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27 novembre 2024

 

Filone di Alessandria Commentario allegorico alla Bibbia

 

Perché rileggere il Cratilo? Mi è venuto in mente di riprenderlo leggendo Filone. Perché il Cratilo, dunque? Intanto, il neoplatonismo, chiaramente venendo da Platone, ha sempre considerato gli scritti, i dialoghi platonici, come la Bibbia: la parola di Platone non si discute. Il Cratilo è quel dialogo di Platone dedicato al linguaggio. Ci sono tre personaggi: Socrate, Cratilo, Ermogene, personaggi che sostengono idee differenti intorno al linguaggio. La questione è importante perché è in gioco la possibilità di dire le cose, di dire con verità le cose. Ci sono, dunque, tre posizioni. Ermogene afferma che le parole non sono che dei simboli arbitrari, che noi applichiamo alle cose in modo totalmente arbitrario. Però, se la parola è arbitraria, questo pone un problema, perché elimina la possibilità di una garanzia che la parola dica veramente la cosa: se non sappiamo che cosa diciamo, sì, ci intendiamo perché abbiamo convenuto così, ma non abbiamo accesso alla cosa. Per Platone, invece, il problema era che la parola dovesse dire la cosa così com’è. Da ultima, c’è la posizione di Cratilo, che immaginava che le parole venissero in fondo dalle cose, che fossero una sorta di emanazione dalle cose, da cui poi la famosa locuzione medioevale, nomina sunt consequentia rerum. Platone, per bocca di Socrate, sostiene invece che la parola cerca una sorta di mediazione tra Cratilo e Ermogene, dicendo che la parola, in fondo, sì, viene dalle cose, ma non è che mostri la cosa in sé, mostra invece l’essenza della cosa. Qual è l’essenza della cosa? È l’idea, ed è questo che garantisce che la parola dica la cosa e che, quindi, possiamo affermare con verità quello che affermiamo; perché sennò, secondo Ermogene e anche secondo Aristotele, se le parole sono simboli assolutamente arbitrari, cosa ci garantisce che dicendo “tavolo” io dica proprio questa cosa qui. Questione poi ripresa anche da Guglielmo di Ockham e da tutta la tradizione, fino ai giorni nostri: la necessità che la parola dica la cosa. La lettura di Filone ha indotto la ripresa del Cratilo perché, se l’interpretazione non poggia su questa idea di Platone, cioè che la parola possa dire l’essenza della cosa, l’interpretazione crolla, non si sostiene più niente. Infatti, qui il curatore, il traduttore, Francesco Romano, dice più o meno quello che vi ho detto. Leggiamo le sue parole. Della corrispondenza tra nome e forma della cosa nominata. Questa è in fondo la posizione di Cratilo. A proposito di quest’ultima espressione, che sta al centro dell’intera trattazione del Cratilo e sulla quale si è molto discusso anche tra i commentatori moderni, bisogna dire che hanno ragione coloro i quali interpretano la orthotes, non già come perfetta somiglianza tra nome e natura della cosa nominata, per cui ogni cosa avrebbe un nome ed uno solo ad essa appropriata per natura (tesi di Cratilo), bensì come capacità strumentale e funzionale del nome di rappresentare l’essenza o forma della cosa nominata, a prescindere dall’aspetto materiale, cioè della struttura letteraria o sillabica di noi stesso. Ciò che conta nella giustezza dei nomi è la forma o, meglio, la potenza significante, non la materia. Naturalmente, i nomi sono strumenti di conoscenza e non già di produzione delle cose, e perciò uno dei modi in cui Platone intende e utilizza il significato della verità e della falsità è quello basato