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27-11-97

 

Allora proseguiamo questa nostra avventura attraverso i giochi linguistici. Visto che dalla prossima volta ci occuperemo di Austin, che cosa fare con le parole, questa è una bella questione. Che già in qualche modo verrà introdotta questa sera. Abbiamo detto dei giochi linguistici, come di fatto tutto ciò che si produce parlando, ciascun discorso è inserito in un gioco linguistico, e un gioco linguistico è determinato dalle regole che dirigono il discorso, che danno senso al discorso, senza le regole un discorso non avrebbe nessun senso, perché sono le regole per l’uso, sono la grammatica direbbe Wittgenstein, queste regole del discorso sono la grammatica del discorso. Ora parlando di regole del gioco linguistico, parliamo di retorica, di figure retoriche cioè una figura retorica non è altro che un modo in cui qualcosa si dice, ciascuna cosa può dirsi in infiniti modi, il modo in cui una cosa si dice è una figura retorica, ora vediamo se è possibile utilizzare quanto detto fino ad ora rispetto all’intendimento di un discorso, uno qualunque, supponiamo per esempio che un discorso produca questa conclusione che afferma che comunque, le cose andranno a finire male. E’ una cosa abbastanza diffusa questa idea di “tanto andrà a finire male” ora questo discorso che  giunge a quella conclusione è un gioco linguistico, qual è la sua grammatica cioè quali sono le regole che lo fanno esistere? Andiamo per gradi, intanto abbiamo detto che è una figura retorica o meglio un insieme di figure retoriche e cioè di varianti. Una figura retorica in quanto variante, cioè qualcosa che varia rispetto a una previsione, a ciò che ci si attende, produce o dà al discorso un’altra direzione, proprio perché ci si attende una certa cosa e ad un certo punto interviene un’altra che porta da un’altra parte, se voi pensate a come vengono utilizzate generalmente le figure retoriche avrete immediatamente la misura di tutto questo in quanto la figura retorica interviene per produrre un effetto, anche stilisticamente in chi ascolta, per produrre delle emozioni, per produrre della persuasione, per produrre un assenso, qualunque cosa, quindi in definitiva una figura retorica ha come obiettivo la produzione di una emozione, qualunque essa sia non ha importanza. Perché se si riesce a produrre emozioni il discorso risulta più efficace? Come mai? E’ una bella questione tutt’altro che  affrontata fino ad oggi,  è stata sempre data come per acquisita, per cui da sempre si suggerisce agli oratori di infiorare il loro discorso con figure retoriche in modo da renderlo più piacevole, per produrre emozioni, ma perché questo esattamente? su questo si è taciuto, eppure, eppure proviamo a riflettere su questo, chiamiamolo “dettaglio”, tra virgolette, perché non è così marginale, dunque cosa fa una variante? Abbiamo detto che imprime al discorso una direzione e quindi? Cosa avviene imprimendo al discorso una direzione differente da quella che ci si aspetta? Si produce una variazione di senso, ovviamente, ma non soltanto questo, inseriamo ancora un altro elemento, quand’è che una cosa annoia? Quando non interroga, quando non c’è nulla che solleciti il discorso a proseguire, è come se non ci fosse nulla da dire, a questo punto è la noia mortale, nel senso proprio di morte, quanto se non c’è parola...ora considerate dunque questa variante cioè questa nuova direzione che prende il discorso cosa fa esattamente? Lo rilancia. E’ come se, adesso uso una metafora rozza, come se desse una sorta di accelerazione al discorso, come dire, di nuovo finalmente qualcosa cosa interroga, qualcosa muove, qualcosa produce altri discorsi, produce altre proposizioni, altre frasi. Se ciascun umano e  quindi ciascun parlante, non riesce e non trova continuamente qualcosa che rilanci il suo discorso, si spegne, perché di fatto le cose esistono nella parola, se non c’è più parola, non esiste più niente, quindi è come la morte, anzi direi che questa è la morte per definizione, ma la questione centrale in tutto ciò non è tanto che ci sia negli