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28 febbraio 2024

 

Aristotele Fisica

 

Dobbiamo fare alcune considerazioni che muovono dalla lettura dell’Organon. Aristotele nell’Organon ha posta una cosa importante, e cioè che non esiste il pensiero epistemico, la certezza del pensiero. Perché non c’è? Perché non esiste la verità epistemica, quella che comunemente si chiama la verità assoluta, e non esiste allo stesso modo in cui non esiste Dio, per gli stessi motivi e alla stessa maniera. Potremmo dire che la verità epistemica è l’animale fantastico della volontà di potenza, che ha costruito questa cosa, che non esiste da nessuna parte, siamo noi ad averla costruita, esattamente come Dio. Aristotele, però, dice anche altre cose. Per esempio, pensate all’obiezione degli scettici, che dicevano che, se non esiste la verità, allora anche questa proposizione non è vera: se non c’è la verità anche questa proposizione non potrà mai essere vera. Ma questa obiezione, che oggi risulta abbastanza ingenua e sprovveduta, si dissolve da sé perché non è che non ci sia la verità; infatti, abbiamo detto che non c’è la verità epistemica ma c’è la δόξα, c’è la verità come δόξα, che è l’unica verità di cui disponiamo. La questione interessante è che se non c’è έπιστήμη – traduzione della veritas latina – rimane l’ἀλήθεια. Dell’ἀλήθεια si è detto molto, soprattutto da parte di Heidegger, ma si è detto in particolare che non se ne sa più nulla… Heidegger aveva chiesto ai filologi come veniva inteso questo termine ἀλήθεια, ma già con Omero era inteso come veritas. L’ἀλήθεια è il disvelamento, che appare così come appare. Certo, ma come appare? Appare a ciascuno insieme – qui torniamo ad Aristotele – con le sue determinazioni, e cioè appare con le sue categorie. Tornando alle Categorie di Aristotele, la sostanza non c’è, ci sono le parole che la dicono, che la raccontano, ma la sostanza senza queste altre cose non c’è. Questo è ciò che ci consente oggi di intendere bene quello che diceva Heidegger, quando parlava del mondo: ciascuno è nel mondo, ma nel suo mondo, ciascuno è questa cosa che vede le cose attraverso le sue determinazioni, attraverso le sue categorie. Aristotele, quando parla della δόξα, anche se non lo dice ovviamente, è come se in qualche modo evocasse l’ἀλήθεια, cioè, una verità che viene da lontano, che viene dai miti, da racconti, ecc., e che è la verità di cui siamo fatti, quella verità che ci consente di esistere, di muoverci nel mondo e senza la quale non potremmo fare niente. Perfino Husserl diceva la Lebenswelt, il mondo della vita, non è altro che questo: le cose che abbiamo imparato fin da piccoli e grazie alle quali sappiamo come muoverci nel mondo ed evitiamo di andare a sbattere. Ma la cosa qui interessante rispetto all’ἀλήθεια è la possibilità di una sua rivalutazione, perché in fondo è stata abbandonata. Certo, ἀλήθεια è stata tradotta con verità, sì, ma quale verità? Non quella epistemica, ovviamente. L’ἀλήθεια è l’apparire della cosa così come appare, mentre la verità epistemica… Perché non esiste la verità epistemica? Tutti quanti, più o meno, dicono la verità assoluta non c’è, anche se poi, di fatto, vi fanno riferimento ininterrottamente. Dunque, perché non c’è? Perché la verità epistemica, per potere essere quella che dice di essere, deve essere una; la verità deve essere una ed esclude qualunque altra cosa: se 3 più 2 fa 5, questo esclude qualunque altra possibilità. Dunque, deve essere una – qui siamo in pieno Platone –, quindi, l’Idea, assoluta, indivisibile, inamovibile e assolutamente certa. Ma a quali condizioni è tutte queste cose? A condizione che abbandoniamo, separiamo i molti. Ma i molti non sono altro che le determinazioni, sono le categorie; quindi, la verità, per essere una, deve essere senza categorie, ma, se è senza categorie, è nulla, è assolutamente niente. È un po’ come accade con Platone, che voleva cogliere l’ente senza nessuna determinazione: togliendo la determinazione toglie anche l’ente. Per questo, dunque, non c’è la verità come uno. Rimane il riferimento alla verità come uno, condizione platonica ripresa poi dal neoplatonismo: la verità come uno che fa da sfondo, da riferimento e, soprattutto, da garanzia che quello che stiamo dicendo e affermando non sia una cosa totalmente squinternata. Tutti questi grandi concetti, come il vero, il bello, il giusto, ecc., hanno sempre come riferimento l’uno, a cui tendono. E questo uno è Dio, come diceva Guglielmo di Ockham. Questa garanzia è l’Uno, è la possibilità che ci sia questo Uno, anzi, la necessità che ci sia questo Uno come riferimento. Perché senza questo riferimento c’è un problema. Sono i problemi che Aristotele ha rilevato nell’Organon, cioè, nella logica: se non c’è l’uno come riferimento, allora ciò che chiamiamo sapere è nient’altro che un racconto, un racconto che non ha alcun fondamento, non ce l’ha e non può averlo in nessun modo. Lo diceva nell’Organon: non c’è fondamento, perché per farlo devo costruire un’argomentazione, quindi, dei sillogismi, quindi, una premessa maggiore, stabilita per induzione, quindi, c’è l’analogia. Per tutto ciò non posso affermare nulla con certezza. Ecco, allora, la questione della δόξα, quindi, della verità come ἀλήθεια, non come έπιστήμη: possiamo solo raccontare. Certo, ci sono vari tipi di racconto, ma, dopo tutto, quello fa il pensiero teoretico, che spesso viene contrapposto al pensiero mitico, parte dal mito, potremmo dire dalla δόξα, fa un lungo giro e torna al mito; ma con un elemento in più, e cioè con la consapevolezza che non c’è uscita dal linguaggio. Mentre nel mito ancora si pensava – è da lì che, in fondo, è sorta la filosofia, come rimedio alle magagne del mito…