su proposizioni, nomi ed essere quali strumenti della vita conoscitiva. In questi, infatti, aggiunge il commentatore, molto significativamente, egli, Platone, vede la verità e la falsità in funzione dell’adattamento o l’accordo con le cose. Ora, il nome è strumento artificiale e quindi convenzionale, atto a significare e a insegnare, ma non è simbolo né frutto di una convenzione qualsiasi, aggiunge subito Proclo, bensì connaturale alle cose e appartenente ad esse per natura, e possiede un certo significato, dynamis… Qui la parola dynamis è significato, quindi, potremmo dire, dynamis come la potenza significativa. …significato congenito è collegato alle cose da esso significate ed essendo didascalico possiede un ruolo che è rivelativo degli atti del pensiero ed essendo sceverativo produce in noi la conoscenza dell’essenza delle cose. Ed è questo, conclude Proclo, l’argomentazione che deriva dal nome come forma. Ecco, dunque, il giusto compromesso tra le due opposte tesi di Cratilo e di Ermogene quale risultato finale della discussione sul linguaggio, arbitrata da Socrate: i nomi sono per natura, ma non come semplici riproduzioni delle cose (Cratilo), bensì in quanto servano a rappresentare la natura delle cose; sono per convenzione, ma non come simboli qualsiasi - Ermogene, ma soprattutto Aristotele -, bensì in quanto strumenti artificiali creati per una funzione realistica, per aiutarci cioè a conoscere l’essenza delle cose, a condizione s’intende che se ne faccia un uso dialettico nel rapporto alle idee che, in ultima analisi, costituiscono l’unica garanzia della verità e giustezza dei nomi. Non tutti i nomi, infatti sono figli della scienza intellettiva e aspirano ad essere connaturati alle cose, e, d’altra parte, se accade fin dall’inizio che l’onomateta… L’onomateta sarebbe il demiurgo, quello che dà ai nomi alle cose. …sia privo di scienza, necessariamente colui che si serva del nome imposto non riesce a dare la definizione della cosa. Perché per dare il nome giusto della cosa occorre l’idea, occorre che ci sia l’idea di quella cosa: è dall’idea che viene il nome ed è l’idea che garantisce della giustezza. È solo Dio che garantisce che ciò pensiamo abbia un senso. Noi siamo debitori di Dio del fatto che parliamo in modo sensato, perché, riprendendo Einstein, ogni volta che parliamo dobbiamo affidarci all’idea che Dio non giochi ai dadi, con le parole in questo caso, e cioè che ciascuna parola colga l’essenza della cosa, perché, se non la coglie, io non so più di che cosa sto parlando, non so che cosa sto dicendo, non so più niente.

Intervento: Nell’introduzione di fisica e filosofia, Heisenberg citava la questione del significante e del significato, cioè che le parole usate nella fisica classica non erano adatte a descrivere quello che stava accadendo nella nuova fisica.

Forse di questo discuteva con Heidegger, perché è la stessa cosa che trovava Heidegger quando diceva che non esistono le parole per dire le cose che lui stava inventando, perché tutte le parole che usava erano le parole della metafisica. Da qui lo scrivere Sein, essere, con la Y oppure barrato, tutte queste diavolerie che si era inventate perché non c’erano le parole che non fossero quelle della metafisica. Probabilmente, Heisenberg si è trovato di fronte a qualcosa del genere. Questo per dirvi che in effetti, a modo suo, Filone non ha torto a dire che è Dio che dà la garanzia e che l’interpretazione è corretta quando procede da Dio, perché è Dio che consente di