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28 marzo 2018

 

C. Sini, Semiotica e filosofia

 

Vediamo come Nietzsche, attraverso le parole di Sini, affronta la questione del linguaggio e del segno. A pag. 125. Nel terzo capitolo della Nascita della tragedia l’enunciazione ante litteram del metodo genealogico (inteso qui come “distruzione”)… Quando lui parla di genealogia intende sempre il ritorno a ciò che ha costituito qualche cosa, il ritorno a quegli elementi da cui qualcosa è sorto. …si apre con queste parole: “Dobbiamo abbattere pietra su pietra l’edificio estetico della civiltà apollinea, fino a poter vedere le fondamenta su cui è costruita”. Al termine di questa “distruzione” Nietzsche può scrivere: “Ecco, dinanzi a noi si apre la montagna incantata dell’Olimpo, che ci mostra le sue radici”. È il famoso rovesciamento: prende il castello e lo capovolge per vedere che cosa c’è sotto. Leggiamo una citazione di Nietzsche che riporta Sini tratta dalla Nascita della tragedia. A pag. 126. Quello che allora m’era riuscito di afferrare, qualche cosa di terribile e di pericoloso, un problema con due corni, anche se non necessariamente un toro, ma sempre in ogni caso un problema nuovo, direi oggi che era il problema stesso della scienza. – della scienza veduta per la prima volta, come un fatto problematico e discutibile (…) la scienza stessa, la nostra scienza – che cosa significa in sostanza, considerata quale sintomo della vita? Che scopo ha, e peggio, donde viene tutta la scienza? Come? L’impulso alla scienza non è forse nient’altro che paura e scampo di fronte al pessimismo? Una sottile difesa contro – la verità? E, in termini di morale, qualche cosa di simile alla vigliaccheria e alla falsità? E invece, parlando in termini immorali, una furberia? O Socrate, Socrate, fu forse questo il tuo segreto? O misterioso ironista, fu forse questa la tua ironia?... Questo ci dà già l’idea di come Nietzsche pensa la scienza, che ai suoi tempi incominciava a imporsi. Siamo a fine ‘800, c’era già stata la Rivoluzione Industriale, si era in pieno positivismo, era l’epoca in cui si presumeva che ogni malanno dell’umanità sarebbe stato debellato dalla scienza, idea che è andata avanti fino a tutta la belle époque che, come sapete, finisce con lo scoppio della prima guerra mondiale. Tutto il periodo della belle époque è stato uno sviluppo scientifico, nel 1900 ci fu l’Expo di Parigi in cui venivano mostrate tutte le meraviglie della scienza. La voce di Nietzsche va in tutt’altra direzione, parla della scienza come di una furberia. Ce l’ha con Socrate, non tanto Socrate ma Platone perché è lui che ha fondato la metafisica, che ha posto le condizioni della tecnica, della scienza. La tecnica precede la scienza, dall’800 in poi la scienza si è arrogata il diritto di dire come stanno le cose, a tutt’oggi continua. Questo è un periodo importante per Nietzsche perché è anche il periodo del suo distacco da Wagner. Lui aveva inizialmente seguito Wagner, anzi, si dichiarava un suo discepolo, perché Wagner aveva rilanciato con la sua musica l’idea del mito tragico, della sua bellezza, e quindi dell’uomo tragico, dell’uomo bello, quindi, contro la scienza, contro l’uomo scientifico, razionale, ecc., sarebbe, per dirla con Nietzsche, l’uomo dionisiaco. Dice ancora a pag. 127: Qui Nietzsche vede, com’è noto, nel socratismo il fenomeno della nascita dello spirito scientifico, non soltanto per la civiltà greca, ma per tutta la storia del mondo. Socrate è l’esemplare dell’uomo teoretico. Tale uomo ha ridotto l’apollineo alla logica e il dionisiaco alle “passioni”. Le passioni sono ciò che bisogna dominare e controllare in virtù del logos, del ragionamento. Ha origine qui il dualismo platonico, e poi cristiano, fra ragione e sensibilità, anima e corpo; deriva da ciò il grande problema filosofico della conoscenza inteso come problema intellettuale e concettuale. Al sondo dell’ideale teoretico si pone allora un ottimismo caratteristico: Qui Sini cita Nietzsche. “la fede incrollabile che il pensiero, guidato dal filo conduttore della causalità, giunga fino