umani un’intenzione a proseguire a parlare, una volontà in questo senso, gli umani essendo il discorso che fanno  sono l’effetto, per dirla così, del linguaggio, è il linguaggio che costringe il discorso a proseguire, lo costringe in questo senso, che ciascun elemento linguistico, come dicevamo la volta scorsa quando abbiamo cominciato a parlare di giochi linguistici, ciascun elemento linguistico dunque per essere tale, deve essere inserito in una catena linguistica cioè deve avere necessariamente un rinvio a un altro elemento, non può non averlo, ora un discorso che annoia è come se non avesse più nessun rinvio, a questo punto c’è l’arresto e appunto la noia, nulla interroga più perché il rinvio è qualcosa che comunque interroga nel senso che sposta  che costringe a muoversi in una direzione e quindi muovendo in una direzione produce un senso, proprio letteralmente senso come direzione, ma dunque per dirla in termini più appropriati è il linguaggio che costringe il discorso a proseguire, per definizione, proprio perché esiste il linguaggio e il discorso non può fermarsi.  Ora torniamo alla questione  retorica, in teoria non dovrebbe esserci alcun bisogno di figure retoriche dal momento che il discorso non può fermarsi, però ciò che si chiama desiderio comunemente, non è altro che la constatazione dell’andare del discorso in una direzione. Ciascun discorso non può non andare in una direzione ma la figura retorica cosa dice? E’ come se producesse continue varianti, continue nuove  direzioni, e in questo è come se rilanciasse continuamente il desiderio, direi che la figura retorica, per dirla così è il motore del desiderio, possiamo anche pensare in questo modo che la figura retorica instaurando nel discorso un’altra direzione, quasi produce il desiderio, è come se continuamente dicesse c’è ancora da desiderare, c’è ancora da muoversi, c’è ancora da fare e sembra che gli umani siano fortemente attratti da questo ma non è un’attrazione personale, come dicevo, è  il linguaggio in cui e per cui vivono, che li costringe a fare questo a cercare in definitiva sempre e continuamente delle varianti. Allora torniamo all’esempio di prima, dal quale ci siamo un po’ allontanati per fare delle precisazioni del discorso che afferma che comunque andrà sempre tutto male. Affermare questo è come produrre una scena in cui la catastrofe è avvenuta, questa catastrofe è una forte produttrice di emozioni, è come se si ponesse come la variante più importante, quella ultima, quella definitiva, l’ultima variazione, come se si ponesse effettivamente come l’ultimo godimento, quello finale, quello mortale poi in ultima analisi, dopo quello non deve esserci più niente. E’ chiaro che è sempre un’attesa di questa catastrofe, perché qualunque cosa potesse mai accadere anzi la catastrofe più colossale non sarà mai comunque quella che ci si sarà immaginata, quella che si immagina non si verificherà mai, non può verificarsi perché sarebbe l’elemento fuori dal linguaggio, sarebbe l’ultimo anello della catena, l’ultima parola. Ora perché una cosa del genere produce una forte emozione? Perché è considerata come l’ultima virata del linguaggio, quella estrema ed è una forte emozione, come vi dicevo, messa al posto del godimento tutto, definitivo, che non lascia più nulla a desiderare letteralmente. E quando interviene questa formulazione della catastrofe imminente? Interviene come ciascuna figura retorica là dove la situazione cioè il discorso langue, per così dire, non è casuale che una affermazione come questa che dice che comunque le cose andranno male, interviene proprio al momento in cui le cose vanno bene e lì, forse dicevamo martedì alla conferenza, lì che qualcosa non è più tollerabile, e non è tollerabile perché non interroga  più, se le cose vanno bene, paradossalmente, cessano di interrogare, è come se ogni cosa fosse al suo posto e lì dal suo posto inamovibile, a quel punto è effettivamente la catastrofe, e allora ecco deve intervenire qualche cosa, qualche cosa che produca una variante uno spostamento, solo che se in alcuni casi, questo è un dettaglio