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28 aprile 2021

 

L’essenza della verità di M. Heidegger

 

Mentre leggevo e riflettevo sulle cose che Heidegger dice intorno al mito della caverna mi si è spalancata una nuova questione che riguarda la volontà di potenza. Tutto il discoro che Heidegger fa intorno al mito della caverna è un discorso intorno alla costruzione del concetto di verità e sull’importanza che ha la verità in un qualunque discorso. Per stabilire con maggiore precisione la verità, che cosa si è fatto? Si è inventata la logica. È un discorso che in parte faceva anche Severino, e cioè si è passati dall’epoca del mito all’epoca della filosofia nel momento in cui le risposte fornite dal mito non erano più sufficienti, non erano più così precise, così gestibili, così controllabili. Un procedimento argomentativo lo controllo, il ghiribizzo degli dei no. Ecco, quindi, la logica. Possiamo chiamare arte della logica, arte che consente di controllare le argomentazioni, controllarle e volgerle quindi verso una verità che è esatta rispetto alla premessa e ai passaggi. In fondo, sapete che per giungere a una conclusione vera è sufficiente che, data una certa premessa, si compiano passaggi, inferenze coerenti, cioè che non contraddicono la premessa, per giungere alla conclusione. Se è vera la premessa, sarà vera anche la conclusione. La logica è stata questo, almeno da Aristotele in poi, lui non l’ha propriamente formalizzata ma ha poste le basi per una formalizzazione; hanno poi lavorato molto nel Medioevo fino ad arrivare alla logica che conosciamo oggi, cioè la logica formale. La logica ha questa prerogativa, e cioè è controllabile o, meglio, dà l’illusione di potere controllare. Poi, sappiamo già con Hegel che, in effetti, anche il sillogismo lascia il tempo che trova. Però, l’idea è quella di potere controllare l’argomentazione e, quindi, di potere controllare la verità, e cioè averla a disposizione attraverso un calcolo. In effetti, si chiama calcolo proposizionale, si calcola. Questo calcolare è importante, comporta, come dicevamo prima, l’esattezza di un procedimento, perché i numeri non mentono. Come diceva Kronecker contro Cantor, i numeri non mentono, perché 100 è maggiore di 5 di venti volte, è maggiore e non ci sono discussioni. Cantor ha incominciato a riflettere meglio sulla questione e ha posto delle domande: se prendo l’insieme dei numeri naturali e poi prendo l’insieme dei numeri primi, qual è più grande? Non c’è modo di saperlo. Ecco i numeri che mentono. Come dire che 100 non è più così certamente superiore a 5: dipende dalla situazione, dal gioco in cui è inserito, potremmo dire. L’idea che i numeri non mentano è un’idea antica, è l’idea che sia possibile trasformare i discorsi in numeri. In fondo, è quello che fa la logica formale: trasformare un’argomentazione in numeri. D’altra parte, se ci si pensa bene, quello che facevano gli antichi rappresentava l’idea che i numeri potessero dare l’immagine del cosmo, perché i numeri non mentono. È l’operazione che ha fatta Gödel: ha trasformato delle proposizioni in numeri, perché i numeri non mentono. Per esempio, ve lo dico molto banalmente, ha trasformato i connettivi chiamando 1 il “non”, la congiunzione l’ha chiamata 3, la disgiunzione l’ha chiamata 5, l’implicazione 7, il quantificatore universale 13, il quantificatore esistenziale 17, tutti numeri primi. Ha trasformato argomentazioni in sequenze numeriche e con quelle ha trattato. I numeri non mentono, i numeri, diceva Kronecker, ce li ha dati Dio e, quindi, non possono mentire. Questo ci rinvia a una questione enorme: che cos’è un numero? Ciò che esprime una relazione fra grandezze, ma da dove arrivano questi numeri? Qui ci si perde nella notte dei tempi, si suppone che già nel Paleolitico ci fosse qualche cosa che quantomeno potesse somigliare a un numero e, quindi, si