agli estremi abissi dell’essere e che il pensiero sia in grado non soltanto di conoscere l’essere, ma addirittura di correggerlo. Questa è la tecnica: conoscenza, manipolazione e elaborazione dell’ente. Prosegue Sini dicendo Tutto ciò è per Nietzsche una “profonda illusione”, un “sublime delirio metafisico”. Poco più avanti a pag. 128. Con la Nascita della tragedia Nietzsche non denuncia soltanto le radici del mondo storico-scientifico occidentale: ne dichiara anche il tramonto. È proprio nella luce del tramonto che si rivelano le radici. “Ora però la scienza – scrive Nietzsche – spronata dal suo possente delirio, s’affretta incessantemente verso i termini ultimi, dove s’infrange il suo ottimismo celato nell’essenza della logica”. Va ricordato che gli ultimi anni dell’800 non sono stati soltanto gli anni del prorompente sviluppo della tecnica ma anche della logica, i grandi logici sono della fine ‘800 inizio ‘900. Sini dice che in Nietzsche ne La filosofia nell’epoca tragica dei Greci (1873) In tale contrapposizione emerge, in modo ormai centrale, il tema del linguaggio. Il linguaggio filosofico, prima della sua degenerazione scientifica con Socrate-Platone (la dialettica), ripudia l’intelletto che calcola e misura e che procede, con le sue sottili distinzioni, con greve e guardingo passo, sempre preoccupato della solidità dei suoi sostegni. Trovare i principi, questa è la metafisica. Il linguaggio filosofico, con il suo cogliere globale, con il suo intuire a volo eguaglianze e analogia, gli è sempre dinanzi. La filosofia, con agile piede, getta pietre per guardare il fiume e raggiunge la riva con rapidi balzi, anche se le pietre gettate affondano immediatamente dopo il suo passaggio. (pagg. 129-130) Queste pietre sono metafore dei princìpi. Stabilito un principio da lì posso partire ma questo principio, appena appoggio il piede affonda. La retorica, arte greca per eccellenza, consente infatti di gettare uno sguardo sulla natura profonda, non dell’uomo greco soltanto, ma del fenomeno umano in generale. La retorica è una techne non una scienza, ma è anche ciò che rende possibile il linguaggio della scienza, al quale fornisce i contenuti impliciti, inavvertiti e obliati (“c’è una mitologia nascosta del linguaggio”, scriverà Nietzsche nel Viandante e la sua ombra). E prima ancora di essere una techne la retorica è una dynamis, una “forza”, e più esattamente una “forza persuasiva”… Dice che la retorica è una techne. Con techne si allude all’uso che presumibilmente i Greci facevano del termine techne, che non è il termine tecnica che usiamo oggi. Come abbiamo, con techne si intende tutto ciò che l’umano produce, è la produzione umana, è il dire stesso. Dice che la retorica è anche ciò che rende possibile la scienza e qui c’è ciò che diceva Heidegger a proposito della chiacchiera: noi nasciamo nella chiacchiera, tutto ciò che gli umani hanno costruito di grande appoggia su quelle pietre, di cui parlava prima Nietzsche, che affondano ogni volta che appoggio il piede. Quindi, è la chiacchiera ciò che costituisce il fondamento, è quella che Peirce chiamava la verità pubblica, ciò che si crede, ciò che i più pensano per lo più; è questa la verità, il principio, il fondamento. Adesso parla Nietzsche (pag. 131) La forza che Aristotele chiama retorica, che è la forza di mettere in luce e di far vedere, per ciascuna cosa, quel che è efficace e impressiona, questa forza è nello stesso tempo l’essenza del linguaggio: tale essenza si riferisce tanto poco quanto la retorica al vero, all’essenza delle cose; essa non vuole istruire, ma trasmettere ad altri un’emozione e un apprendimento soggettivi. La retorica vuole solo controllare l’altro, piegandolo al proprio volere. Però, ha detto una cosa importante qui Nietzsche, e cioè che la retorica è l’essenza del linguaggio, e pertanto l’essenza del linguaggio è volere controllare l’altro. Adesso è Sini che parla Il linguaggio non è sorto infatti in funzione della verità, o allo scopo di chiarire la verità. Esso deriva dalla forza retorica originaria, forza che ha di mira il persuadere, il far valere (e cioè