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28 febbraio 2018

 

C. Sini, Semiotica e filosofia

 

La semiotica è qualcosa su cui merita riflettere. Considerate ciò che dice Peirce rispetto al segno, ai tre aspetti del segno. Prendete la formuletta più banale: a è b, questa è un segno, come qualunque cosa, ma a Peirce questa formuletta serve per mostrarci tre aspetti fondamentali del segno: la qualità, cioè la cosa così come si mostra, e questa sarebbe la a; poi la è, la copula, che è ciò che consente l’apertura, la possibilità di essere qualcosa; quindi, la b, che è il qualche cosa che la a è. Cosa ci mostra tutto questo? Intanto, ci mostra una questione che è molto antica, e cioè il fatto che, come abbiamo detto varie volte, per dire una cosa ne devo dire un’altra, per mostrare qualche cosa devo mostrare qualche cos’altro. Problema antichissimo che, tuttavia, la semiotica, e Peirce in particolare, ha cercato di intendere in modo più proficuo. Tutto ciò che abbiamo detto fin qui è, certo, un modo per intendere sempre di più e sempre meglio il funzionamento del linguaggio e, quindi, come si strutturano le parole, come accadono le parole. È una cosa incredibilmente complessa, naturalmente, che Peirce ha cercato di risolvere attraverso la sua nozione di segno. Non è che risolva propriamente la questione, però è come se avesse formalizzato in qualche modo questo problema del linguaggio, che esiste da sempre. Questo problema non riguarda soltanto i semiologi, i linguisti, gli psicoanalisti e i filosofi, ma riguarda ciascuno: per dire una cosa devo dirne un’altra. Questo conduce immediatamente a qualche cosa di cruciale, cioè la perdita di controllo, la non controllabilità delle cose. Se si riflette si considera immediatamente che se voglio avere il controllo su una cosa questa cosa devo esprimerla, devo dirla o pensarla, e facendo questo mi trovo spostato su altro, e su questa cosa, della quale volevo avere il controllo, non ho più alcun controllo. Vorrò, allora, avere il controllo sulla cosa su cui la prima si è spostata, e ricomincio da capo. Questo fatto è il problema che è da pensare, non da risolvere, perché anche parlare di risoluzione comporta già una serie di altre cose che possono condurre a considerare ancora che non c’è soluzione o che se c’è comunque questa soluzione trovata non sarà quella cosa che voglio, perché non l’avrò controllata, non avrò la possibilità di tenerla, come si suole dire, in mano. Un problema, dunque, che riguarda i parlanti: tutti coloro che parlano incontrano questo problema, e cioè la perdita di controllo mentre si parla. Perché c’è questa illusione di controllo? Questo viene dal modo in cui funziona il linguaggio. Peirce, senza volere, ce lo mostra in questa formuletta a è b, ci mostra che la è, la copula, mostra la possibilità, come dice lui giustamente, di definire la a, cioè di dare alla a un significato. Se non ci fosse questa è non ci sarebbe questa possibilità, non ci sarebbe neanche il linguaggio e, siccome il linguaggio funziona in quel modo, si è costretti a compiere questa infinita operazione che porta ciascuna volta allo spostamento di una cosa sull’altra, la semiosi infinita è questo. Sarebbe interessante riflettere su questo, perché a questo punto è l’impossibilità del controllo a essere l’origine di tutto ciò che agli umani pare essere qualcosa di impossibile, di irraggiungibile, con tutte le storie che si sono inventate intorno questo, dalla questione dell’angoscia, al desiderio che non trova mai il suo oggetto. Tutte queste storie sembrano trarre la loro origine dal modo in cui funziona il linguaggio. Il linguaggio funziona a questo modo, cioè quando afferma qualche cosa, per potere definire ciò che ha affermato lo sposta. Non è una cosa nuova ovviamente, è un aspetto del funzionamento del linguaggio, e cioè che da una parte è necessario che qualche cosa venga fermata per potere dirsi, ma al tempo stesso per potere dirsi deve dire un’altra cosa.  