va molto indietro con gli anni. Avevano ragione i greci antichi a porre la questione dei numeri come qualche cosa che ha a che fare con il divino. I pitagorici in prima istanza, ma poi anche altri. Il libro che ho qui è stato scritto da Giamblico, un filosofo greco di origini siriane, vissuto nel terzo secolo dopo Cristo, ultimo dei neoplatonici, allievo di Porfirio. Ha scritto questo libro dal titolo Il numero e il divino, che occorrerebbe leggere nel modo che vi sto dicendo, cioè cogliendo la connessione strettissima tra il numero e la volontà di potenza. Si tratterebbe di leggere anche Adversus mathematicos di Sesto Empirico e forse La filosofia dell’aritmetica di Husserl. Dico forse perché non so se ci potrebbe essere utile, ma per sapere se ci può essere utile occorre leggerlo tutto: dobbiamo leggerlo tutto per potere dire che non ci serve a niente. Nell’Introduzione a questo libro, scritta da Francesco Romano, che ha tradotto dal greco questo testo di Giamblico, si dice a pag. 40 Si potrebbe dire che la matematica, almeno nel suo significato pitagorico, possiede, dal punto di vista della metodologia delle scienze, la medesima funzione che ha l’anima dal punto di vista onto-cosmologico ed etico. Interessante questo accostamento tra la matematica e l’anima. Il numero e il Divino sono dunque le due facce di quella medesima realtà che le varie scienze hanno il compito di predisporre come oggetto conoscitivo e contemplativo della scienza teologica. E se è vero che neoplatonismo significa in ultima analisi teologia quale unica e vera filosofia, allora il discorso filosofico altro non può essere che discorso sacro (ίερòς λóγοϛ), che è il discorso pitagorico insieme matematico e teologico, e se è vero, com’è vero, che l’ordine teologico precede sia l’ordine naturale che l’ordine morale, allora l’ordine matematico è non solo l’ordine divino, ma anche il fondamento di qualunque ordine di realtà. È molto precisa questa annotazione di Francesco Romano. Sì, il numero consente l’ordine, consente quindi il controllo. Per controllare le cose, le cose devono smettere di essere per se stesse ed essere inserite all’interno di un sistema che io controllo. Come dicevamo prima, un calcolo numerico lo controllo, nel senso che alla fine posso dire che è vero oppure falso o dove porta, ma le bizzarrie degli dei e della natura quelle non le controllo. I pitagorici a loro modo sapevano che i numeri hanno a che fare col dio, dio nell’accezione del greco antico e non il qualcuno delle religioni attuali. Dio è il tutto, l’assoluto, il concreto, l’essere. Θεν in greco antico è il tutto, il tutto che non è mosso da altro. In effetti, il motore immoto è la prima idea di linguaggio: ciò che muove tutto, che costruisce ogni cosa ma non è mosso da altro, non c’è altro che da dietro le spalle lo manovri. Ecco, allora, il motivo, così almeno ci appare, dell’invenzione innanzitutto della logica, come strumento di controllo delle proposizioni, quindi, del discorso, e del numero come controllo della natura. D’altra parte, la fisica che cosa fa? Controlla la natura, la misura e la modifica a suo piacimento. A questo punto, ecco che la questione si spalanca perché tutte queste questioni, di cui parla anche Platone nel mito della caverna, puntano sì, certo, a stabilire in che modo sorge il concetto di verità, ma non ci dice perché sorge. Il motivo per cui sorge, potremmo dire azzardando un po’, è che sorge nel momento in cui si incomincia a parlare e parlando le cose esistono, ma esistendo si allontanano, dileguano. E, allora, la possibilità di misurarle, di dominarle, sorge come esigenza per evitare che le cose dileguino nel momento in cui si dicono. Quindi, controllare il linguaggio. Ma questo è ancora un azzardo, si tratta poi di lavorarci meglio. Mi interessava porvi questa questione da affrontare poi in un prosieguo. Però, intanto, il