interpretare, perché, se non ci fosse un Dio che garantisce, chi ci può garantire che l’interpretazione è corretta? È importante per Filone questo aspetto perché, quando si pone delle domande intorno, per esempio, alla creazione, dice che Dio è ineffabile, è immobile, è identico a sé, però, se ha creato qualche cosa, creando si è modificato anche lui, e, allora, ecco che il problema diventa se Dio è mobile o immobile. Ma per affrontare un discorso del genere si dà come implicito - anche se Filone poi non ne parla esplicitamente, pur conoscendo molto bene Platone, sicuramente conosceva il Cratilo - bisogna dare per implicito, per acquisito, per naturale, il fatto che le parole dicano l’essenza delle cose. È così che si può creare un’ermeneutica. Per esempio, dice a pag. 130. La creazione del cosmo è in larga misura finalizzata alla creazione dell’uomo, sicché i termini più significativi del discorso teologico sono appunto Dio e l’uomo. Il carattere essenziale di tale rapporto consiste nel fatto che esso è ontologicamente immotivato, nel senso che, agli occhi di Filone, Dio non aveva alcuna necessità di carattere filosofico per creare il mondo: non era, cioè, in alcun modo costretto a compiere questo atto. Dio, dunque, il mondo esclusivamente per un atto di bontà… Dice che non è costretto. Non è così, è costretto dalla bontà. …e siccome la figura di Dio nell’Alessandrino è assai più “personale” che in Platone, è legittimo ritenere che tale bontà non sia solo di ordine metafisico (eccellenza della natura), ma implichi in sé un reale atto di volontà, il quale, a sua volta, comporta una libera scelta. Tutte cose che però contrastano naturalmente con il fatto che questo Dio non abbia bisogno di niente, non abbia bisogno di scegliere nulla, non abbia, quindi, neanche bisogno di una libera volontà, perché non ha neanche volontà. In questo Plotino è più coerente, se vogliamo: Dio non ha volontà, non può averla, perché, se ha una volontà, vuol dire che gli manca qualcosa, che vuole qualcosa. In questo senso, a nostro modo di vedere, va interpretato il seguente passo del secondo libro delle Allegorie, che è essenziale: “Ma il fatto che Dio sia solo è da intendersi anche così. Come prima della creazione del cosmo non v’era nulla insieme a Dio, così, a creazione avvenuta nulla v’è che sia al Suo livello: Dio, pertanto, non ha assolutamente bisogno di nulla. Perché, se qualcosa si aggiungesse a Dio, questo dovrebbe essere o maggiore, o minore, o uguale a Lui. Ma nulla c’è che sia uguale o maggiore di Dio, e, d’altra parte, l’aggiungersi di qualcosa che Gli fosse inferiore non Lo accrescerebbe di nulla, anzi, semmai Lo sminerebbe. Ma, se Dio sminuisse, sarebbe corruttibile, e questo non è lecito e neppure pensarlo. /…/ Ma dice qual è allora il suo significato più autentico (della creazione)? Se si considera che il fine della creazione è l’uomo e che la sua causa è la bontà divina, la risposta può essere la seguente: il senso della creazione è quello di una rivelazione: l’epifania di Dio. La sua manifestazione. La bontà divina, allora, si realizza nel farsi conoscere di Dio, per poi farsi amare. Ecco la volontà di potenza. Poi, è rimasta anche nel cristianesimo: il catechismo insegna ai bambini che siamo stati creati per amarlo, per adorarlo, per servirlo, ecc. Uno potrebbe chiedere: perché? Lui precisa: la bontà divina si realizza nel farsi conoscere di Dio, in questo Dio è buono. Perché? Non c’è mai una risposta.

Intervento: Perché è la ricompensa che vuole l’anima bella.