Intervento: Che non c’è il mito, è qualcosa che non è. È un movimento hegeliano.

Esattamente. Quella che Hegel chiamava dialettica. Questo ritorno al mito è un ritorno al mito con la consapevolezza dell’impossibilità di uscire dal mito o dall’ἀλήθεια. L’έπιστήμη è, come dicevo prima, l’animale fantastico della volontà di potenza, l’idea che ci sia l’uno come riferimento, l’Uno di Plotino, da cui discendono le ipostasi, l’Intelletto, l’Anima e, via via, tutto il resto. Ma questo cosa comporta in Plotino? Un pensiero importante, che è presente ancora oggi: quello del ritorno, della nostalgia, delle cose che vogliono ritornare all’Uno. Questo ritornare all’Uno ha avuto nel corso dei secoli varie configurazioni, ma soprattutto ciò che importa è che ci sia l’idea di potere ritornare all’Uno, su cui poi si è costruito il Paradiso e altre storie, come dire che c’è stata una caduta agli inferi e poi una risalita. Non si sa bene come, ma in Plotino le varie ipostasi ricordano l’Uno – il perché non è dato sapere bene, ma hanno nostalgia dell’uno e vogliono ritornare all’Uno. Questo è uno dei caposaldi del pensiero neoplatonico, che funziona a tutt’oggi. Tornare all’Uno, vale a dire, il pensiero che comunque ci sia sempre sullo sfondo un Bene assoluto, una verità assoluta, una giustizia assoluta, ecc., che fa da garante in fondo a ciò che stiamo facendo qui noi poveri mortali. Come vedete, è totalmente platonico lo scenario. In più c’è questa aggiunta di Plotino, cioè, la nostalgia dell’Uno, per cui tutti quanti gli elementi, anche quelli più infimi, vogliono ritornare all’Uno, quasi a conferma che l’Uno è il Bene assoluto. Poi, da lì è stato costruito il Paradiso e tutte le altre belle storie. Tutto questo è implicito nell’Organon aristotelico, cioè, nella logica o, più propriamente, in ciò che indicavo la volta scorsa come le falle della logica, lì dove si insinua il sofista, lì dove è possibile utilizzare il problema del linguaggio a proprio vantaggio. Anche questo è possibile sempre. Prendete un qualunque affermazione, anche quella che appare come la più incontrovertibile: l’essere è e il non essere non è. Nessuno avrebbe alcunché da obiettare di fronte a una cosa del genere, è palese a tutti e incontrovertibile, direbbe Severino. Quindi, sappiamo di che cosa stiamo parlando quando parliamo dell’essere. Di che cosa stiamo parlando quando parliamo dell’essere? Occorre determinarlo. Con che cosa? Con qualcosa che l’essere non è. Quindi, l’essere è in quanto non essere. E già qui l’affermazione di prima viene scompigliata e scardinata. Quindi, anche l’affermazione più potente, più forte, possiamo demolirla in quattro e quattr’otto, semplicemente utilizzando il modo in cui il linguaggio funziona. Tu dici che l’essere è. Sì, certo, perfettamente d’accordo. Quindi, sai che cos’è l’essere, è ovvio; dubito che tu possa affermare qualcosa senza sapere di che cosa stai parlando, dice il sofista. Va da sé che questo essere sia determinato da ciò che tu sai che lui è, ma queste determinazioni non sono l’essere, sono un’altra cosa; dunque, l’essere è a condizione di non essere. Questo è un esempio di come i sofisti e anche gli eristi utilizzassero il linguaggio per demolire qualunque affermazione, anche la più potente; e, in effetti, utilizzando il linguaggio non esiste, non può esistere, un’affermazione che non possa venire confutata, perché qualunque affermazione afferma qualche cosa ma, affermandola, necessariamente dice di quella cosa altre cose che non sono quella cosa lì; e, quindi, la sua affermazione viene immediatamente confutata, sul nascere. Tutte queste cose sorgono dai problemi che Aristotele ha riscontrato nella logica, anche se lui cercava di aggirarli. Lui si sarà sicuramente accorto che a questo punto i sofisti e gli eristi, tutto sommato, non avevano tutti i torti. D’altra parte, anche Platone, alla fine, dice: “Voi distruggete tutto ma non proponete niente”. In effetti, non era loro compito proporre alcunché; il loro compito era mostrare l’impossibile che c’è insieme a qualunque affermazione. Non hanno mai proposto una soluzione, semplicemente perché non c’è. La soluzione sarebbe uscire dal linguaggio e dall’esterno osservare quello che succede. Tutte queste cose sono in nuce nell’Organon perché è da lì che è sorta questa questione. Nell’Organon Aristotele, di fatto, anche se non lo dice esplicitamente, nega non soltanto l’esistenza ma la possibilità dell’esistenza di una verità epistemica, ma esiste solo la verità della δόξα. Da qui il recupero dell’ἀλήθεια; ἀλήθεια come la verità di ciò che mi appare: questa cosa mi appare così, quindi, è vero così. Dell’ἀλήθεια poi non si è mai detto un granché, si è sempre ripetuto quello che dicevano i filologi: l’alfa privativa, il non nascondimento, la dimenticanza, qualche cosa che non appare, quindi, se lo nego, nego il disapparire e affermo l’apparire, quello che mi appare.

