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27 novembre 2019     

 

Fenomenologia dello spirito di G.W.F. Hegel – Volume Secondo

 

Sul nostro sito, nella sezione Biblioteca, sono state inserite anche le prossime letture che faremo: la Scienza della logica di Hegel, L’attualismo di G. Gentile e gli Studi sull’eleatismo di G. Calogero. C’è un motivo per questa sequenza. In effetti, con Hegel stiamo considerando in modo molto preciso il funzionamento del linguaggio, perché lo mostra in atto, mostra cioè il movimento del linguaggio, il movimento con cui il linguaggio si fa, perché, dicendo qualche cosa, il mio dire diventa un detto, questo detto ritorna sul dire e il mio dire a questo punto diventa quello che è. Per rendere la cosa più semplice avevo menzionato lo schema di de Saussure, significante e significato. In effetti, parlando il significato è ciò che non appare, nel senso che non è sensibile, non si vede; però il significante senza il significato non esiste. Quindi, il significato viene in un certo senso tolto, tornando sul significante e rendendolo quello che effettivamente è. Il passo successivo è la Scienza della logica. Scienza nell’accezione di Hegel, e cioè un sapere, il sapere intorno λόγος, all’essere, all’intero, dunque, un sapere intorno al linguaggio: ciò che non posso non sapere del linguaggio. Passo successivo ancora è L’attualismo di Gentile, che ci mostrerà come tutto questo avviene in atto, in ciascun atto, l’atto di parola. Si parla anche di atto di parola, nel senso dell’agire della parola e dell’autoporsi della parola, quindi del linguaggio, che si autopone. Gentile chiamava questo autoporsi autoctisi, letteralmente, l’autoporsi; quindi, il linguaggio nell’atto. Ho poi pensato agli Studi sull’eleatismo di Calogero perché la scuola di Elea, in particolare con Gorgia e Zenone, ha mostrato come gioca il linguaggio, come può giocare, infinitamente, come costruisce, demolisce, senza sosta. L’ultimo sembra una direzione inevitabile, è un ritorno a Greimas con i suoi scritti Del senso 1 e Del senso 2. Lì si potrà notare come nella narrazione di una storia, di un racconto, quindi, del discorso, sia in atto la volontà di potenza, e come sia la volontà di potenza a costruire, a fornire in pratica le regole di questo gioco che è la costruzione di una narrazione. Ecco, questo è il programma. Tra l’altro nella stessa pagina della Biblioteca ci sono alcuni file audio dei nostri incontri, per cui c’è anche la possibilità di ascoltarli. A questo punto diamo l’avvio al secondo volume della Fenomenologia dello spirito. È il Capitolo stesso a dire ciò di cui si tratta, Lo Spirito. Nella sua epoca il termine spirito si usava anche per indicare il pensiero in generale. La ragione è spirito, dacché la certezza di essere ogni realtà è elevata a verità, ed essa è consapevole a se stessa di sé come del suo mondo, e del mondo come di se stessa. A questo punto non c’è più distinzione tra sé e il mondo. Questione che poi ha ripreso Heidegger parlando del mondo, cioè, ciascuno è il mondo in cui si trova, è fatto di questo mondo, e il mondo è fatto anche di lui. Ci arriveremo perché ne parla anche Hegel. Il divenire dello spirito presentava il movimento immediatamente precedente, nel quale l’oggetto della coscienza, la pura categoria, si elevava a concetto della ragione. Il movimento precedente era l’idea di porre l’oggetto come oggetto della ragione, come qualche cosa che la ragione doveva cogliere. Nella ragione osservativa questa pura unità dell’Io e dell’essere, dell’essere-per-sé e dell’essere-in-sé, è determinata come l’in-sé o come essere, e la coscienza della ragione trova sé. Ciò che la ragione trova non è l’oggetto, non è un qualche cosa, è sé, è sempre e soltanto sé. È una questione che riassumevo la volta scorsa dicendo che il linguaggio parla di sé a sé, non può fare altrimenti. La categoria intuita, la cosa trovata entrano nella coscienza come l’esser-per-sé dell’Io,… Cioè, come suo significato, letteralmente. …il quale ora nell’essenza oggettiva sa sé come il Sé. Perché ciò che viene a sapere è sempre sé; quindi, ciò che sa è sé. Questa determinazione tuttavia astratta costituente la Cosa stessa è soltanto l’essenza spirituale, e la coscienza di tale essenza è soltanto un sapere formale di questa, il quale si affaccenda intorno a un qualche contenuto di essa medesima; in effetto questa