Questa è già un’idea. È chiaro quindi che le motivazioni della creazione saranno essenzialmente di ordine etico e religioso e, in tal senso, la medesima “gratuità ontologica” del creato diventa una “gratuità religiosa”, ovvero una grazia... Vedete il passaggio: la gratuità filosofica, ontologica, suona male, perché è come dire che ontologicamente tutte queste affermazioni sono totalmente gratuite, infondate. Ma se si passa al livello etico e religioso, allora la gratuità porta alla grazia. …anzi, la fonte di ogni altra grazia, perché, come Filone osserva all’inizio De opificio, “la ragione ci induce a credere che il Padre e Creatore si prenda cura di ciò che ha portato a nascimento. La ragione ci induce a credere questo, cioè, se Dio ci ha creati, allora Dio si cura di noi, ci vuole bene. Tutte queste cose sono quelle cose che, poi, nel Medioevo, hanno dato, come sappiamo bene, molto da fare ai teologi, ma che ci mostrano, sempre una volta di più, che cosa c’è a fondamento di tutto il pensiero occidentale. Perché questo è il fondamento del pensiero occidentale: la possibilità dell’interpretazione, la possibilità che la parola dica l’essenza della cosa, e cioè che mostri l’idea che sta all’origine della cosa e che la garantisce. Tutto ciò che stiamo facendo, leggendo, ci mostra cosa è stato inventato per potere pensare che la parola sia garantita, che abbia una garanzia da qualche parte, e cioè, in fondo, contrariamente a quello che dice Aristotele, che la verità epistemica esista. Non si sa dove sta, ma c’è. Un passo del Quod Deus (Perché Dio) non giustifica pienamente la nostra tesi, tanto più se viene letto in connessione con il testo appena citato del secondo libro delle Allegorie, di cui costituisce la traduzione a livello religioso: “…l’uomo moralmente nobile… in tutte le ricerche che ha fatto ha trovato questa suprema verità, cioè che tutte le cose sono grazia di Dio, acqua, aria, fuoco, sole, stelle, cielo, animali e vegetali tutti… Ma non perché giudichi qualcosa degno di grazia Egli ha donato beni in grande abbondanza… bensì perché guarda alla eterna Bontà e pensa che tocchi alla propria natura beata e felice il compito di elargire benefici. Per conseguenza, se uno domandasse qual è il motivo della creazione del mondo, io, che l’ho appreso da Mosè, risponderò che è la Bontà dell’Essere, che è la più antica e più nobile delle grazie, perché è grazia a se stessa. Orbene, questa “giustificazione” dell’atto creativo, se è del tutto soddisfacente da un punto di vista religioso e morale, crea un’infinità di problemi da un punto di vista filosofico, proprio perché è ontologicamente immotivata: la creazione, insomma, se da un lato è la somma grazia, dall’altro è il sommo problema. Qual è il problema? Il problema è quello dell’uno e dei molti, naturalmente: come fa l’uno - che poi diventa l’Uno di Plotino, cioè, ineffabile ma, soprattutto, identico a sé - come fa qualcosa, che è e deve rimanere identico a sé, a produrre i molti? Tutta la filosofia, fino a oggi, non fa altro che questo: trovare il modo per convincere che è possibile passare dai molti all’uno e, quindi, finalmente unificare tutto ed essere tutti felici e contenti. Nel capitolo precedente abbiamo visto come Filone difenda con accanimento (ma forse sarebbe il caso di dire, con fede) la purezza ontologica e la trascendenza di Dio, allontanando da Lui ogni forma di contraddizione e contaminazione con ciò che è materiale. Occorre allontanare da Dio ogni contraddizione, come si fa? Il sistema che hanno poi adottato i filosofi, i teologi medioevali: la contraddizione sta sotto Dio; anche la contraddizione è creata da Dio, per cui Dio è sopra la contraddizione, e se l’ha creata avrà avuto i suoi motivi. Ma questa contraddizione non può esserci in Dio.

Intervento: Quindi, la contraddizione è risolvibile.