i valori), e non il vero. D’altra parte l’uomo stesso (che poi coincide nella sua più intima essenza e “natura” con ‘istinto metaforico del linguaggio) “non è stato fatto per la conoscenza”, come si legge nel Libro del filosofo cui appartiene il frammento sulla filosofia presocratica già ricordato. La scienza è illusoria perché i suoi concetti sono “nomi”, e anzi nomi di dei mascherati, nomi di divinità perdute e obliate. La scienza, che vorrebbe “conoscere”, in fondo altro non fa, a sua volta, che “persuadere”, sebbene in modo nascosto e inconsapevole: … Questa è una tesi che riprenderà poi Feyerabend, filosofo della scienza. …allegoria inconfessata ed essa stessa allegorica in quanto è appunto la scienza, una divinità femminile, forse l’industriosa Athena sorta già armata dal cervello di Zeus. Tali analisi nicciane giungono a porre in questione le fondamenta stesse sulle quali era stata edificatala Nascita della tragedia. Retorica e linguaggio non sono infatti aspetti particolari dell’essere umano, ma, come s’è già accennato, ciò che costituisce l’uomo in modo originario. Retorica e linguaggio sono l’uomo, l’uomo è questo. Ora, ciò che caratterizza l’uomo è allora una “trasposizione” (Ubertragung) o “transfert”, che è insieme una simulazione (Verstellung), intesa come pervertimento-trasposizione della rappresentazione (Vorstellung). E bisogna aggiungere che la stessa rappresentazione è una trasposizione, in un rinvio infinito e senza fondo. Se l’uomo è retorica e, quindi, linguaggio, allora la retorica parla per metafore, parla per trasposizioni. La retorica è questo: parlare per sineddochi, metonimie, ecc. Di figure retoriche ce ne sono tante ma ogni figura retorica è sempre un parlare per trasposizione, cioè un trasportare una cosa da un posto a un altro per renderla più efficace, più persuasiva, che è poi lo scopo fondamentale. Quindi, la stessa scienza, la retorica, il linguaggio, altro non sono che questa continua trasposizione, questo rinvio infinito; esattamente quello stesso rinvio di cui parlava Peirce a proposito del segno. A pag. 132. Ma ciò che importa è che l’analisi sin qui condotta non riguarda solo il linguaggio concettuale, il linguaggio scientifico-dialettico, ma il linguaggio nella sua totalità. Il linguaggio originario, in genere tutto il linguaggio parlato, è un’astrazione e un oblio. Un’astrazione, in quanto spostamento continuo, e oblio, in quanto dimentica le sue origini. Heidegger direbbe la sua storicità, l’oblio di cui parla è anche questo, l’oblio dell’essere, ciò che fa di quello che è quello che è, e cioè il mio progetto, ecc. Ciò rende molto più sfumati i rapporti tra arte e filosofia, mito e scienza. Filosofia e scienza appaiono ora come astrazioni delimitate entro la sfera del linguaggio mitico-retorico… Il linguaggio mitico-retorico è per Nietzsche il fondamento del linguaggio. …ma per sua essenza il linguaggio (mitico oppure scientifico) è retorico, e cioè analogico, metaforico, mitologico; cioè, in una parola, estetico (artistico); ma i poeti –possiamo ricordare con Esiodo – “mentono troppo”. La stessa arte, quindi, come sapienza dionisiaca, è qualcosa di menzognero e di trasposto. La metafisica dell’arte, espressa nella Nascita della tragedia, è dunque una metafisica dell’illusione e Wagner, il grande “attore”, che ne è l’incarnazione, è un illusionista, una pericolosa forza di persuasione, un retore. (pagg. 132-133) Da qui naturalmente l’abbandono di Nietzsche nei confronti di Wagner. Dalla nota 7 a pag 133 Secondo Heidegger in Platone si manifesta quello spostamento nel concetto di verità che conduce dalla alètheia alla veritas. Platone, cioè, non pensa più l’alètheia come il movimento del disvelarsi, del “non esser più nascosto” dell’ente, ma la intende come idea, cioè come “visione” dell’ente già disvelato (visione dell’essentia, distinta dall’existentia). La verità come idea, come “visione”, dà origine così al problema del conoscere, del rapporto soggetto-oggetto, della “esatta” adeguazione fra il vedere e il visto, fra uomo e mondo, che è anche punto di partenza, oltre che del pensiero