coscienza è ancora separata come un singolo della sostanza, e o dà leggi arbitrarie od opina di avere nel suo sapere come tale le leggi quali esse sono in sé e per sé; e ritiene di essere la loro forza giudicante. – Ovvero, mettendoci dal punto di vista della sostanza… La sostanza per Hegel è l’essenza spirituale, non è qualcosa di materiale. …questa è l’essenza spirituale in sé e per sé essente, la quale non è ancora consapevolezza di se stessa. Qui c’è un aspetto che affronterà poco più avanti, e cioè la considerazione di una coscienza che conosce sì se stessa ma in modo formale, non in modo effettuale, non nel fare. A questo arriverà dopo rispetto all’etica, perché per Hegel l’etica è il fare. Fino ad ora, in effetti, tutto il discorso di Hegel si è svolto in modo formale, senza tenere conto della sua eventuale e inevitabile effettualità. Questo effettuarsi aggiunge qualche cosa. Ma lo vedremo tra pochissimo. A pag. 2. Lo spirito è la sostanza e l’essenza universale, eguale a se stessa, permanente, - il granitico e indissoluto fondamento e punto di partenza dell’operare di tutti, - è il loro fine e la loro meta, come il pensato in-sé di ogni autocoscienza. Questa sostanza è anche l’opera universale la quale, mediante l’operare di tutti e di ciascuno, si produce come loro unità ed eguaglianza; questa sostanza è infatti l’esser-per-sé, il Sé, l’operare. Ecco che arriviamo all’opera, all’operare, al fare di tutti e di ciascuno. Ora, però, potremmo anche considerare che il primo fare in assoluto, il primo operare, è il parlare. Non c’è qualcosa che lo precede. Se, per assurdo, lo precedesse, non ci sarebbe nessuna traccia di lui; ma non lo precede, non lo può precedere e, quindi, il fare è il dire. Ma qui la questione si fa interessante perché a questo punto diventa il dire di tutti e di ciascuno. Cosa significa questo? È quello che ci ricorda Heidegger quando dice che ciascuno nasce nel linguaggio. Come ho detto varie volte, il linguaggio non l’ho inventato io, non è una mia invenzione, l’ho trovato. Un linguaggio che è vecchio di centinaia di migliaia di anni e che, quindi, ha avuto un suo percorso. Ora, ciò che ci sta dicendo tra le righe, se non lo dice lui lo dico io, è che questo spirito non è altro che il dire di tutti e di ciascuno da sempre, che c’è sempre stato. Un dire che muta continuamente, al quale ciascuno a suo modo dà un contributo. Che è come dire ancora che ciascuno è il mondo, è il mondo di cui è fatto e in cui si trova: ogni volta che faccio una qualunque cosa, o chiunque fa una qualunque cosa, modifica questo mondo; questo mondo modificato ci modifica a sua volta. È il circolo ermeneutico, dove ciascuna cosa che interviene modifica ciò che sto facendo, ma questo qualcosa che sto facendo, modificato, a sua volta modifica me che lo osservo. A pag. 3. Di conseguenza lo spirito è l’assoluta, reale essenza che sostiene se stessa. Cioè: non c’è qualcosa in più. Sarebbe l’intero del linguaggio, ma intero nel senso che viene considerato anche storicamente. La lingua italiana che parliamo oggi, in questo momento, è il prodotto di centinaia di migliaia di anni di evoluzione linguistica, cambia continuamente. Come abbiamo detto varie volte, il linguaggio cambia continuamente, molto lentamente ma cambia. Molto lentamente perché, in realtà, non c’è un buon motivo per cambiarlo, va bene così com’è, ciò nondimeno cambia. Tutte le figure della coscienza fin qui apparse sono astrazioni di questo spirito medesimo; esse sono il suo analizzarsi, il suo distinguere i propri momenti, e il suo indugiare in momenti singoli. Distingue tra un intero, che è il linguaggio, che lui chiama lo spirito assoluto, che in modo interessante pone poi come la condizione perché si avvii il primo gesto, il primo fare, il primo dire. Perché ci sia questo primo dire occorre che ci sia già tutto, che il linguaggio ci sia in quanto intero. Ecco, allora, la famosa frase di Heidegger: ciascuno nasce nel linguaggio. Il linguaggio è già lì, tutto. Questi momenti, così isolati, paiono bensì esistere come tali; ma il loro avanzare e il loro ritornare nel loro fondamento ed essenza mostrò com’essi siano soltanto momenti o grandezze dileguanti; e quell’essenza è appunto tale movimento o dissolvimento di tali momenti. Questa è la dialettica hegeliana: pongo un elemento, questo elemento è quello che è in virtù del fatto che non è tutto ciò che non