calcolo proposizionale è un calcolo. Quindi, posso trasformare – che è quello che ha fatto Gödel – un discorso in numeri. Cosa fa un calcolo proposizionale? Conta, è un computo: vero/falso, 1/0, come fanno i computer, che sono calcolatori, computano. Il numero è la massima astrazione, ha sempre cercato di eliminare la sua condizione, e cioè il concreto. Il numero come l’astratto determina, definisce Dicevo, quindi, il numero come determinazione assoluta, togliendo quindi il concreto. In effetti, quello che ha fatto Gödel è stato questo: ha trasformato il discorso, che appunto è indeterminato, in determinato, lo ha trasformato in numeri. Se la congiunzione può essere tante cose, il numero 3 no, il numero 3 è 3, non si discute. Quello che fa il discorso matematico è di togliere la discussione, cioè, su queste cose non si deve più discutere. Quindi, il numero come astrazione assoluta che toglie il concreto, che toglie ciò attraverso cui esiste. Ciò attraverso cui esiste è questo concreto nel quale c’è la volontà di potenza. È stata tolta la volontà di potenza dal numero e da quel momento è diventato autonomo, come se avesse avuto una vita sua. Ancora oggi si pensa che abbia una vita sua. Da qui l’accostamento con il divino: è il dio che parla con i numeri, che ha deciso che 3x2 fa 6. La questione ci dice che la volontà di potenza è ciò che ha determinato, almeno in buona parte, il costruirsi dei concetti fondamentali, su cui si regge tutto il pensiero. Cioè, tutto il pensiero si regge sulla volontà di potenza, il cui κμή (acmé) è la numerabilità, come massimo controllo: tutto ciò che posso numerare lo posso controllare. Se non è numerabile è l’innumerabile, è l’πείρων (ápeiron), è l’indefinito, è l’infinito. In effetti, il grosso problema è sempre stato quello, perché finché si tratta di insieme finiti non c’è nessun problema, il problema c’è quando appaiono insieme infiniti. È quello che ha fatto Cantor: finché gli insiemi sono finiti li posso computare tranquillamente, se sono infiniti mi perdo la computazione, mi ci perdo dentro, non so più se l’insieme di tutti i numeri naturali e quello di tutti i numeri primi siano raffrontabili. Con che cosa? In che modo? La questione venne direnta da Hegel quando ci dice che finito e infinito sono lo stesso. Per cui il numero, cioè la massima determinazione, se ci atteniamo a Hegel, non può apparire senza la assoluta indeterminazione, così come rispetto all’infinito e al finito. Ma per dare questa priorità assoluta alla numerabilità occorre tenere separato il numero dall’innumerabile, compiendo quella operazione che Hegel chiama religiosa. Da qui anche l’accostamento fra il numero e il dio, il dio così come è stato pensato dopo. È una strada che sarebbe bella da percorrere, perché ci fa vedere subito di che cosa è fatta la logica, e cioè di volontà di potenza, in quanto tenta di porre il discorso sotto forma di calcolo. Poi, ovviamente, se incominciamo a chiedere da dove vengono le premesse di tutto ciò, allora cadiamo nella disperazione più nera perché ci si affaccia immediatamente l’analogia, la somiglianza. Questo mostra anche la priorità che ha avuto il concetto di esattezza su tutti gli altri concetti: se è esatto vuole dire che è vero, se è vero è reale, come già a modo suo insegnava Anselmo d’Aosta. Certo, occorrerebbe andare a leggersi Il numero e il divino e Adversus mathematicos, perché qui in questi testi greci c’è ancora traccia della prossimità tra il numero e il dio, che poi si è persa. Se si chiede oggi a un matematico che cosa connette il numero con Dio, non saprebbe rispondere, anzi, probabilmente ci chiederebbe se siamo matti. Come diceva Kronecker: i numeri ce li ha dati Dio, non possono mentire.

Intervento: Rispetto al numero, pensavo all’importanza che si dà alla relazione di ordinamento. Il numero si porta appresso, quindi, lo spazio e il tempo.