metafisico-scientifico-tecnico, di tutto l’”umanesimo”. Come avevamo già visto in Heidegger, questo è ciò che Nietzsche mette in evidenza, e cioè la metafisica della visione, del vedere correttamente come stanno le cose. A pag. 134. Il problema del linguaggio, in relazione al tema della verità, riemerge nel saggio dell’estate del 1873 Su verità e menzogna in senso extramorale, saggio col quale concludiamo il rapido esame di questi anni cruciali che hanno preparato in Nietzsche la “crisi” del 1876. L’analisi di Nietzsche riguarda innanzi tutto la natura dell’intelletto e il valore della conoscenza. “L’intelletto, come mezzo per conservare l’individuo, spiega le sue forze principali nella finzione”. È una critica diretta contro la scienza, ovviamente. Infatti, prima la indicava come una “furberia”. In generale Nietzsche muove verso la completa svalutazione della sfera della coscienza, intesa come fantasmagoria, come sogno illusorio. La coscienza è un luogo di apparenze, uno spazio di visioni (nel sogno come nella veglia), una ingannevole zona di luce che nasconde la vita reale e profonda. L’uomo, “confinato” nella coscienza, resta “lontano dall’intreccio delle sue viscere, dal rapido flusso del suo sangue, dai complicati fremiti delle sue fibre”. L’uomo ignora se stesso, la sua realtà fisiologica, il fondo passionale del suo essere. Che è esattamente ciò che dice Freud quando parla delle fantasie, fantasie sessuali, fantasie erotiche; sono queste quelle cose su cui la persona costruisce la sua coscienza e anche la sua conoscenza. Muovono da lì, certo, anche dalla chiacchiera, ovviamente, su cui fondano le loro radici tutte le fantasie sessuali. Quando Freud parla, ad esempio, del complesso edipico… perché occorrerebbe rimuovere dei desideri sessuali infantili? A che scopo? Per via della chiacchiera, perché si dice che è male, è questo il motivo, non ce ne sono altri. Poi, c’è una citazione di Nietzsche La natura ha gettato via la chiave, e guai alla fatale curiosità che una volta riesca a guardare attraverso una fessura della cella della coscienza… Qui sembra di leggere Freud. …in fuori e in basso, e che un giorno abbia il presentimento che l’uomo sta sospeso nei suoi sogni su qualcosa di spietato, avido, insaziabile e, per così dire, sul dorso di una tigre. Quando Freud parla del bambino perverso polimorfo dice esattamente le stesse cose. Finita la citazione, Sini dice Se dunque l’intelletto è al servizio della sopravvivenza e non della verità, come sorge allora la pretesa della verità? Che tale pretesa muova da un impulso “onesto e puro” è impensabile. L’intelletto, come mezzo per conservarsi, è sin dall’inizio una finzione, un’astuzia rivolta agli altri individui per non soggiacere alla loro forza. Piuttosto la pretesa della verità nasce dal patto sociale fra gli uomini; in tale patto “viene fissato ciò che in seguito dovrà essere la “verità”; in altre parole viene scoperta una designazione delle cose uniformemente valida e vincolante, e la legislazione del linguaggio fornisce altresì le prime leggi della verità. Sorge infatti per la prima volta il contrasto fra verità e menzogna”. Da un lato dunque verità e menzogna sono valori sociali; essi non riguardano la “conoscenza pura” (verso la quale gli uomini non hanno interesse), ma il bisogno pratico di non venire ingannati dai propri simili e consoci. Da un altro lato verità e menzogna riguardano il corretto uso delle convenzioni linguistiche, esse stesse sorte non per conoscere, ma per accordarsi nell’azione sociale. Che è allora ciò che noi chiamiamo “verità”? Qui una citazione di Nietzsche. Un mobile esercito di metafore, metonimie, antropomorfismi, in breve una somma di relazioni umane che sono state potenziate poeticamente e retoricamente, che sono state trasferite e abbellite e che dopo un lungo uso sembrano a un popolo solide, canoniche e vincolanti: le verità sono illusioni di cui si è dimenticata la natura illusoria, sono metafore che si sono logorate e che hanno perduto ogni forza sensibile, sono monete la cui immagine si è consumata e che vengono prese in considerazione