è; quindi, tutto ciò che non è deve dileguare. Così come il significato nel segno di de Saussure: il significato dilegua mentre io dico il significante – naturalmente c’è e deve esserci, ché sennò non ci sarebbe neanche il significante – ma, nel momento in cui dico il significante, il significato fa esistere il significante in quanto tale ma dileguando; di fatto, c’è solo il significante, perché è lui l’elemento sensibile, è il significante che io ascolto, non sento il significato, sento il significante. Qui, dove è posto lo spirito o la riflessione di essi momenti in se stessi, la nostra riflessione può, secondo questo lato, ricordarli brevemente; essi erano coscienza, autocoscienza e ragione. La coscienza, nel momento in cui c’è una percezione sensibile; ma questa percezione sensibile è niente se non c’è un’autocoscienza, e cioè un ritorno di sé sulla coscienza; come dire: la coscienza dice “io sono”, l’autocoscienza dice “Io sono io”. Ma dicendo “Io sono io” l’autocoscienza pone due “io” ed è il secondo “io” che fa essere il primo quello che è. È una questione che riprenderà anche Peirce rispetto al segno: è il secondo segno quello per cui il primo esiste. Lo spirito è dunque coscienza ut sic, il che comprende in sé la certezza sensibile, il percepire e l’intelletto, in quanto esso spirito nell’analisi di sé medesimo tien fermo il momento secondo il quale esso è a se stesso oggettiva effettualità nell’elemento dell’essere, ed astrae dal fatto che questa effettualità è il suo proprio esser-per-sé. Questo è uno dei modi in cui può agire la coscienza: tener ferma la coscienza distinguendola, separandola dal per sé; come se potessi separare il significante dal significato. È chiaro che non sono la stessa cosa, sono distinti, ma non separati, coesistono necessariamente. Quando invece lo spirito tien fermo l’altro momento dell’analisi, che i suo è il suo esser-per-sé, allora esso è autocoscienza. Ma come immediata coscienza dell’esser-in-sé e dell’esser-per-sé, come unità della coscienza e dell’autocoscienza, esso è la coscienza avente razionalità… Nel momento in cui tiene conto di entrambe le cose, cioè, si rende conto che coscienza e autocoscienza si coappartengono e che non c’è una senza l’altra. …coscienza la quale, come indica quell’avere, ha l’oggetto come in sé razionalmente determinato o come determinato dal valore della categoria. A pag. 4. Lo spirito è la coscienza dalla cui considerazione noi proprio ora veniamo. Se questa ragione, cui esso ha, è infine intuita da lui come tale che è ragione… Cioè: si accorge che è ragione. …o come la ragione che è in lui effettuale e che è il suo mondo, allora esso è nella sua verità; esso è lo spirito, è l’essenza etica effettuale. Quindi, l’essenza etica effettuale non è altro che tenere conto del fatto che, parlando, il singolare è simultaneamente universale e che l’universale è il singolare, nel senso che – non che siano lo stesso – ma che ciascuno dei due non può esistere se non c’è l’altro. Questo è il punto fondamentale di tutta la dialettica. Ora, dice che a questo punto si trova nella sua verità effettuale. Esso è lo spirito, dice, esso è l’essenza etica effettuale. Dunque, l’etica è questo, è questa verità che non è niente altro che l’essere dello spirito, del linguaggio, in continuo movimento, di essere continuamente proiettato, per tornare indietro, e tornando indietro accorgersi di qualcosa, accorgersi che io sono diventato quello che sono in base a ciò che non sono. Ho tolto in questo procedimento dialettico ciò che non sono, e cioè il significato, perché io non sono il significato; il mio dire non è il significato, il significato è altro dal mio dire, ma il mio dire è nulla senza il significato; ma il significato non è il mio dire, è altro. In quanto è la verità immediata, lo spirito è la vita etica di un popolo;… Cioè: nel linguaggio c’è la vita etica del popolo. Vale a dire che nel linguaggio, nella sua storicità, c’è tutto ciò che l’etica dice cosa fare. Etica qui è intesa nell’accezione filosofica tradizionale, e cioè come ciò che indica che cosa è bene e cosa è male, ciò che si deve fare e ciò che non si deve fare. Tutto questo viene dal linguaggio, viene dalla storia del linguaggio. Lo dirà tra poco: tutti questi elementi non sono altro che la tradizione. L’etica viene dalla tradizione, come il panettone di Natale, è una tradizione, non una necessità.