Certo. È lo stesso pensiero che fece Kant. Nei suoi vari giudizi: analitico a priori, sintetico a priori, sintetico a posteriori; a priori sono lo spazio e il tempo, cioè, quei concetti che sono necessari per la costruzione di qualunque concetto, e sono impliciti. La sintesi a posteriori è l’esperienza. La matematica, però, non rientra né nell’un caso né nell’altro, per cui si è dovuto inventare il concetto di sintesi a priori, e cioè la capacità di mettere insieme, di fare una sintesi con i numeri. Però, necessariamente presuppongono lo spazio e il tempo. Anche la cardinalità, cioè il numero degli elementi di un certo insieme, presuppone comunque un’ordinalità. Per esempio, se io prendo il numero 1000 e lo pongo come insieme, la sua cardinalità è 4, perché ci sono quattro elementi. Però, anche la cardinalità presuppone un ordine, perché se io dico che 1000 è composto da quattro elementi, lo dico perché li ho ordinati. Per cui potremmo dire hegelianamente che l’uno necessita dell’altro, cha la cardinalità necessita dell’ordinalità, che l’ordinalità necessita della cardinalità, perché anche l’ordinalità necessita della possibilità di stabilire un fine, un arresto, perché ci sia un ordine. Se non è possibile nessun arresto, allora anche l’ordinalità diventa un problema. Come so che 3 viene prima di 5 se la distesa è infinita? Il fatto è che i numeri sono stati quella invenzione che ha consentito la priorità, quasi la superiorità, dell’astratto rispetto al concreto. Uno dei motivi per cui il concreto è sempre stato abbandonato potrebbe essere, lo azzardo un po’, il fatto che l’essere è sempre stato considerato soltanto un ente, cosa della quale si lamentava moltissimo Heidegger, pur considerando lui l’essere come un ente, perché non si può non fare. Cosa fa il numero? Toglie ogni possibilità che il numero sia qualche altra cosa all’infuori di se stesso: il 3 è il 3, non è altro. Quindi, è il massimo controllo. Ecco perché gli umani hanno inventato i numeri: per potere esercitare l’assoluto controllo sulle cose. Poi, quando si sono accorti che questo controllo appariva assoluto sulle cose e assolutamente esatto, hanno pensato che i numeri avessero qualcosa di divino, che ci fosse un dio a manovrarli. Il calcolo proposizionale sorge dalla logica medioevale, è ciò che ha consentito ancor più di trasformare il discorso in numeri, potendolo quindi contare, e se posso contarlo, ne ho il controllo totale, non mi sfugge niente, perché 3 è 3 e non un’altra cosa. Se, invece, parlo di implicazione posso voler dire tante cose, ma se dico 7, che altro c’è da dire? Niente. Ciò che sappiamo a questo punto del numero è che rappresenta il colmo dell’astrazione nel colmo della volontà di potenza: numerare le cose, inserirle all’interno di un sistema numerabile, quindi, finito, perché deve essere finito sennò il gioco non funziona più, s’inceppa. Che è quello che ha fatto Cantor: se io prendo tutto l’insieme dei numeri naturali, è più grande o più piccolo dell’insieme dei numeri primi? Non vale più il detto leibniziano: Calculemus, perché che cosa calcolo qui? Cantor ha mostrato che i numeri possono mentire se reintroduciamo ciò che è stato espunto dal numero, cioè il concreto, l’infinito, l’πείρων, ciò che non è numerabile e, quindi, non controllabile. Questo libro di Giamblico andrebbe letto per riuscire a capire come per il greco antico – anche se lui propriamente non possiamo considerarlo come un greco antico, essendo vissuto nel III sec. d.C. come uno degli ultimi neoplatonici – si poneva la questione del numero: come pensava questo accostamento tra il numero e il divino e perché fece questo accostamento. D’altra parte, anche Platone nel mito della caverna accosta indirettamente il dis-velato, τò άληθέϛ, alla luce, al divino, al tutto, all’essere. Riprendiamo la lettura