soltanto come metallo, non più come monete. Sinora noi non sappiamo onde derivi l’impulso verso la verità, sinora infatti abbiamo inteso parlare soltanto dell’obbligo imposto dalla società per la sua esistenza: essere veritieri, cioè servirsi delle metafore usuali. Ecco che cos’è l’essere veritieri: servirsi delle metafore usuali, quelle riconosciute da tutti, cioè, stare nella chiacchiera. Conclude dicendo L’espressione morale di ciò è dunque la seguente: sinora abbiamo inteso parlare soltanto dell’obbligo di mentire secondo una salda convenzione, ossia di mentire come si conviene a una moltitudine, in uno stile vincolante per tutti. A pag. 136. …l’uomo crede, nel processo che va dal grido alla parola articolata e al concetto, di avere le cose stesse “immediatamente dinanzi a sé, come oggetti puri”; ma in tal modo dimentica “che le metafore originarie dell’intuizione sono pur sempre metafore, e le prende per le cose stesse”. Sta dicendo, in altri termini, che tutto ciò che la scienza stabilisce non è altro che il frutto, il prodotto, l’estensione di antiche metafore, quindi, della retorica. Cioè, la scienza affonda le sue radici, ha il suo fondamento, nella retorica. Tutta la storia dell’umanità si configura allora come una creazione estetica. L’uomo è un “soggetto artisticamente creativo”, che tuttavia ignora di essere tale: crede nelle sue metafore, nei sogni della sua coscienza, e solo a questo patto “può vivere con una certa calma, sicurezza e coerenza”. Qui ci sarebbe da fare un richiamo a Spinoza, alla sua Etica, e magari lo faremo. L’uomo è affondato nella retorica, nella chiacchiera, nella “verità pubblica”, ma non lo sa, non lo sa più, e crede che la metafora descriva la realtà delle cose. La metafora è una trasposizione e, quindi, un segno, come qualunque cosa. La verità, cui allude Nietzsche, è la conoscenza, che poi sarà quella dell’oltreuomo, e cioè la verità di chi giunge a intendere quella cosa che per lui è stata la più importante, e cioè l’elaborazione del concetto di eterno ritorno, cioè, in definitiva, della volontà di potenza. A pag. 138 Sini cita uno dei testi più famosi di Nietzsche, Al di là del bene e del male. Ciò che è all’opera sin da Umano, troppo umano è lo smascheramento di quella “scientificità” che prende nome e origine dalla metafisica… E qui cita Nietzsche. Al di là del bene e del male è forse il testo che più interessa noi, non è certo il più importante ma lo è per il lavoro che stiamo facendo. Dice, dunque, Nietzsche Come può il razionale nascere da ciò che di ragione è privo, la logica dalla non logica, la contemplazione disinteressata da quella concupiscente, la vita per gli altri dall’egoismo – è il problema della nascita degli opposti. Più esattamente: non si tratta di antagonismo, bensì solo di una sublimazione (qualcosa viene di solito sottratto). Qui di nuovo torniamo a Freud quando diceva, per esempio, che tutta la civiltà si è potuta costruire sulla sublimazione dei desideri sessuali inconsci. In effetti, ci sono molte cose di Nietzsche in Freud, perché entrambi, insieme a Marx, sono stati quei tre autori che vengono spesso indicati in filosofia come la scuola del sospetto, quelli che hanno incominciato a sospettare che forse le cose non sono così come si è sempre pensato che siano. Ciascuno ovviamente a modo suo, però, c’è il sospetto di qualcosa di diverso. In due modi il “filosofare storico” smaschera la metafisica. Da un lato mostra che gli interrogativi metafisici nascono dall’uomo di 4000 anni fa: un periodo irrisorio rispetto alla precedente evoluzione dell’uomo (ciò che altrove Nietzsche chiama “la storia più lunga dell’uomo”); un periodo di anni “durante i quali l’uomo non può essere gran che cambiato”. Oggi sappiamo che gli umani esistono da 4 milioni di anni, giorno più giorno meno, quindi 4000 anni sono niente… e prima? Cosa facevamo? Il filosofare storico si mostra più propriamente come un filosofare “preistorico” che sterra le radici dell’uomo cosiddetto “storico”. Da un altro lato il filosofare storico elimina quanto v’è di “umano, troppo umano” nell’atteggiamento metafisico… (pagg. 