Intervento: Una cosa si definisce perché non è tutte le altre. Possiamo allora dire che il significato viene posto come tutto ciò che non è quello che si vuole dire?

È anche, nel senso che se io dico qualche cosa, dicendo, dico un significante. Il significante è l’aspetto sensibile del segno. Ora, il significato è ciò a cui il significante rinvia per essere qualcosa, perché il mio non sia soltanto un flatus vocis, ma dica qualche cosa. Ma questo significato non è il significante, è questo che intendevo dire, il significante non è il significato; quindi, ha bisogno del significato, che non è il significante, ne ha bisogno perché sennò il significante non significa niente. Il significante possiamo intenderlo alla lettera, come il participio presente del verbo significare, se non significa che significante è? Passiamo al Capitolo A, a pag. 6: Lo spirito vero: l’eticità. L’eticità è lo spirito vero perché non è altro che tutto ciò che viene tramandato dal linguaggio, non tanto come tradizione come si pensa generalmente, ma tramandato letteralmente dalle singole parole: ogni parola che noi usiamo, volenti o nolenti, ha una storia, una storia immensa, e noi ci portiamo appresso tutto quanto. Nella sua verità semplice lo spirito è coscienza, e pone i suoi momenti l’uno fuori dell’altro. La verità semplice è così come viene pensata. I suoi momenti, lo sappiamo, sono la coscienza, l’autocoscienza e la ragione. L’azione lo divide nella sostanza e nella coscienza della sostanza… Quando io agisco, anche quando parlo – il parlare è il primo agire – io lo divido tra ciò che dico e la consapevolezza di ciò che dico: significante e significato. La sostanza come essenza universale e come fine si contrappone a sé quale effettualità singolarizzata;… Quindi, la sostanza come essenza universale – possiamo dire la sostanza come essenza universale del linguaggio – si contrappone a sé quale effettualità singolarizzata: tutto ciò che il linguaggio è, l’intero, è presente quando parlo, ma non lo dico. …il medio infinito è l’autocoscienza la quale, in sé unità di sé e della sostanza, lo diviene ora per sé; unisce l’essenza universale e la sua effettualità singolarizzata, eleva questa a quella e agisce eticamente, e quella abbassa a questa e realizza il fine cioè la sostanza soltanto pensata; essa produce come sua opera, e quindi come effettualità, l’unità di se stessa e della sostanza. Ci sta dicendo che tra l’intero, il linguaggio, e la cosa che dico c’è un medio. Questo medio, dice Hegel, è l’autocoscienza, cioè il mio sapere intorno a ciò che sto dicendo. Per questo accostavo – è chiaro che Hegel non lo fa mai – l’autocoscienza al significato: dicendo “Io sono io” do un significato al primo “io”, dico che cos’è il primo “io”, sono io, lo confermo, ma rimangono due. Questo medio, questa autocoscienza, che è infinito, e il significato è infinito… Se vogliamo dare un significato a qualche cosa lo possiamo fare, ma poi dobbiamo dare un significato a ogni elemento che interviene nella sua definizione, per cui appunto è infinito: è questa la infinitizzazione del significato e, quindi, del medio. Dice il medio infinito è l’autocoscienza la quale, in sé unità di sé e della sostanza, lo diviene ora per sé, e alla fine dice produce come sua opera, e quindi come effettualità, l’unità di se stessa e della sostanza. È questo medio infinito quello che consente di unire la coscienza con la ragione. Lui ci dice coscienza, autocoscienza, ragione: la ragione non è nient’altro che la relazione tra i due. È come se la coscienza e l’autocoscienza fossero i due estremi: la coscienza, il primo momento, il primo agire, il significante; la ragione è la consapevolezza che questo significante