È questo che costituisce, diciamola così, il nucleo del problema, ed è un problema che non è risolvibile: è il linguaggio che funziona così, e di questo non si può che prendere atto. Questo problema è lo stesso che abbiamo trovato in altri pensatori, tutti i pensatori, se sono tali, prima o poi si scontrano con questa cosa, che è irresolubile, perché se si parla si è necessariamente presi in questo scivolamento continuo, in questa impossibilità di fermare, di controllare qualcosa, o, meglio, posso controllare questa cosa ma nel controllare questa cosa diventa un’altra cosa. Ciò su cui è il caso di mettersi a riflettere bene è questo: che cosa oggi noi possiamo fare, se non avvertire qualcuno, che ha voglia di ascoltarci, di questo, e cioè che, parlando non può avere il controllo di quello che dice, ma motivando questa cosa, non per chissà quale storia, ma perché dicendo una qualunque cosa questa cosa, per potere dirsi, per potere definirsi, per potere dire che cos’è ciò di cui sto parlando, devo dire un’altra cosa. C’è un altro aspetto anche questo importante. Peirce dice a è b, la a è la qualità, ciò che appare, per Heidegger sarebbe la semplice presenza, ma questa semplice presenza non appare così da sé, appare nel momento in cui compare la b, perché finché non compare la b, per Peirce l’interpretante, e cioè finché non interpreto la a, questa a è niente. La è mi dice che c’è la possibilità di farlo, e quindi lo faccio, quindi dico che b è ciò che la a è. È un processo in cui ciò da cui si parte comincia a porsi nel momento in cui c’è la conclusione, l’arrivo, perché senza la b non potrebbe esserci la a. Questo problema anche Heidegger lo incontra, lui pone la questione in altri termini, ovviamente. Adesso, poniamo la questione di Peirce usando però il modo di approcciare la cosa di Heidegger. E cioè, una a appare, vediamo poi come appare, ma appare perché io sono progettato verso la b, ed è in questo progetto di occuparmi di b che a può apparire, che qualcosa può apparire. La è, invece, sarebbe l’orizzonte entro cui un ente può apparire, può darsi. Quindi, è come dire che, nell’occuparmi di un qualche cosa questo qualcosa appare, ma io mi occupo di qualche cosa se questo qualche cosa ha già in qualche modo un significato, cioè significa qualcosa per me, come direbbe Heidegger, è un utilizzabile. Io so già che è un utilizzabile, e come lo so? Lo perché sono nel linguaggio, perché ho già appreso una serie di cose che mi consentono di stabilire che questo è un utilizzabile, ma come lo ho appreso se non occupandomi di qualche cosa e, quindi, perché questo qualche cosa è all’interno di un progetto? Questo altalenare tra a e b, dove la è è soltanto la possibilità di questo altalenare, è la relazione che c’è in questo altalenare, questo movimento tra la a e la b è esattamente il funzionamento del linguaggio. Io mi occupo di qualche cosa ma per potermene occupare devo già sapere che questo qualche cosa è un qualche cosa. Come lo so? Lo so perché mi trovo nel linguaggio e, quindi, ciascuna di queste cose, anche l’apparire della a, è possibile solo se io sono già nel linguaggio. Se non fossi nel linguaggio la a non apparirebbe mai e, quindi, non ci sarebbe neanche tutto il resto. Però, qui sorge un altro problema. Abbiamo detto che il linguaggio è definito da questa formuletta, a è b, come dire che il linguaggio in questo modo rincorre se stesso. A è b, è il modo in cui funziona il linguaggio ma perché funzioni occorre il linguaggio. Perché il linguaggio ha questo funzionamento. Difficile dire il perché ma si tratta di porre a questo punto l’attenzione su un aspetto. Abbiamo detto che io incomincio a parlare a un certo punto e abbiamo anche detto come accade che io mi trovi ad apprendere il linguaggio, e cioè attraverso l’acquisizione di informazioni e di istruzioni per utilizzare queste informazioni. Incominciando a parlare c’è un qualche cosa che avviene simultaneamente mentre incomincio a parlare, e cioè la necessità di avere il controllo sulle cose: questa appare nel momento in cui incomincio a parlare. Il controllo delle cose è anche questo un aspetto del funzionamento del linguaggio. Il linguaggio fa questo: “vuole” controllare le cose, cioè