138-139) Come dire: badate che la metafisica è nata ieri, cioè, se vogliamo pensare storicamente dobbiamo fare uno sforzo che va ben al di là della metafisica, che è l’ultima arrivata, e non parliamo della scienza. …la volontà di illudersi, l’ottimismo logico-socratico, il bisogno di sublimare e giustificare razionalmente ciò che verrà presto rubricato da Nietzsche sotto il titolo di “volontà di potenza”. Tutto ciò che gli umani fanno, come ormai abbiamo detto tante volte, è mosso unicamente dalla volontà di potenza, cioè dal linguaggio, cioè dalla retorica, cioè dalla chiacchiera. Sono tutti modi per indicare uno stesso fenomeno. Il filosofare storico esige perciò un processo di disumanizzazione. Il filosofare storico, cioè, quello che non prende avvio dalla metafisica ma pensa in modo più radicale a un progredire di milioni di anni. Questo, secondo Nietzsche, è un processo di disumanizzazione; per lui, in effetti, il grave torto della filosofia, il grande problema della filosofia, è che considera l’uomo così com’è adesso e, quindi, elabora tutti i suoi sistemi partendo dall’uomo che ha di fronte, ma questo uomo che ha di fronte viene da 4 milioni di anni; anche se mi fermo alla metafisica, la metafisica è nata 4000 anni fa, e tutto il resto? Noi veniamo da laggiù, non da qui. Se noi consideriamo l’uomo così come lo vediamo adesso pensiamo malamente, pensiamo a una cosa piccolissima, che non tiene conto della storicità. Sarebbe come non tenere conto del fatto che mentre stiamo parlando parliamo l’italiano, che ha una sua storia, e noi siamo anche fatti di questa storia. Momento essenziale di tale processo è la critica al linguaggio “come presunta scienza”. Il linguaggio come qualche cosa che serve, come strumento, per dire come stanno le cose. È nel linguaggio l’illusione prima della metafisica: illusione di potere, mediante il linguaggio, “sollevare dai cardini il resto del mondo e rendersene signore; l’uomo… E qui cita Nietzsche. … credeva veramente di avere nel linguaggio la conoscenza del mondo. Il creatore di linguaggio non era così modesto da credere di dare alle cose appunto solo denominazioni; al contrario egli immaginava di esprimere con le parole la più alta sapienza sulle cose; in realtà il linguaggio è il primo gradino nello sforzo verso la scienza. Poco più avanti dice E si veda anche la “filosofia della grammatica” dell’aforisma 20 e la “superstizione dei logici” dell’aforisma 17, dove è ulteriormente chiarito il nesso fra superstizione del soggetto e linguaggio… Soggetto e linguaggio posti come oggetti superstiziosi, oggetti metafisici. …non è il soggetto, l’io, che pensa; è un esso che pensa (più esattamente che è pensato); ma anche l’esso “contiene già un’interpretazione del processo e non rientra nel processo stesso. Si conclude a questo punto secondo la consuetudine grammaticale…”. A parte l’inevitabile richiamo a Freud, l’Es, nel suo saggio L’Io e l’Es, in effetti è ciò che parla, ciò che pensa, e questo lo dirà Lacan dopo Freud, però, già in Freud c’è questa idea, che l’Es, che è una parte preponderante di ciò che è inconscio, comporti gli impulsi primordiali, le fantasie più recondite, le cose più “animali”. Ma c’è un qualche cosa in più: è un esso che pensa ma anche contiene già un’interpretazione del processo e non rientra nel processo stesso. Cosa vuol dire? Qui c’è ancora Peirce. Cosa ci sta dicendo Nietzsche quando dice che questo Es, it in inglese contiene già un’interpretazione? Che esso stesso è già un’interpretazione. Questo Es, di cui parla Freud, e che dovrebbe essere lì come un oggetto metafisico, immobile, identico a sé, che è lì dai primordi (questa era la posizione che prese Jung), è invece lui stesso un segno, non c’è prima dei segni, non è un qualche cosa che è già lì. Che cosa comporta questo? Comporta che se di Es a tutti i costi vogliamo parlare, cosa che peraltro nessuno ci obbliga a fare, che cosa ci troviamo nell’Es? Non possiamo trovare altro che altri segni, ovviamente. Troviamo segni che rinviano ad altri segni, cioè, in altri termini ancora, il fatto che ciascuna parola rinvia