necessita di un significato, che la coscienza ha bisogno dell’autocoscienza per essere quella che è. Quindi, non si tratta di momenti separabili, sono tutt’uno, sono dei momenti di un intero. Lui lo diceva prima che questi momenti, di fatto, sono uno. Ma la cosa interessante è che senza la ragione, l’“ultimo” dei tre momenti, non c’è nemmeno il primo. E torniamo alla frase di Heidegger: noi nasciamo nel linguaggio, siamo già nel linguaggio, il linguaggio è già lì come intero, per potere incominciare a parlare. La ragione è il momento di integrazione con l’autocoscienza. La coscienza è il primo io, “Io sono”, ma si accorge che, dicendo “Io sono”, “Io sono io” che dico questo. Questo “Io sono io” è il momento dell’autocoscienza, dove ci si rende conto di ciò che si sta facendo. Solo che questi due momenti, che generalmente si tende a mantenere separati, non lo sono; questi due momenti sono uno, sono l’intero. De Saussure individua nel segno due momenti, significante e significato, e il segno è la reazione inscindibile tra questi due, che rimangono sì distinti ma non separati. Nel dirompersi della coscienza… Si dirompe perché incontra l’autocoscienza. …la sostanza semplice ha ricevuto, da una parte, l’opposizione di contro alla autocoscienza, e presenta, quindi, d’altra parte, anche in se stessa la natura della coscienza: il distinguersi, cioè, in sé quale mondo organizzato nelle proprie masse. È questo che fa la coscienza quando si dirompe: si distingue e si riconosce nei vari momenti, che però sono momenti di cui non ha ancora colto l’unità. La sostanza si scinde dunque in una distinta essenza etica: in una legge umana e in una legge divina. La legge umana appartiene ovviamente agli umani, quella divina Hegel la pone, proseguendo questo accostamento con de Saussure, come il significato. È la legge divina che dà un senso, un significato, che sostiene, che fa da garante. Quindi, abbiamo una legge umana e una legge divina. In pari modo, l’autocoscienza che le sorge di contro… L’autocoscienza sorge sempre di contro alla coscienza nel suo dirompersi. Si tratta, naturalmente secondo Hegel, di intendere che coscienza e autocoscienza sono lo stesso, nel senso che non può darsi l’una senza l’altra. …si ascrive, secondo la sua essenza, ad una di queste potenze; e, come sapere, si scinde nella ignoranza e nel sapere di ciò ch’essa opera; sapere che è perciò un falso sapere. Ché è un sapere del significato. Il significato è infinito e, quindi, è un falso sapere. L’autocoscienza dunque esperimenta nella sua operazione sia la contraddizione di quelle potenze nelle quali la sostanza si è scissa, e la loro reciproca distruzione; sia la contraddizione del suo saper l’eticità del proprio agire con ciò che è etico in sé e per sé; e va incontro al suo proprio tramonto. La legge umana dice che le cose stanno così perché noi lo abbiamo deciso. Ma noi chi? La legge divina fa da garante. Solo che si trova scissa fra queste due cose, non le combina insieme. L’idea di Hegel è stata questa: la legge umana e la legge divina sono lo stesso. È quando non c’è più un dio, la legge divina viene tolta, attraverso quel noto meccanismo di Hegel chiamato Aufhebung (sollevamento, integrazione) la legge divina viene integrata in quella umana e, allora, solo a questo punto la legge umana è completa, perché non dipende più da nessuna legge divina, non ha più bisogno di nessuna garanzia. C’è a questo riguardo un discorso interessante che fa Kojève rispetto alla Rivoluzione Francese e di Napoleone, come Hegel avesse visto nella Rivoluzione Francese la realizzazione effettuale della Fenomenologia dello spirito e in Napoleone il suo compimento. A pag. 8. Questa coscienza ha la sua essenza