Sì e no. Sì teologicamente, perché comunque la contraddizione si unifica in Dio; no, perché poi di fatto la contraddizione comporta che una cosa sia al tempo stesso una cosa e il suo contrario, allo stesso tempo e allo stesso modo. La contraddizione è superabile teologicamente, la si supera se si pensa che la contraddizione è stata creata da Dio, che, quindi, Dio è al di sopra della contraddizione, sempre e comunque. Ma abbiamo altresì osservato che tali contraddizioni, anziché risolte, sono state spostate di livello, e cioè trasferite nell’ambito degli intermediari. Qui, appunto, avviene il redde rationem filosofico, giacché in tale ambito i problemi di ordine metafisico non sono più eludibili, né ulteriormente dilazionabili. Ebbene, come si comporta Filone in tale circostanza? La nostra impressione è che l’Alessandrino non risolve immediatamente i singoli problemi, ma, per così dire, li tenga in sospensione, giocandoli in una struttura complessa e articolata, che si riproduce in modo analogo nelle varie figure. Esplichiamo questa struttura in due schemi… Qui, poi, si fa tutti i suoi schemini, ecc., dove si parte da qualche cosa che è al di sopra della contraddizione, la contraddizione sta sotto e comunque viene sempre risolta attraverso l’unificazione, cioè attraverso la composizione dei molti, proprio perché la contraddizione è i molti, ovviamente. Se questi molti si compongono nell’unità, la contraddizione scompare. Ecco, dunque, la teoria degli intermedi. Dobbiamo sbarazzarci delle contraddizioni mettendole in questi intermedi, che sono tra l’uno e i molti. Nell’uno non ci possono essere contraddizioni, nei molti sì, naturalmente. Ma bisogna vedere che cosa autorizza a togliere la contraddizione dall’uno per metterla nei molti. A pag. 134. La complessa teoria degli intermedi può, dunque, legittimamente intendersi sia come teoria del Logos, sia come teoria delle Potenze, in quanto questi due termini esprimono gli estremi - superiore e inferiore - di tutta la struttura. Da un punto di vista filosofico e alla luce di questi schemi, appare chiaro che tutta la tematica trattata nel nostro capitolo può ridursi a due dinamiche coinvolgenti la figura di Dio e del mondo: (1) la dialettica uno-molti e (2) la dialettica immanenza-trascendenza. La prima sfocia, a livello metafisico, nella tesi, il più delle volte implicita ma sempre tenuta presente, che Dio è unico e unitario e la molteplicità concerne le Sue manifestazioni… Non Dio, ma le sue manifestazioni. La seconda conduce al principio – peraltro già espresso nel De mundo - che l’essenza di Dio è trascendente e la Sua potenza immanente. Questo è l’altro modo di risolvere il problema: c’è Dio e ci sono le sue manifestazioni, gli intermediari. In Dio non c’è contraddizione, la contraddizione c’è, è i molti, che si trovano al di sotto, in ciò che è immanente, di sicuro non in ciò che trascendente, perché l’idea, che era già quella di Platone, non può essere autocontraddittoria perché è identica a sé, e ciò che identico a sé non può essere contraddittorio. Filone è così giunto a una soluzione dei problemi teologici da noi posti in risalto... tale soluzione non sta nelle parti - ossia in singole affermazioni o in singoli spunti teoretici - ma nel tutto, vale a dire nella struttura metafisica, in cui ciascun elemento agisce esclusivamente in sinergia con gli altri. Ed è nostra opinione che al di fuori di questa ottica, nessuna delle contraddizioni teologiche di Filone troverebbero soluzione. Quindi, qual è la sua soluzione? Questa soluzione, dice, riguarda il tutto. Qual è la struttura metafisica che propone Filone? È semplice: Dio, l’uno, e le sue manifestazioni, i molti. Ciascuna di queste cose è quella che è, non si altera, è metafisicamente stabile, immobile, ed è questo che garantisce che ogni cosa stia al suo posto, che Dio stia al suo posto, e cioè che Dio sia identico a sé e che le sue manifestazioni possano, invece, apparire nel sensibile, anche eventualmente contraddittorie; ma sono le sue manifestazioni, non lui. Ora, questo modo di risolvere il problema di Filone pone altri problemi. Non è affatto vero, come dice lui, che risolve il problema, perché le manifestazioni di Dio vengono sempre da Dio. E perché Dio manifesta delle contraddizioni? A che scopo? Sempre per via della sua bontà? Questo per dire che questi problemi, in effetti, non hanno nessuna soluzione, perché il problema dell’uno e dei molti non ha soluzione, l’uno è fatto di molti e i molti sono l’uno, quindi, la soluzione non c’è. Tutti questi tentativi sono fallimentari ma costituiscono ciò che ha dato da pensare per duemila anni, ancora oggi, in fondo. Se volete metterla così, il problema degli universali è ancora presente a tutt’oggi, non è scomparso: gli universali sono materia oppure sono flatus vocis?