Intervento: …

Il problema è che l’ἀλήθεια, essendo qualcosa che mi appare così come mi appare, nega l’assoluta identità di quella cosa, che invece Plotino voleva assolutamente, per cui l’Uno è identico a sé. È un po’ come Dio: lui non è quello che tu pensi che sia oggi e domani non è quello che penserai di lui domani; no, Dio è Dio. È curioso e anche interessante questo recupero dell’ἀλήθεια. Come diceva Heidegger, il problema degli antichi è stato proprio quello di non avere affrontato, problematizzato e pensato quello che era da pensare, appunto, l’ἀλήθεια. Forse, neanche Heidegger si rendeva conto della portata di quello che stava affermando. Al punto in cui siamo, pensare l’ἀλήθεια apre una questione straordinaria, e cioè che l’unica verità di cui disponiamo è la δόξα, è l’unica, non possono essercene altre, perché se ci fosse sarebbe una, ma se è una si incappa in una serie di problemi irrisolvibili. Dicevo prima rispetto al pensiero mitico e a quello teoretico. In fondo, il pensiero mitico in cuor suo aspirava all’Uno, anche se con tutti i limiti, però, immaginava che potesse esserci; il pensiero teoretico, quando torna al mito, informa il mito che questo uno non c’è, ma c’è solo il mito, da cui non si esce.

Intervento: Il principio di ragione…

Questa ragione veniva fornita miracolosamente, dagli dei, dal fato, ecc., non c’era la ricerca delle ragioni del principio. I vari tentativi di Anassimene e degli altri, i vari principi come il fuoco, l’aria, l’acqua, ecc., non erano quelli in quanto tali ma era l’idea di qualche cosa che fosse in principio. Era un’idea innovativa, cioè, la ricerca del principio, cosa che nel mito non c’è, perché tutto è già dato: ci sono gli dei, è sempre stato così, cos’altro vai cercando? In fondo, il neoplatonismo ha rincarato la dose rispetto a questa idea della verità: l’ha confermata, istituzionalizzata. Come? Con la censura: c’è l’Uno ma non devi interrogarlo. E, difatti, qualche secolo dopo chi metteva in dubbio l’esistenza di Dio aveva i suoi problemi. Che cosa comporta questa ripresa dell’ἀλήθεια? Direi una consapevolezza, che ha a che fare con la percezione degli eventi. Noi percepiamo un evento, qualunque esso sia, e lo percepiamo a partire da che cosa? Naturalmente dalle cose che sappiamo, dalla δόξα, ma con un elemento in più, e cioè alcune cose di questi eventi ci appaiono reali, vere. Questo è inevitabile, ma il modificarsi di questa percezione degli eventi è come se, in un certo senso, impedisse a questa realtà, che è l’Uno, di istituirsi permanentemente nel mio discorso. Non è ancora molto chiara la cosa, però, sicuramente una cosa del genere comporta un’alterazione dell’approccio a ciò che accade. Ciò che accade è quello che accade per via delle sue determinazioni, ovviamente, determinazioni che non sono riconducibili all’έπιστήμη ma alla δόξα, sempre e comunque. Vale a dire, io vedo qualcosa che accade attraverso la δόξα, cioè, attraverso l’ἀλήθεια, non attraverso l’έπιστήμη. Vedo ciò che accade e so ciò che accade. Questo “so ciò che accade” è un mito, non so propriamente ciò che accade; in teoria, non so neanche qualcosa; poi, interviene la δόξα, tutto ciò che abbiamo imparato, quello che ci ha insegnato la nonna che, a sua volta, ha imparato da sua nonna, e così via.