del testo di Heidegger, L’essenza della verità. Siamo a pag. 49. La situazione degli uomini viene descritta per mostrare che cosa gli uomini, in tale situazione, devono ritenere che sia lo svelato, il vero. … Per quanto la situazione di siffatti uomini rimanga strana e per quanto questo stesso uomo possa essere curioso, anche in tale situazione l’uomo possiede τò άληθέϛ, lo svelato. Ciò che c’è davanti. Platone non dice che egli possiede uno svelato, ma lo svelato. Ciò significa che l’uomo è già, fin dall’infanzia e per sua natura, posto davanti a ciò che è svelato. Naturalmente, qui Heidegger non può andare oltre a tali considerazioni, ma noi sì. Che cosa è svelato all’improvviso? Il linguaggio. Nel momento in cui si installa, ecco che qualcosa si svela: io parlo, io dico le cose, io sono io e quella cosa è la cosa. Ecco il disvelato, il primo τò άληθέϛ, il primo svelato, il primo dire, il mio dire che, essendo dire, è perché dice qualcosa, il dire è dire qualcosa e, quindi, insieme col dire c’è il qualcosa di cui il mio dire dice. Ecco il disvelato, la prima cosa con gli umani hanno a che fare, la prima realtà, prima e ultima, perché di lì non se ne esce. Che cosa sia poi di volta in volta ciò che nel singolo caso si offre come svelato è un’altra questione. Lui non l’affronta tanto, perché gli sfugge un po’ di mano. Ma noi sappiamo bene che cos’è il dis-velato. Anche in questa strana situazione nella caverna l’uomo non è comunque un essere ripiegato su se stesso e isolato da tutto il resto, un puro e semplice “io”, ma πρòς τò πρóσθεν, diretto a ciò che gli sta davanti: τò άληθέϛ. Perché possa stargli davanti è un dis-velato. Un bruco non può pensare a ciò che gli sta davanti, perché non ha qualcosa che gli sta davanti, siamo noi che abbiamo qualcosa che ci sta davanti, che è ciò che diciamo: questo ci sta continuamente davanti. È proprio dell’essere umano, come è implicito già nell’impostazione di questo mito, lo stare nello svelato… Qui capisce che c’è qualche cosa di importante nell’essere umano, nell’esserci, nel parlante. Heidegger non è mai riuscito a compiere questo passaggio dall’esserci (Dasein) al parlante. L’esserci è il parlante, è colui che parla. E, allora, solo se c’è questo parlante c’è uno stare davanti, è possibile che ci sia uno stare davanti. …o, per usare un’espressione a noi familiare lo stare nel vero, nella verità. Certo, perché ci sia verità occorre che ci sia l’esserci, che ci sia l’uomo, che ci sia il parlante. Essere uomini, per quanto strana possa essere la nostra situazione, significa tra l’altro, anche se non soltanto, essere in rapporto con ciò che è svelato. Questi sono gli uomini: sono quelli che sono di fronte a qualche cosa che è svelato, e ciò che è svelato è il loro dire. A pag. 50. Gli incatenati vedono, sì, le ombre, ma non in quanto ombre di qualcosa. Se diciamo che le ombre sono per loro ciò che è dis-velato, facciamo un’affermazione ambigua, e in fondo diciamo già troppo. Siamo soltanto noi, che abbiamo già una visione complessiva della situazione, a definire “ombre” ciò che essi hanno davanti a sé. Perché gli incatenati non possono dire altrettanto? Perché essi non sanno nulla di quel fuoco, vale a dire di ciò che produce un bagliore e una luce nella cui luminosità soltanto è possibile che vi sia qualcosa come le ombre e che qualcos’altro possa essere adombrato; e infine perché essi non sanno nulla delle cose e degli uomini che, stando nella luce, possono proiettare un’ombra. … Essi sono assorbiti da ciò che capita loro di incontrare immediatamente. Che è esattamente ciò che capita a ciascuno. Poi, arriva a precisare questa questione: ciascuno se non intende il concreto, in cui l’astratto esiste e per cui esiste, rimane incatenato al dis-velato che ha di fronte, immediatamente. Sarebbe quella cosa che Gentile