vuole dire che cos’è, vuole attribuire a un qualche cosa un’altra cosa. A questo punto avete inteso la complessità della questione, come non sia facilissimo orizzontarsi in una questione del genere. Tuttavia, ciò che ci importa qui, almeno per il momento, è il trovare un’apertura in tutto ciò che ci consenta di fare un passo. Tutto ciò che ha detto e scritto Nietzsche è fondamentale, ovviamente, perché dice che tutto ciò che muove gli umani, la loro “verità”, è la volontà di potenza, cioè la necessità di superpotenziamento, di controllo. La necessità di controllare appare come il linguaggio stesso, che a un tempo impone la necessità di controllo e l’impossibilità del controllo. Certo, detta così è ancora molto imprecisa e vaga, però, è questa la questione con cui dobbiamo confrontarci. Senza ripercorrere tutto ciò che abbiamo detto riguardo al modo in cui si impara a parlare, che è il modo con cui abbiamo imparato a far funzionare le macchine, i computer, addestrandoli a pensare nel modo in cui noi pensiamo, ma, al di là di questo, possiamo soltanto reperire una struttura, un funzionamento, e, come dicevo prima, nella migliore delle ipotesi possiamo avvertire qualcuno del modo in cui funziona. Non possiamo fare nient’altro, non possiamo risolvere il problema, perché per risolvere il problema dovremmo cancellare il linguaggio e a questo punto svanirebbe la nozione stessa di problema, ma tenere conto del modo in cui funziona. Qual è il vantaggio? Intanto, non essere travolti dall’idea, attenendoci alla formuletta di Peirce, che la b sia davvero la a, cioè che mostri veramente che cosa è la a, perché è questo che accade se non si intende, e quindi trovarsi presi, per usare un termine di Severino, in una “follia”. La follia sarebbe pensare che le cose possano significare senza che questo significare rinvii immediatamente ad altro significare, e cioè, come dicevo prima, che non ci sia nessuna possibilità di controllo. Ma gli umani cercano il controllo perché parlano, perché è il linguaggio, il modo in cui funziona che li costringe a fare questo. Quindi, non è che fanno questo perché non sono capaci, non sono bravi, ecc., ma perché non possono non farlo. Questo è il modo con cui si può intendere la questione della chiacchiera in Heidegger: ciascuno nasce nella chiacchiera e vi ritorna costantemente nel momento in cui cerca di dare un significato alla a e crede che la b sia il vero significato della a. Questa è la chiacchiera: basarsi su qualche cosa che non ha nessuna possibilità di riuscita, nessuna possibilità, non dico di dimostrazione perché qui siamo al di là di ogni dimostrazione, non ha nessuna possibilità di garantire o di fermare qualche cosa, perché la b, nella chiacchiera sarebbe il modo di fermare la a. La a si sposta verso qualche cosa ma lì si ferma, eh già, ma la b? La b, a sua volta… Questo per dirvi come ciascun pensatore ha incontrato questo problema e a modo suo lo ha approcciato, tentando di risolverlo o comunque di dargli quanto meno una forma, di mostrarlo, di mostrare il problema. In questo Heidegger è stato molto bravo, occorre dire. Certo, ciò che è possibile fare non è molto, in effetti, anche se è qualcosa che nessuno ha mai fatto prima, anche solo mostrare il funzionamento in atto, cioè, di che cosa accade mentre si parla, in che modo cioè ci si ritrova incessantemente in una deriva di significati senza fine, la semiosi infinita, appunto. Ovviamente, come dicevamo la volta scorsa, non possiamo esimerci dal prendere in considerazione queste cose e attribuirle alle considerazioni stesse. È qui che ci si scontra con il vero problema del linguaggio. Dicevamo che tutto ciò che dice, anche qui lo stesso Peirce, di fatto, è nulla. Qual è l’escamotage di Peirce, che è un po’ simile a quello di Hegel? Soltanto alla fine, in un futuro. La verità altro non è che l’abito di ciascuno, perché in che modo stabilisco che a è b? Lo stabilisco in base a un criterio che è quello comune, non è che me lo invento. Quindi, la verità ultima di queste cose starebbe in un futuro immaginario dove questa verità comune trova la sua