nello spirito semplice, e ha la certezza di se stessa nell’effettualità di questo spirito, in tutto il popolo, ed ha ivi immediatamente la sua verità… Questa coscienza ha come sua garanzia, come sua certezza, il popolo, nel senso che ciò che io sono, ciò che io faccio, mi ritorna dal fatto di essere un componente di un popolo. Questo dice la coscienza, io sono cosciente di questo, ma non dunque in qualcosa che non sia effettuale, anzi in uno spirito che ha esistenza e validità. Un tale spirito può venir chiamato legge umana, poiché esso è essenzialmente nella forma dell’effettualità consapevole di se stessa. La legge umana è qualcosa che si effettua, che si produce attraverso il diritto come qualche cosa di umano, non di divino. Nella forma dell’universalità esso è la legge nota, è il costume dato;… Da qui viene l’etica e, quindi, anche il diritto: dalla tradizione. Per Peirce sarebbe la verità pubblica, ciò che pubblicamente è riconosciuto come vero; per Heidegger sarebbe la chiacchiera; per Davidson sarebbe il principio di carità, che è quello che riconosce nell’interlocutore una comunanza di credenze, di superstizioni, di significati, tali per cui possiamo comunicare: parlando con qualcuno gli attribuisco tutte queste cose e, quindi, quando gli parlo, immagino che mi capisca perché abbiamo comunque dei riferimenti simili. A pag. 14. …lo spirito è la forza dell’intiero, la quale riconduce insieme quelle parti nell’uno negativo, dà loro il sentimento della loro dipendenza a le mantiene nella consapevolezza di avere la loro vita soltanto nell’intiero. Questo fa lo spirito, questo fa il linguaggio: dà la consapevolezza dell’intero, della totalità; non solo, ma dà questa consapevolezza di avere la propria vita soltanto nell’intero, cioè nel linguaggio. La mia vita sta lì e avere la consapevolezza di questo, ovviamente, porta a tutta una serie di considerazioni: se la mia vita è il linguaggio allora forse può essere utile sapere qualcosa, per esempio, rispetto al suo funzionamento. La comunità può dunque da una parte organizzarsi nei sistemi dell’indipendenza personale e della proprietà, del diritto personale e reale; similmente possono organizzarsi e rendersi indipendenti i modi del lavoro per i fini in un primo tempo singoli, - quelli, cioè, dell’acquisto e del godimento. Qui c’è già Marx. Tutte queste idee, la proprietà, ecc., del singolo che si muove in un certo modo e a vantaggio proprio, lo fa perché non ha ancora visto l’intero, cioè non ha ancora visto ciò che deve essere, e ciò che deve essere è la liberazione dei lavoratori. Lo spirito della associazione universale è la semplicità e l’essenza negativa di questi sistemi isolantisi. Per non lasciar loro metter radici e irrigidirsi in tale isolamento, per non far disgregare l’intiero e vanificare lo spirito, il governo ha da scuoterli di quando in quando nel loro intimo con le guerre, ha con esse da ferire e da confondere il loro ordine consuetudinario e il loro diritto d’indipendenza; e a gli individui che, adagiandosi in quell’ordine e in quel diritto, si distaccano dall’intiero e anelano all’invulnerabile esser-per-sé e alla sicurezza della persona, il governo deve dare a sentire, con quell’imposto lavoro, il loro padrone: la morte. È curiosa questa annotazione di Hegel della necessità della guerra per far in modo che le persone non si adagino nella loro quietudine ma per tenerli sempre tesi, sempre sulla corda. Lui ha scritto queste cose nel 1803, c’era Napoleone che aveva già occupato… Hegel dice che sentiva i cannoni a Jena, dove aveva il suo studio.

Intervento: Un’altra possibile interpretazione è quella per cui il governo deve ricordare con la violenza la necessità della sua esistenza.