chiamava l’astratto dell’astratto, immaginando che ciò che ha di fronte sia il tutto. A pag. 52. Nella misura in cui il primo stadio, preso per sé, è lo stadio di un mito, di un’immagine simbolica, esso ci dà già un cenno… Ricordate: il mito non spiega, non dimostra, ma accenna, dà un cenno, una direzione, suggerisce …che certo non equivale all’avere già visto dentro l’essenza della svelatezza in quanto tale, e tuttavia ci suggerisce che, in generale, in questa situazione siamo in qualche modo al cospetto della svelatezza. Ciò significa solo che la svelatezza di qualcosa, cui l’uomo si rapporta, appartiene all’esserci dell’uomo (quale indice della sua situazione). Qui se ne accorge, chiaramente: appartiene all’esserci dell’uomo. Non riesce mai a fare quel passo fino al parlante, che può fare questo passo perché parla. Come debba essere intesa questa svelatezza nella sua essenza rimane oscuro. Non riusciamo a vedere dentro l’essenza dell’uomo, e per il momento ci importa soltanto di vedere che e come, fin da principio, al centro ci sia l’άληθεια. A questo scopo possiamo e dobbiamo fare soltanto una cosa: raccogliere semplicemente tutto ciò che, in questa situazione, compare contemporaneamente all’άληθέϛ (svelato). Vogliamo cercare di enumerare tutti i momenti essenziali che prendono parte a questo fatto… 1. τò άληθέϛ, lo svelato; 2. σκιαί, le ombre; 3. δεσμώται, i prigionieri: l’essere incatenati proprio degli uomini; 4. πύρ e φώς, il fuoco e la luce: il chiaro; 5. gli incatenati non hanno alcun rapporto con se stessi e con gli altri, vedono di sé soltanto le ombre; 7. Lo svelato viene preso automaticamente per l’ente, τά ντα; … Ciò che ciascuno incontra davanti a sé lo concepisce esattamente così, come dice Platone, come gli enti, τά ντα, che sono tutto, perché non c’è altro, perché non sa altro, non conosce altro. Quindi, ciò che ha davanti a sé immediatamente è il tutto, senza mezzi termini. …8. non c’è differenza tra ciò che è velato e ciò che è svelato, fra ombra e cosa reale, fra luce e buio. … ma prima di porre questa domanda… Sulla connessione tra verità e svelatezza. …vogliamo ancora una volta calarci interamente nella situazione degli stessi prigionieri, e ciò, in fondo, non è difficile. Se ci limitiamo esclusivamente al primo stadio, facendolo per così dire nostro, non vediamo affatto una simile connessione, anzi non sappiamo neppure nulla dei singoli momenti enumerati, ma siamo del tutto presi e limitati da ciò che si svolge sulla parete e non abbiamo occhi che per esso. Sta descrivendo ciò che accade a chiunque. Questo è, per così dire, il mondo puro e semplice. La limitatezza si manifesta nel fatto che, come adesso vediamo, uno che è prigioniero in questo modo non sarebbe mai in grado di descrivere la sua situazione nei termini in cui essa viene presentata nel mito. Perché lui è lì dentro. Anzi, egli non sa nemmeno di trovarsi in una “situazione”. Se viene interrogato, racconta sempre e soltanto delle ombre, che peraltro non conosce in quanto ombre. Egli è convinto di essere nell’unico posto giusto che ci sia per lui e non accetta di essere rimosso da quello che per lui è, evidentemente, l’ente. Ogni pretesa in tal senso sarebbe per lui folle. Ma qui si usa già (non lo si dirà mai abbastanza) l’espressione τò άληθέϛ e nel farlo non si parla affatto di adeguazione, conformità e concordanza. Cioè, come ρθότης (orthotes). Passiamo al punto B. Il secondo stadio. A pag. 55. “Supponi ora” dissi “che le catene vengano sciolte e sia guarita la mancanza di discernimento (in cui i prigionieri si trovano). Osserva che cosa dovrebbe per forza di cose capitare, se accadesse loro quanto segue. Se uno fosse sciolto dalle catene e costretto ad alzarsi improvvisamente, girare il collo, camminare e levare lo sguardo verso la luce, potrebbe fare tutto questo