conclusione. Un po’ come Hegel, con il suo Spirito Assoluto: alla fine sappiamo tutto, e lo sappiamo perché non ci sono più la tesi e l’antitesi, perché queste sono oramai compiute definitivamente nella sintesi. È un escamotage, anche questo di scarso interesse: all’infinito questa cosa trova una soluzione. Non è che ci dica molto questa cosa. Si tratta invece di intendere come sta funzionando adesso e prendere atto del fatto che Heidegger, lo stesso Peirce e lo stesso Nietzsche, si sono trovati presi nel linguaggio, ovviamente, e quindi presi in questa struttura, Peirce la chiama semiosi infinita, e questa struttura ha degli effetti se applichiamo, come dicevo prima, le conclusioni di ciascuno di costoro alle loro stesse argomentazioni. Allora, si annulla nel senso che ogni affermazione che viene fatta riconduce a un regresso infinito, perché, sì, questa va bene ma viene da quella, e questa viene da quell’altra, e così via, all’infinito. Non solo, ma è all’infinito anche dall’altra parte perché ciò che sto affermando adesso è quello che è in relazione a un altro significato, a un altro segno, un altro segno che sarà a sua volta il significato di questo, e così via. Dunque, l’impossibilità assoluta e irreversibile di potere fermare qualcosa. Ma fermare che cosa, esattamente? Cos’è che devo fermare? Potremmo riprendere un altro termine che usa Peirce, un termine che a un certo punto preferisce rispetto a quello di significato, e cioè quello di evento. Il significato come evento, qualcosa che accade. Quindi, fermare qualcosa che accade che, come sappiamo, non so che cos’è finché non lo definisco, ma per definirlo faccio accadere un’altra cosa. A pag. 44. Qui è Sini che parla. Se noi siamo collocati dunque, senza residui, nella semiosi infinita, nell’universo del significato e delle interpretazioni “destinate”, siamo, proprio per questo, anche collocati nell’universo dell’evento; anzi, il nostro destino ermeneutico, il nostro destino di “segni”, si radica proprio in quella “distanza”, non misurabile e perciò meramente ideale (ma non per questo irreale), che si pone tra il significato che già sempre siamo (la nostra pre-comprensione del mondo, come direbbe Heidegger) e l’evento che siamo sempre per essere. Ecco, qui è detto bene. Questa distanza, distanza tra ciò che accade e ciò che necessariamente accadrà per potere dire che qualcosa accade, perché per potere dire questo evento devo riferirmi a un altro evento, cioè devo fare accadere un'altra cosa, per esempio, un’interpretazione. Questa distanza è esattamente ciò con cui gli umani hanno a che fare ininterrottamente mentre parlano; una distanza che non è colmabile, nel senso che non posso, per dire che cos’è questa cosa, non fare accadere un’altra cosa, e cioè l’interpretazione di questa cosa. Della distanza si è parlato tantissimo, ciascuno ha detto la sua, ma intanto è importante rilevare che ciò che accade, per potere essere qualcosa che accade, necessita di far accadere un’altra cosa, cioè la sua interpretazione, perché è ciò che mi consente di dire che qualcosa accade. Vedete che è abbastanza complicata la questione. Peirce aveva chiamata la sua teoria faneroscopia, che è la fenomenologia, però, lui usa phaneron, che è l’apparire, il vedere ciò che appare, e non usa il termine fenomenologia perché non utilizzato, secondo lui, in modo adatto, non acconcio, e quindi si inventa questa parola che riguarda solo lui, non esiste altrove. Ora, a me è sempre parso poco interessante inventarsi parole, però in alcuni casi può essere che sia utile. Poco più avanti a pag. 44. La relazione segnica, cioè, significando il “significato, “indica” e “manifesta” anche l‘altro dal significato. Questo manifestare e indicare rivela le qualità e i fatti del mondo, gli “stati di cose” (noi inclusi); ma le qualità manifestate (somiglianze) e i fatti indicati (indici) sono, in realtà, significati (simboli o segni generali) emergenti in una nuova relazione segnica, cioè in una nuova interpretazione. Questa nuova relazione segnica, tuttavia, di nuovo manifesta e indica, ancora e sempre, l’altro dal