Intervento: …

La tecnologia non crea soltanto i mezzi per muoversi rapidamente, ma crea la necessità di muoversi rapidamente. Il fatto che con un aereo io raggiunga Tokio in poche ore presuppone che io voglia fare questo viaggio in poche ore. Da dove mi arriva questa idea? Questa necessità è stata indotta dalla tecnologia: io fornisco gli strumenti per fare quello che occorre che tu faccia per utilizzare questi strumenti.

Intervento: …

Il capitalismo ha offerto la possibilità ad alcuni di diventare ricchi. Perché bisogna diventare ricchi? È l’idea neoplatonica, proprio di Plotino, che ci sia nostalgia dell’Uno, cioè del tutto, dell’assoluto: se io divento ricco divento padrone dell’universo e, quindi, ho il dominio sul tutto. Anche questa idea è stata indotta, indotta già con il neoplatonismo e poi con il cristianesimo: noi vi facciamo conoscere Dio, la massima potenza pensabile; come diceva Anselmo, la cosa più grande che si possa pensare; noi ve la offriamo, ve la facciamo conoscere. Non come volevamo gli gnostici – eritis sicut dii, sarete come dei – no, perché voi siete i molti; l’Uno rimane sempre lì, come sfondo, come qualche cosa a cui si deve aspirare ma che rimane irraggiungibile dagli umani. La tecnologia fa la stessa cosa: sempre più cose, sempre più aggeggi, ti avvicini sempre di più… Come diceva Popper: non possiamo avere la verità a portata di mano, però, attraverso il progresso e la scienza ci avviciniamo a mano a mano alla verità, è un avvicinarsi sempre di più. Il fatto è che se non sai che cos’è la verità, non sai nemmeno se, in realtà, ti stai avvicinando oppure allontanando. Già nelle prime battute della Fisica di Aristotele c’è una cosa straordinaria, e cioè l’idea che non c’è qualche cosa di prioritario. Δύναμις, ἐνέργεια, έντελέχειᾳ, integrazione: che cosa ci dice questa relazione? Che non c’è il dominio della δύναμις sull’ἐνέργεια e viceversa, ma che si coappartengono. Quindi, manca la possibilità del dominio di una cosa su un’altra, quindi, di stabilire un principio. E questa possibilità viene negata proprio da lui che per tutta la vita ha cercato il principio primo. Non è un caso che a un certo punto Teofrasto scivoli verso Democrito, e cioè: se non c’è la possibilità di stabilire alcunché, allora siamo a Democrito, al totale caos, nella casualità più totale. Ovviamente, Teofrasto non può affermarlo, però, non dà nemmeno torto a Democrito. Questa impossibilità di stabilire un principio è palese nell’Organon di Aristotele quando dice che la dimostrazione muove da una definizione, ma che la definizione non ha nessuna dimostrazione… più chiaro di così. Per il momento è come se stessimo mettendo un po’ di elementi che ci saranno utili per quel lavoro che abbiamo in animo di fare, dopo questa lettura della Fisica di Aristotele, e cioè vedere, passo dopo passo, come si è costruito il pensiero di cui siamo fatti. Si tratta di comporre questo insieme di elementi che apparentemente sembrano andare ciascuno per conto suo, perché invece c’è una direzione, c’è sempre stata, e la direzione è quella voluta dalla volontà di potenza. La volontà di potenza ha imposto una certa linea, che è stata poi quella del neoplatonismo e del cristianesimo. È la volontà di potenza che impone, ci deve essere un Dio per dominare tutto, e, se io domino lui, perché ne ho il controllo, allora domino l’universo intero.