solo soffrendo, e a causa del bagliore non sarebbe in grado di vedere quelle cose di cui prima vedeva le ombre. Gi accada dunque tutto ciò: che cosa credi che direbbe se uno gli dicesse che prima aveva visto solo nullità, mentre ora è più vicino all’ente, ed è rivolto a ciò che è più ente, cosicché vede più correttamente? E ancora, se uno gi mostrasse anche ciascuna delle cose che gli passano alle spalle e lo costringesse a rispondere alla domanda “che cos’è” (τί έστιν), non pensi che non saprebbe che pesci pigliare e riterrebbe che ciò che vedeva prima fosse più svelato di quello che gli viene mostrato adesso? “Certo”. “E magari se uno lo costringesse a guardare nella luce stessa, non gli farebbero male gli occhi e non si volgerebbe altrove, fuggendo verso ciò che la sua vista può sostenere, e non sarebbe dell’opinione che questo (cioè le ombre) sia di fatto più chiaro (visibile) di ciò che gli si vuole mostrare adesso?”. “È così”. È così che funzionano gli umani. Che cosa potremmo aggiungere a questo punto? Semplice. Ciò che vede il prigioniero nella caverna gli dà l’idea della realtà, gli dà l’idea di ciò che lui controlla. Se volge lo sguardo verso il sole non vede più niente, non controlla più niente. Come dire che le cose che vede, che è abituato a vedere, abituato dalla consuetudine, dalla chiacchiera, dalla familiarità, quelle cose che vede nell’ombra per lui sono gli enti, i veri enti, che non mentono, sono numeri, sono quello che sono per virtù propria. A pag. 56. Platone vuole infatti che si presti propriamente attenzione a questo: a vedere la φύσις dell’uomo, e in questa direzione va il cenno. Ciò viene ripetuto in maniera chiara (come nel primo stadio) anche alla fine della descrizione del secondo stadio: colui che è stato così liberato “riterrebbe che quanto vedeva in precedenza (le ombre) sia più svelato (più vero) di ciò che gli viene mostrato adesso” (cioè le cose nella luce stessa). Si tratta ancora una volta, e con tangibile chiarezza, dell’άληθέϛ. Nel secondo stadio accade dunque qualcosa che riguarda la svelatezza. Nel primo stadio abbiamo visto che l’άληθέϛ entrava in gioco assieme ad altri momenti della situazione di questi uomini, senza che ne cogliessimo la connessione. Adesso però, poiché accade qualcosa che concerne l’άληθέϛ,… Mostrare il dis-velato, se è veramente dis-velato oppure no. …che entra così in gioco, dovrà risultare chiaro se e come, assieme a questo accadimento, mutino anche i suoi riferimenti, vale a dire se e come questi stessi vengano allo scoperto. Abbiamo già visto che nel mito Platone dice di no: quello che è abbagliato dalla luce torna giù, perché solo giù ha il controllo della situazione. Perciò, in relazione al secondo stadio, poniamo ora questa domanda: diventano più chiare in esso le connessioni (finora solo enumerate) delle componenti che presumibilmente appartengono all’άληθέϛ, e si fa quindi più chiaro l’άληθέϛ stesso, cioè l’essenza della svelatezza? Ovviamente, no. L’άληθέϛ ci si fa incontro non solo (come nel primo stadio) in forma generale, e come ciò che è messo decisamente in risalto. Ora si parla invece di άληθέστερα (che dal punto di vista puramente linguistico è un comparativo): ciò che è più svelato. Lo “svelato” può essere dunque più o meno svelato. Il “più” o “meno” non si riferisce al numero (al fatto che sia svelate più ombre), ma alla specie e al modo, al fatto che qualcos’altro (in quanto tale) è più svelato: le cose stesse che è costretto a vedere colui che è stato liberato e che si gira. Uno vede l’ombra, l’altro gli dice “Voltati e guarda, è l’uomo che sta passando a produrre quell’ombra”, cioè, l’uomo è più vero dell’ombra. La svelatezza ha dunque gradi e livelli. La “verità” e il “vero” non sono qualcosa che per chiunque rimane sempre e in ogni riguardo uguale in