significato che esprime, e che nondimeno esprime, ancora e sempre, come un ulteriore significato; e così via. È in questo processo che sempre di nuovo si riapre il senso ultimo della espressione “semiosi infinita”, che nel presente scritto è stata posta al centro dell’attenzione. Prendiamo la formuletta a è b: la a ha un senso in quanto apre alla b, ma l’apertura è la è; ma questa è ha un senso in quanto c’è un’interpretante, cioè un significato che dà un senso a tutto quanto; questo interpretante, a sua volta, è fatto di qualche cosa, avrà una qualità, una è e una b, perché questo interpretante va interpretato, non è che chiude la questione definitivamente, e quindi si ritroverà a essere di nuovo un qualche cosa che comporta un’altra formuletta, non sarà più a è b ma b è c, e così via, all’infinito. Ciascuno di questi elementi è come se si aspettasse sempre dall’interpretante il suo significato, come letteralmente è, perché l’interpretante, in quanto significato, è ciò che significa la a nella formuletta di partenza. Ciascuna volta ciascun interpretante si pone come un segno, perché non è che non sia un segno, anche lui è un segno, qualunque cosa è un segno, quindi, essendo un segno, ha una qualità, un indice e un interpretante, quindi, una a, una è e una b, e così via. Questo descrive in qualche modo il funzionamento del linguaggio, cioè il modo in cui il linguaggio si svolge, rendendo le cose estremamente complicate, perché anche tutte queste cose che vi sto dicendo, che dice Sini, che dice Peirce, tutte queste cose subiscono la stessa cosa, ovviamente. È una cosa inevitabile, non si può non fare se si vuole parlare, non posso non riferirmi a un qualche cos’altro quando definisco qualcosa. Quindi, tutte queste cose sono ovviamente prese nella stessa struttura, in una semiosi infinita, e così tutto ciò che descrive la semiosi infinita è presa in una semiosi infinita. Anche questo non possiamo non rilevarlo, anche se Peirce e nemmeno Sini lo fanno, però, mi sembra inevitabile. Il che però complica parecchio la questione, perché, allora, di che cosa stiamo parlando esattamente, non solo quando parliamo in generale ma anche quando parliamo di questo? Dicendo queste cose stiamo costruendo dei giochi, delle sequenze. A che scopo? Ecco che qui ci risponde Nietzsche, immediatamente: per il superpotenziamento intellettuale, perché se non ci fosse questo, tutte queste argomentazioni, questo articolare le cose, questo pensarle e ripensarle, ecc., non avrebbe nessun motivo di essere. Potremmo anche aggiungere questo, e cioè prendiamo sempre la stessa formuletta, a è b: la a è la chiacchiera, la chiacchiera da cui si parte, ciò che appare, ciò che mi sembra; poi, voglio precisare la cosa dicendo che cosa la a è, ma facendo questo esco dalla chiacchiera? Verrebbe da pensare di no perché, di fatto, ciascuna cosa da cui prendo avvio è sempre la premessa di un’articolazione, ma questa premessa è la chiacchiera perché non ha un fondamento. Heidegger parla dell’accorgersi della chiacchiera e fa quella differenza fra l’inautentico e l’autentico, l’Esserci che riviene a se stesso. Questo rivenire dell’Esserci a se stesso che cosa incontra? Sì, certo, uno spostamento, ma qualunque cosa incontri, lui lo dice molto bene, non ha nessun fondamento, perché è preso in uno spostamento. Ma non è la stessa cosa che dire a è b, dove la b sarebbe il significato della a e la a il fondamento della b? Ma questo fondamento non c’è se non c’è il significato che viene dopo. Quindi, è ciò che viene dopo che dà un fondamento a ciò che viene prima, che non ha nessun fondamento fino a che la b non glielo dà, ma una volta che glielo ha dato a questo punto il problema si sposta sulla b, ovviamente. E alla b chi glielo ha dato il fondamento che ha attribuito alla a, inopinatamente? Nessuno. E, quindi, ci ritroviamo di nuovo nell’impossibilità di dare un fondamento a qualunque cosa. Che cos’è un fondamento? Ciò che costituisce il qualche cosa che rende una certa cosa quella che è. Perché alla a ciò che è occorre è la b, e quindi è la b che dà un fondamento alla a, una