Certo, questo è uno dei modi. In effetti, perché si lanciano sempre allarmi, emergenze, pericoli? Perché di fronte al pericolo comune si fa unità. Tutte le piccole discrepanze all’interno di una nazione scompaiono di fronte a un pericolo ben più grave: il nemico ci sta invadendo e, quindi, tutti gli individui uniti contro il nemico. Poi fa altre considerazioni rispetto alle relazioni familiari, tra marito e moglie, tra fratello e sorella. Anche in questo caso tenta di far funzionare la dialettica, riuscendoci fino a un certo punto, nel senso che ciascuno di questi momenti deve integrarsi con l’altro momento. È curioso che lui attribuisca al femminile l’universale. Ma ci arriveremo. A pag. 21. In tal guisa, nel suo sussistere il regno etico è un mondo non macchiato di scissione alcuna. Questo regno etico ideale. E similmente il suo movimento è un quieto divenire: l’una potenza di esso regno diviene l’altra, e da ciascuna l’altra è ricevuta e prodotta. Noi le vediamo bensì dividersi nelle due essenze e nell’effettualità di esse; ma la loro opposizione è piuttosto la convalida dell’una essenza mediante l’altra;… Questa sarebbe la quiete che la guerra dovrebbe raggiungere. …e il punto nel quale esse toccansi immediatamente come reali, il loro medio e il loro elemento, è la loro compenetrazione immediata. L’un estremo, lo spirito universale cosciente a se stesso, viene, dall’individualità dell’uomo, conchiuso col suo altro estremo, con la sua forza, col suo elemento, con lo spirito privo di consapevolezza. Questo nella legge umana. La legge umana dice che bisogna comportarsi così, però l’uomo in certi momenti non ha nessuna intenzione di comportarsi a quella maniera. Invece, la legge divina ha la sua individuazione, - ovvero lo spirito privo di consapevolezza del singolo ha il suo essere determinato, - nella donna, in virtù della quale, intesa come medio, ascende dalla sua ineffettualità all’effettualità, da ciò che né sa né è saputo, al regno della coscienza. L’unione dell’uomo e della donna costituisce il medio attivo dell’intiero e l’elemento che, scisso in questi estremi della legge divina e della umana, è altrettanto la loro unificazione immediata la quale fa di quei due primi sillogismi un medesimo sillogismo e unifica in un solo il movimento opposto:… Ora, interviene l’operare. Come dicevo prima, l’etica ha a che fare con l’agire, con l’operare. A pag. 27. …l’operare è proprio questa scissione del porre sé per sé, e di contro a questa un’estranea effettualità esteriore;… Ciò che io opero è altro da me, mi sta contro. …che una tale effettualità esista, appartiene all’operare medesimo… E’ chiaro che se opero, opero qualche cosa. Innocente è quindi soltanto il non operare. Perché il mio operare mette di contro me e la mia opera. Questione che riprese molto tempo dopo Sarte con il suo scritto Essere e il nulla: quando io faccio qualche cosa, per esempio scrivo un libro, una volta che l’ho scritto questo non mi appartiene più, in un certo senso mi è contro, non ho più nessun controllo su di lui.

Intervento: sulla donna…

La donna ha una sua funzione, che è quella di essere universale. La donna mantiene l’universale, cioè, è come se mantenesse le cose come stanno. Da una parte c’è l’uomo che agisce nel sociale, potremmo dire oggi; dall’altra c’è la donna che invece mantiene la tradizione, l’immobilità, la quiete. Sarebbe questo, secondo Hegel, il suo compito. A pag. 28. L’elemento agente non può negare il delitto e la sua colpa; - il fatto consiste nel muovere l’immoto e nel produrre ciò che da prima è soltanto racchiuso nella possibilità, collegando quindi l’inconscio col conscio, il non-essente con l’essere. In questa verità vien dunque alla luce del sole il fatto; - viene alla luce del come qualcosa in cui il conscio è congiunto all’inconscio, il proprio all’estraneo; come l’essenza scissa di cui la coscienza esperimenta l’altro lato, sperimentandolo anche come il lato proprio; e tuttavia come una potenza cui essa ha violato e si è resa nemica. Incomincia a dire che l’operare, sì, certo, è necessario, ma in questo operare c’è un problema, dice lui, crea una sorta di scissione. Come dicevo prima, è una questione che anche Sartre tempo dopo rileverà, e cioè che ciò che ho fatto non mi appartiene più, non sono più io quello che ho fatto. Infatti prosegue così. A pag. 29. Ma la coscienza etica è più completa, la sua colpa è più pura quando conosce in precedenza la legge e il potere cui si contrappone, quando la intenda come