazzarlo di qualche cosa che lui stesso ha prodotto per suo uso e consumo, perché io dovrei fare una cosa del genere? È una questione, una cosa che una persona si è prodotta per dei buoni motivi, per esempio, è chiaro che avviene proprio così, nel senso che c’è una complicità non consapevole, una complicità nell’attribuire il disagio, il male, quindi se lui sta male ha bisogno di soccorso e allora io glielo fornisco, quell’altro può anche guarire, c’è questa eventualità, ma guarisce perché ha trovato qualcuno che gli ha proposto una risposta e se è abbastanza autorevole e fidato, la risposta viene accolta e il sintomo cessa come d’incanto...

Intervento: Se uno non accoglie il discorso.

Delle volte si arrabbia moltissimo perché pensa che non gliene importi nulla di lui, il più delle volte, soprattutto nelle cosiddette relazioni sentimentali in genere avviene in questo modo, e cioè la scarsa considerazione di un problema o la non attribuzione dell’importanza a un certo problema viene inteso come disinteresse, generalmente avviene così (...) Visto che abbiamo ormai introdotto l’aspetto retorico, fantasmatico, possiamo anche dire che ciascuno si attende da una domanda necessariamente una risposta, ma questo affiora anche nel luogo comune. Se una persona fa una domanda ad un’altra e questa non risponde è considerato generalmente una cosa sconveniente ma tutto ciò come se l’altro non potesse avvalersi del diritto di non rispondere, è concesso anche ai criminali, invece no e questo così proprio nel luogo comune che però indica una struttura di pensiero che va in una certa direzione e cioè la domanda che non ha la risposta è insopportabile, non è tollerabile. Viene fatto di domandarsi se questa intollerabilità proceda, direttamente o indirettamente, dall’eventualità che ciò che si dice, cioè ciò che si domanda, per il solo fatto che si domandi è considerato importante e se invece è una cosa che non ha nessun rilievo, assolutamente nessuno, ma nessuno non perché altri ritengano che sia così ma perché è all’interno di un gioco. Forse è stata sempre questa la paura degli umani e cioè che il linguaggio che pur da un parte insieme ad Heidegger gli ha consentito di aggiungere alcune cose e dall’altra tuttavia pone una sorta di limite invalicabile e cioè che ciascun elemento, ciascuna cosa che interviene è un elemento linguistico e nient’altro che questo. Cioè non ha nessun altro referente al di fuori di sé, il che se considerato fino alle sue estreme conseguenze comporta il timor panico che molti hanno avvertito...

Intervento: Sul suicidio.

L’aspetto esibizionistico del disagio sembra avere un ruolo fondamentale. Su questo che occorrerà riflettere. La rappresentazione e quindi in qualche modo la richiesta di qualcosa, perlopiù enunciata come richiesta di aiuto, dimostrarsi desideranti, cioè bisognosi, mancanti.