Intervento: È la stessa questione del Cratilo.

Esattamente. Il Cratilo già pone questa questione: è possibile che la parola dica l’essenza della cosa? Sì, è possibile perché il nomoteta, colui che dà il nome alle cose, ha preso i nomi dall’idea, e l’idea non mente, perché l’idea è identica a sé. A pag. 135. Accanto alla via dialettica, Filone ne propone certamente un’altra, anch’essa diretta al cuore del problema teologico. Qual è il problema teologico? Non è tanto se Dio esiste o non esiste, ma se ciò che afferma è vero oppure no: è questo il problema teologico. Quindi, le cose che penso meritano di essere credute oppure no? È questo il problema teologico. Ritorniamo per qualche istante alla teoria delle Potenze, in particolare a quella che è l’Alessandrino chiama la Potenza creatrice, cioè “Dio”. Riconsideriamo altresì il problema dei problemi, ovvero il momento della creazione, senza il quale, ovviamente, né vi sarebbe l’epifania di Dio, né sorgerebbe alcuna aporia circa la Sua espressione in termini filosofici. Come dire, stai dicendo: se Dio non esiste, non c’è nessun problema. Non ha neanche torto, tutto sommato. Teniamo ancora conto che ciascuna Potenza è in sé inferiore e diversa da Dio e che funge, per questo, da realtà intermedia tra il Creatore e il creato. Orbene, a tal punto, sostituiamo al Dio creatore del De opificio mundi il “Dio” Potenza. Che cosa ne conseguirebbe? Ne conseguirebbe semplicemente che più che il Dio in sé e per sé, sarebbe la Sua Potenza, o il suo Logos, a creare il mondo e che, pertanto, tutta la problematica che insorge in questo momento (che è poi tutta la problematica teologica) non tocca Dio nella sua essenza, ma una sua manifestazione. E siamo al problema di prima, e cioè non Dio nella sua essenza, ma una sua manifestazione. Come mai Dio consente che una sua manifestazione sia autocontraddittoria, per esempio? Come fa e perché lo fa? Ora, chiaramente siamo prima di Plotino, quindi questi problemi, che Plotino risolve a modo suo, non erano ancora stati risolti, erano ancora allo stato di aporia. Poi, con Plotino tutto si risolve come un volere tornare all’Uno: tutte le cose procedono dall’Uno, si allontanano dall’Uno, però, vogliono poi tornarci. Tutto si risolve lì, poi, in definitiva. E ciò che corrisponde esattamente a quanto Filone viene a dirci nel secondo libro del De somnis... /…/ …si comprende bene perché la quasi totalità della teologia filoniana non parli di un Dio in sé e nella Sua essenza, il quale resta, a questo livello, di principio e di fatto, inconoscibile e innominabile, ma tratta piuttosto del “divino”, ossia delle metafisiche manifestazioni, a diversi livelli, di Dio in senso assoluto e nella Sua natura. Al Dio in sé, nella Sua essenza, si potrebbe pervenire solo mediante una teologia apofatica al più alto livello, la quale non si esprime a parole, ma nel silenzio. Ciò di cui non si può parlare si deve tacere, lo diceva anche Wittgenstein. E in questo risulta indubbiamente presente una faccia del biblico ammonimento, “fa’ silenzio e ascolta”, che Filone interpreta come un invito al silenzio della parola e dell’anima. E forse è proprio questo, per lui, il vero modo di accedere (e non solo per una forza che viene dal basso, ma con quella che giunge dall’alto) al Dio ineffabile, ossia a Dio nella Sua essenza. Cioè, si può giungere a Dio attraverso il silenzio. Che significa questo? Significa un bel po’ di cose. Intanto, che Dio è fuori da ogni possibile argomentazione, non può essere esposto alla parola, al punto da arrivare, con la teologia apofatica, ad affermare che Dio è niente, perché abbiamo tolto tutto: se Dio non è questo, non è questo, ecc., alla fine è nulla. Cosa che porta poi a un altro enorme problema, perché a questo punto Dio è nulla, è come la materia, è non-essere. Ma può Dio essere non-essere? Plotino la risolve così: Dio è al di sopra dell’essere. Il silenzio, cioè, la teologia apofatica, che in fondo è quella che utilizza anche Wittgenstein alla fine del Tractatus, è un’arma a doppio taglio, perché, sì, dice ciò che Dio non è, perché non lo possiamo determinare, menzionare, ecc., però, alla fine ci troviamo nulla, assolutamente nulla. E, allora, dobbiamo dire che Dio è nulla? Eh no. Qui c’è una nota a pag. 137. Osserva Giblet: …a proposito dell’uomo a immagine, che, come si vedrà, costituisce uno dei caposaldi dell’antropologia filoniana: “Mentre per tutto il pensiero greco “immagine” riguarda il mondo sensibile e visibile, ecco che (in Filone) si opera una rivoluzione. L’immagine di Dio di chi parla Mosè diviene la massima espressione del valore invisibile e spirituale dell’intelligenza. Certo, è cambiata la prospettiva: l’opposizione fondamentale non è più tra l’universo sensibile e l’universo intelligibile, ma, piuttosto, fra Dio e il creato”. Questa operazione di Filone è notevole, perché l’immagine per il greco è ciò che si vede, che appare, così come appare; qui, invece, no, non è più così, perché l’immagine diventa invisibile, non è più ciò che vedi, perché l’immagine che, per esempio, ti fai di Dio è l’immagine di qualcosa che non vedi, che non puoi vedere in nessun modo; però, ti fai un’immagine. Ecco, l’immagine diventa l’intelligibile per eccellenza. Quindi, si sposta dal sensibile all’intelligibile, tra il Dio e il suo creato; perché non c’è più il sensibile e l’intelligibile, che in qualche modo è l’idea che si ha del sensibile, ma c’è soltanto più la relazione tra Dio e il creato. Il che toglie tutta una serie di problemi. Ora, qui c’è altra questione, un altro problema. A pag. 138. È un brano in cui Filone interpreta. “Dopo tutti gli altri esseri, come si è detto, Mosè, afferma che fu creato l’uomo a immagine e somiglianza di Dio. Ed è una giusta affermazione, perché non esiste tra le creature nate dalla terra alcuna che assomigli Dio più dell’uomo. Come lo sappiamo che assomigliamo a Dio? In base a quale criterio? Dovremmo avere un’immagine di Dio. Ma tale somiglianza nessuno cerchi di immaginarla in base ai tratti del corpo, perché Dio non ha figura umana, né il corpo umano è strutturato a somiglianza di Dio. Il termine “immagine” è usato come riferimento all’intelletto, guida dell’anima. Ecco che torna la questione dell’immagine, di ciò che non si vede. Per il greco l’immagine è ciò che si vede, è la forma, εἶδος. A pag. 139. Ma, a poco a poco, Filone matura una più avanzata concezione, facendo irrompere nell’uomo, per così dire, una terza dimensione, di natura tale da sconvolgere radicalmente il significato, il valore e la portata delle altre due. In questa nuova concezione, in cui la componente biblica diviene predominante, l’uomo è costituito da: (1) corpo, (2) anima-intelletto (sensibile-intelligibile), (3) Spirito, che proviene da Dio. Secondo questa prospettiva, l’intelletto umano è corruttibile, in quanto è intelletto “terrestre”, a meno che Dio non vi ispiri “una potenza di vera vita”, che è il suo spirito (pneuma). Ecco, questo è un altro modo di affrontare la questione, perché qui il fatto che ci sia lo spirito a fianco del sensibile e dell’intelligibile, è la testimonianza di uno pneuma, di un soffio di Dio. Che cosa fa questo soffio? L’intelletto umano è corruttibile, cioè, può sbagliare; il soffio di Dio, che viene soffiato