violenza e come torto, come un’accidentalità etica, e scientemente, al pari di Antigone, commetta il crimine. Il fatto compiuto inverte il punto di vista della coscienza; l’averlo compiuto esprime di per sé che ciò che è etico debba essere effettuale:… Se non faccio niente non succede niente, devo fare qualche cosa perché io possa dire aver fatto bene o male. L’agire esprime appunto l’unità dell’effettualità e della sostanza;… Dell’effettualità, di ciò che si produce, e della sostanza, cioè dello spirito. …esprime che l’effettualità non è accidentale all’essenza;… Questo è importante. Ciò che faccio non è qualcosa che si aggiunge accidentalmente all’essenza, allo spirito, al mio pensiero. Ma che, in unione con questa, non vien data a nessun diritto che non sia diritto vero. In forza di questa effettualità e in forza del proprio operare la coscienza etica deve riconoscere il suo opposto come l’effettualità sua; deve riconoscere la sua colpa:… Dice Hegel che ciò che importa è riconoscere nella mia opera la “mia” opera; non è stato accidentale quello che ho fatto. Ci vorrà un po' di tempo prima che arrivi Nietzsche a dire “Ciò che fu, io volli che fosse”, non è stato accidentale; poi, con Freud ovviamente si sono aggiunte ancora delle questioni, ma qui erano già poste. A pag. 34. Mentre la comunità si dà il suo sussistere solo distruggendo la beatitudine familiare e dissolvendo l’autocoscienza nell’autocoscienza universale, essa produce in ciò che opprime e che le è in pari tempo essenziale, cioè nella femminilità in generale, il suo interiore nemico. Il feminino, eterna ironia della comunità, cambia co’ suoi intrighi il fine universale del governo in un fine privato, trasforma la sua attività universale in un’opera di questo determinato individuo e inverte l’universale proprietà dello Stato in un possesso e orpello della famiglia. Così la pensosa saggezza dell’età matura, che, morta alla singolarità al piacere e al godimento, nonché all’attività effettuale, pensa e cura soltanto l’universale, dal feminino è fatta zimbello all’audacia dell’immatura giovinezza e viene additata al disprezzo del giovanile entusiasmo. Questa donna dileggia il vecchietto e, invece, segue il giovinotto, giustamente. Il feminino eleva in general a valore la forza della giovinezza: il figlio in cui la madre ha partorito il suo signore, il fratello in cui la sorella trova l’uomo come proprio eguale, il giovane, mediante il quale la fanciulla, sottratta alla propria insufficienza, consegue la gioia e la dignità della sposa. Qui c’è tutto Freud, in quattro righe. Dice il figlio in cui la madre ha partorito il suo signore, tutta la questione materna in Freud è contenuta in queste poche parole. La madre ha partorito che cosa? Il figlio? No, la madre ha partorito il suo signore. Il che comporta: 1) che abbia bisogno di un signore; 2) che questo signore, che lei vuole, diventi qualcosa che lei ha prodotto, diventa una sua produzione, qualcosa che lei controlla. Così la sorella nei confronti del fratello, che è l’uomo che le è eguale. Qual è la fantasia di ogni fanciulla? È che gli uomini siano più potenti delle donne. Da qui la necessità di ridurli in zimbelli. Mentre il fratello per la sorella è l’eguale, è l’unica occasione in cui sono eguali. Qui stiamo naturalmente parlando di questioni etiche, e cioè delle tradizioni, ma non soltanto perché, per intendere come funzionano queste tradizioni, occorre una riflessione intorno alla volontà di potenza. Occorre questo per intendere che la madre vuole un figlio come suo padrone per poterlo dominare. Dominare il proprio padrone: è il colmo della potenza, più potenti di così non si può. Se non si intende questo è chiaro che rimane una fantasia al pari di qualunque altra. A pag. 35. …il giovane valoroso del quale la femminilità si compiace, nel quale reprimesi il principio del corrompimento, viene alla luce ed è quello che conta. Ora è a forza naturale e ciò che appare come caso fortuito, quel che decide sopra l’esserci dell’essenza etica e sopra la necessità spirituale; dacché dalla forza e dalla fortuna dipende l’esserci dell’essenza etica, è già decisa ch’essa è andata a fondo. Questa essenza etica, se noi la prendiamo soltanto nei termini comuni. Adesso, lui stava parlando della guerra, dove ci si fa belli, l’eroe che torna a casa vincitore, con tutti gli onori, ecc., ha fatto l’eroe, ha fatto quello che doveva fare, ha fatto il suo dovere e anche qualcosa in più. Ma non è questo che Hegel intende con etica.