a un’altra parola, che però non è presente: quando io dico una cosa, quella rinvia a un’altra, ma quell’altra, mentre dico la prima, non è presente, non c’è, lo sarà, forse, ma non è presente. Per dirla differentemente con de Saussure: un significante è quello che è in relazione differenziale con tutti gli altri significanti; e mentre dico quel significante, tutti gli altri dove sono? Ci sono anche se non li dico, ci sono perché senza quelli non ci sarebbe questo. È questo l’inconscio? Per Freud no ma, se proprio dobbiamo dare all’inconscio uno statuto, sarebbe questo, cioè, il fatto che mentre dico qualche cosa questo qualche cosa è vincolato ad altre cose. Chiaramente, la questione è più complessa perché quali altre cose sono vincolate? E, allora, qui interviene Nietzsche: sono quelle che mi servono per la volontà di potenza. E perché alcune vengono cancellate o, come direbbe Freud, rimosse? Perché? Sono quelle che, per qualche via, per via della chiacchiera, io ritengo che potrebbero depotenziarmi e, allora, le cancello, perché sono pericolose. Certo, la cosa posta in questi termini diventa molto più semplice di come la pone Freud. Partendo dal funzionamento stesso del linguaggio, su cui abbiamo sorretto il concetto di volontà di potenza di Nietzsche, che se non avesse avuto questo supporto sarebbe stato un mito al pari di qualunque altro, si può allora intendere bene come funziona la volontà di potenza nella parola, cioè parlando, come tutto ciò che concorre, e questo lo rilevava già Heidegger parlando di Nietzsche, al superpotenziamento è vero e ciò che mi depotenzia è falso. Ecco che cosa sono il vero e il falso. Qui a pag. 140 c’è qualcosa di interessante. È Nietzsche che parla. La volontà di verità… Quella della scienza. Cosa diceva Aristotele? Plato amicus sed magis amica veritas. Platone è un amico ma lo è di più la verità. La volontà di verità che ci sedurrà ancora a molti rischi, quel famoso spirito di verità di cui tutti i filosofi fino a oggi hanno parlato con venerazione: questa volontà di verità, quali mai domande ci ha già proposto? Quali malvage, bizzarre, problematiche domande! È già una lunga storia – eppure non si direbbe, forse, che essa sia appena cominciata? Che si debba anche da parte nostra imparare da questa sfinge a interrogare?... Qui se la prende con la filosofia, con la metafisica, con l’interrogare per sapere come stanno le cose, che è diverso dal modo in cui Heidegger parla dell’interrogazione. Più che dell’interrogazione parla del problema, del problematizzare, del mettere a tema e, quindi, problematizzare. È un’altra accezione, non è per sapere come stanno le cose ma per chiedere a queste cose di dire ancora, nella piena consapevolezza che queste domande non potranno in nessun modo dire come stanno le cose. Chi è propriamente che ora ci pone domande? Che cosa in noi tende propriamente alla verità? In realtà abbiamo sostato a lungo dinanzi al problema della causa di questo volere… Si chiede: perché cerchiamo la verità? Che ce ne facciamo? È chiaro che poi lui dà una sua risposta: la verità serve alla volontà di potenza. …Posto pure che noi vogliamo la verità: perché non, piuttosto, la non verità? E l’incertezza? E perfino l’ignoranza? Il problema del valore della verità ci si è fatto innanzi – oppure siamo stati noi a farci innanzi a questo problema? Chi di noi in questo caso è Edipo? Chi la Sfinge?... Cioè, chi interpreta e chi risponde? …Pare che si siano dati convegno interrogazioni e punti interrogativi. – E si potrebbe mai credere all’impressione, nata, in definitiva, in noi, che il problema non sia stato finora mai posto – che siamo stati noi per primi ad averlo intravisto, preso di mira, osato? Giacché esso comporta in rischio e forse non esiste rischio più grande. Questo è ciò che diceva anche Heidegger: porsi il problema. Heidegger lo poneva in questi termini: che cos’è rimasto da pensare, che era da pensare già allora, cioè prima della metafisica e che non è stato pensato. Che cosa non è stato pensato e che, invece, sarebbe stato opportuno pensare? Il problema del linguaggio, ovviamente.