nell’uomo, invece, fa in modo che l’intelletto non sbagli, cioè, garantisca la possibilità di dire la verità, sempre presupponendo l’esistenza di una verità epistemica che sta sempre a fondamento di tutto. Ma ecco il testo più esplicito e più importante: “…Dio… protende la Sua propria Potenza, attraverso lo Spirito, fino all’oggetto. E questo, per quale motivo mai l’avrebbe fatto, se non perché noi avessimo una cognizione di Lui? Cioè, Dio vuole che noi la conosciamo. Ma non avevamo detto che non può volere nulla? E del resto, come l’anima avrebbe potuto conoscere Dio, se Lui stesso non l’avesse ispirata e, per quanto è possibile, non l’avesse toccata? L’intelletto umano, infatti, non avrebbe osato salire tanto in alto da cogliere la natura divina, se Dio stesso non l’avesse tratto a sé - almeno per quanto riguarda l’intelletto dell’uomo si lascia trarre - e non lo avesse informato delle Sue Potenze che sono accessibili alla conoscenza”. Dio consente che cosa? Consente all’intelletto di conoscere le verità, cioè di conoscere lui. Dio ci dà questa garanzia, ce la dà per la sua bontà infinita anche, ci consente la possibilità di dire come stanno le cose, cioè, di dire la verità, perché c’è lo spirito. Dopo aver soffiato dentro lo spirito, ecco che l’uomo può accorgersi che l’unica verità è quella del Dio creatore. E, quindi, se c’è la verità, allora c’è la possibilità di interpretare, c’è la possibilità, cioè, di dire come stanno le cose. A pag. 142. Tutta l’etica greca si era basata su due fondamentali presupposti: (a) l’uomo, con la sola potenza della sua ragione, può conoscere la physis, l’Essere, l’Assoluto, e, per conseguenza, può ricavare, con la sola ragione, le norme del suo vivere morale, che si fondano sulle stesse leggi della physis; (b) la virtù o areté umana ha la sua radice nella ragione e nella conoscenza, e, anzi, è conoscenza, nel senso che la ragione è intesa come condizione necessaria e sufficiente dell’agire morale. Filone contrappone a queste radicatissime convinzioni dei Greci concezione di segno nettamente opposto. (a) La ragione umana non basta per raggiungere la verità, e quanti ostinatamente si aggrappano ad essa cadono in una forma di superbia atea, di cui Caino è simbolo. Caino è simbolo della hybris, perché ha voluto sapere, come Prometeo in fondo. Non alla ragione umana, ma a Dio, si aggrappa sapiente, con umiltà, e di questo tipo di uomo è simbolo Abele. Leggiamo nel De sacrificiis Abelis et Caini: “Così accade che ci siano due concezioni contrarie, in contrasto tra loro: l’una ascrive tutto all’intelletto come alla suprema guida del ragionare, dell’essere in movimento o del restare in pietra; l’altra segue Dio perché si riconosce Sua creatura. Della prima è figura Caino, che è chiamato Possesso, perché crede di possedere tutte le cose, della seconda è figura Abele: il suo nome, infatti, significa “uno che riporta a Dio”. Ecco la figura di Caino come la figura della hybris, questa audacia sconfinata che affronta gli dèi; l’altro, Abele, invece, si sottomette. Sono le figure riprese, poi, anche da Hegel, quelle del servo e del padrone. A pag. 143. …la lezione da trarsi dallo scetticismo greco è proprio la dimostrazione del fallimento della superbia della ragione, ossia delle pretese della ragione medesima di giungere da sola alla verità, e, quindi, è una specie di verifica della bontà della convinzione opposta, ossia della necessità di arrivare alla verità mediante la fede in Dio. Se la ragione non riesce ad arrivare dove vuole, allora a questo punto facciamo il passo interiore, ci affidiamo a Dio. Che è quello che avviene ancora oggi.