sé, immutabile, indifferente, comune. Non tutti hanno senz’altro lo stesso diritto di accedere a qualsiasi verità e la stessa forza per affrontarla, e ogni verità ha il suo tempo. In fondo il tacere e il nascondere al sapere certe verità fanno parte dell’educazione al sapere. Non tutte le verità si equivalgono: c’è verità e verità. Qui c’è naturalmente un richiamo alla nobile menzogna di Platone, perché chi deve stabilire che cosa dire e cosa no? In base a che cosa? In base sempre alla volontà di potenza, ovviamente. A pag. 58. Ma la vicinanza all’ente, così come essa viene reclamata per il secondo stadio, ha ancora un’atra conseguenza peculiare: “Colui che (come il prigioniero liberato) è rivolto a ciò che è più ente (a ciò che è più ente di altro, ossia a ciò che è ente in senso più proprio), vede più correttamente. Ecco affiorare i termini όρθός, ρθότης, “correttezza”, e invero anch’essi nella forma comparativa, di maggioranza: vi sono gradi. La correttezza del vedere e dell’osservare le cose, e con ciò del determinare e dell’asserire, ha il suo fondamento nella rispettiva modalità di rivolgersi all’ente e nella rispettiva vicinanza a esso, cioè nel “come”, nel modo in cui, di volta in volta, l’ente è svelato. La verità come correttezza ha il suo fondamento nella verità come svelatezza. Ovviamente. Come so che qualche cosa è corretto se non conosco la verità? È la questione che poneva già all’inizio: ci deve essere già un concetto di verità perché si possa sapere se una cosa è corretta oppure no. Vediamo affrontare già adesso per la prima volta, sebbene in maniera abbastanza approssimativa, una connessione fra le due forme essenziali (i due concetti di verità), che all’inizio ci limitavamo a porre l’una accanto all’altra, spiegandole separatamente. E, invece, no, sono le due facce della stessa cosa. La verità come correttezza dell’asserzione non è assolutamente possibile senza la verità come svelatezza dell’ente. Infatti ciò cui l’asserzione deve conformarsi, per poter diventare corretta, deve essere già prima svelato. Vale a dire che se si intende l’essenza della verità esclusivamente come correttezza dell’asserzione, si mostra di non comprendere nemmeno ciò a cui qui ci si rifà come essenza della verità. Non soltanto si è di fronte a un concetto di verità derivato, ma, poiché non si vede la provenienza di questo concetto derivato, ci si richiama a una cosa a metà, la quale non diventa intera per il fatto che tutti la condividono. Al contrario: si potrà cogliere l’essenza e la necessità proprio di questa forma derivata di verità, cioè della verità come correttezza, soltanto quando sarà stata chiarita la verità in quanto svelatezza e sarà stata fondata la sua necessità;… Da una parte, è il discorso della metafisica, ma al tempo stesso ci dice un’altra cosa, che esula dal discorso metafisico: l’idea della correttezza, su cui si fonda praticamente tutto il concetto di verità, ha bisogno di un concetto di verità più potente, un concetto di verità che non si desume da altro, se non da se stessa. È esattamente quello che diceva Gentile: qual è la verità di ciò che enuncio? Il fatto che lo sto enunciando. Questo non posso negarlo in nessun modo: non posso affermare che non sto ponendo qualcosa mentre lo sto ponendo, e viceversa. Non posso farlo perché, se lo facessi, non potrei più parlare, il linguaggio svanirebbe. Quindi, anche tutta la questione della correttezza, su cui tra l’altro si fonda tutta la logica… La logica ha cancellato tutta la questione della verità in senso platonico-filosofico, come verità assoluta, per piegare verso la verità come correttezza. La verità, il concreto, il linguaggio stesso, il tutto, deve essere tolto, l’infinito deve essere tolto a vantaggio del finito. La correttezza valuta sul finito, la verità spalanca uno squarcio verso l’infinito.