b che, tuttavia, non ha di per sé nessun fondamento, non può averlo perché ha bisogno di una c che glielo fornisca, e così via, all’infinito. Ora, ciò su cui si può riflettere è quali sono gli effetti di una cosa del genere nel parlare quotidiano, nel dire comune, in qualunque circostanza, in qualunque momento, quando si pensa. Che cosa accade esattamente? Quali sono gli effetti di questo funzionamento del linguaggio, la cui descrizione a sua volta non evita di essere presa in una semiosi infinita e, quindi, in un gioco linguistico? Quali sono, dunque, gli effetti del dire comune, del dire più banale, fino ad arrivare al pensiero teorico, ecc.? Sotto questo profilo non c’è alcuna differenza. Questo naturalmente inficia la validità di qualunque teoria, cosa che avevamo già detto ma ci ritorniamo dicendo di nuovo che ciascuna teoria propriamente non è altro che un gioco linguistico al pari di qualunque altro, cioè non può arrogare a sé alcuna pretesa di fondamento. Alcuni usano l’escamotage dicendo che la teoria è valida non quando è vera ma se funziona. Certo, può darsi che funzioni per questa cosa e in questo momento, per me…

Intervento: Occorre un contesto perché funzioni…

Esattamente, ed è questo contesto che la fa funzionare in quel modo. Non c’è uscita da un problema del genere. Ciò che importa qui è confrontarsi con il linguaggio come problema, il linguaggio è il problema, l’unico problema che gli umani incontrano e con cui hanno a che fare quotidianamente, che lo sappiano o no, che lo vogliano o no. Dal modo in cui si approccia questo problema seguono tutte le conseguenze che comunemente sono chiamate la “vita”, semplicemente dal modo in cui viene affrontato questo problema. Generalmente, come già Heidegger rilevava, non lo si affronta affatto, cioè lo si esclude a priori e questo ha delle conseguenze. Uno degli aspetti interessanti nella elaborazione teorica di Peirce è il suo pragmatismo, cioè la verità è in Peirce il modo in cui si risponde a una certa cosa, cioè è l’interpretazione che io do di una certa cosa, e questa interpretazione è quella che è, per Peirce, in base a un abito, che io ho acquisito vivendo in Italia, avendovi vissuto per parecchi decenni, con tutte le cose che ho conosciute, lette, le persone che ho incontrate, tutto quanto. E, naturalmente, commisurando tutto ciò con tutto quanto mi circonda, ovviamente. Citando Heidegger, io sono tutte queste cose ma in relazione al mondo in cui mi trovo, cioè tutto ciò che mi circonda. Certo, la mia storia, ma la mia storia è stata sempre formata e compiuta in relazione al mondo che mi circonda. Dopo tutto anche Heidegger dice che l’uomo è un dialogo continuo con tutto ciò che incontra, che modifica e che lo modifica incessantemente. Il problema del linguaggio è il problema fondamentale, anzi, l’unico problema. Possiamo tranquillamente affermare che non ce ne sono altri. Il problema del linguaggio è questa distanza fra ciò che dico e ciò che ne dico. Il motivo per cui ne dico, è la volontà di potenza, è il modo in cui queste cose si combinano e si intrecciano incessantemente fra loro. Possiamo dirla così, in un modo un po’ rozzo: parlo per controllare le cose, perché questo me lo impone il linguaggio. Se parlo per controllare le cose, proprio il volerle controllare mi impedisce di controllarle, sempre per via del funzionamento del linguaggio. Parlare per controllare le cose non è che sia l’intenzione di qualcuno, è il linguaggio che lo impone, per il suo funzionamento, funziona così, se fosse fatto in un altro modo tutto sarebbe un’altra cosa; il mondo è quello che è perché il linguaggio è quello che è, funziona così, quindi, ci costringe a vedere le cose in un certo modo, a pensare in un certo modo e non in un altro, anzi, ci impedisce di pensare in un altro. Quello che ci interessa a questo punto è trovare un approccio forte al problema, avendo sempre di fronte il problema, cioè avendo sempre di fronte il linguaggio come problema. Tendenzialmente, le persone pensano che il linguaggio sia uno strumento, ma non è uno strumento, è un problema. È diverso.