clinico, se la situazione che si sta vivendo è quella che si è per così dire, sempre desiderata, allora il problema è ancora maggiore, perché se io ho raggiunto ciò che volevo nella mia vita, adesso che cosa faccio? A questo punto l’unica salvezza è immaginare che qualche cosa accadrà per cui ciò che ho ottenuto venga distrutto, e quindi ci si adopera per distruggere ciò che si è raggiunto cioè ciò che si è acquisito. Ora questa formulazione può intervenire anche dove non si è ottenuto ciò che si desiderava ma può intervenire quasi come una sorta di ancora di salvezza, comunque sia, comunque andranno le cose io so che andando  a finire malissimo, in ogni caso sarò garantito dall’avere questa forte emozione, sono garantito che comunque il discorso prenderà un’altra piega, quella peggiore ma è comunque una piega differente. Perché anche nel luogo comune generalmente si tende ad affermare che le cose andranno male? E ciò che ci si aspetta è sempre qualcosa di negativo perlopiù a meno che ciò che si desidera sia molto lontano da raggiungere e allora si è tranquilli che non lo si raggiungerà. Ma se invece si approssima allora interviene questa sorta di pessimismo, è come un’assicurazione, so che sto per raggiungere ciò che volevo o quanto meno è possibile, e si avverte il rischio che questo comporta, cioè dell’arresto del discorso e quindi ci si lascia quest’asso nella manica: sì lo raggiungerò ma dopo succederà una catastrofe di proporzioni bibliche il cielo si squarcia,  il mare si trasforma in un oceano di fuoco...

 Interventi vari...

Certamente. Ciò di cui parlavo è una fantasia, in effetti la catastrofe che si attende non arriva mai, questo lo abbiamo già detto, non arriverà perché qualunque cosa potrà accadere non collimerà mai con ciò che io ho pensato, sarà sempre un’altra cosa, ma è una costruzione che si fa, questa dell’attesa della catastrofe, in modo da potere comunque continuare a pensare che ci sarà una svolta comunque, anche nella paralisi più totale, che potrebbe essere costituita dal raggiungimento di ciò che desidero, comunque questo non comporterà l’arresto perché interverrà questa svolta violenta, questa svolta repentina, prima parlavo di assicurazione, in un certo senso sì, ma di fronte a un discorso come questo, che dicevo prima cioè che afferma che avverrà una catastrofe , qual è la questione su cui occorre puntare l’attenzione? Sulla quale intervenire? Insomma la domanda è questa, è possibile costruire per esempio, una o più proposizioni che arrestino una simile superstizione cioè una simile necessità, poi in definitiva, la necessità che ci debba essere comunque una variante non tenendo conto che comunque, inesorabilmente una variante c’è, anche adesso che sto parlando, come dire che tutto ciò che il discorso sta ponendo, in questo momento, non viene accolto, non viene accolto ed è per questo motivo che si fa come se non ci fosse nessuna variante, ma come se...di fatto c’è, ogni volta e sempre inesorabilmente, non accogliendola ci si condanna alla noia, perché mentre parlo  il discorso prende un’altra piega, ma se io non accolgo questa direzione? Faccio come se non avesse preso quest’altra direzione, allora diventa monotono letteralmente, diventa unidirezionale, cioè è come se non ci fosse mai nulla che interviene in questo discorso a dare un’altra piega, un’altra direzione. In molti casi allora è l’attesa che accada qualche cosa nel mondo che mi provochi questa emozione, come appunto una catastrofe, si tratta allora di intendere che cosa impedisce l’accoglimento di tutte le infinite varianti che intervengono nel discorso, e qui si avverte quella struttura paradossale, che già Freud aveva considerata, e cioè che da una parte c’è la richiesta di assoluta sicurezza e stabilità e simultaneamente la richiesta di forti emozioni, che sono assolutamente contraddittorie. E questa è la condizione in cui perlopiù vivono le persone, è chiaro che posta in termini così antinomici non ci sarà mai una possibilità di fare combinare due cose che sono totalmente contrarie. E’ come se fosse o si immaginasse un unico gioco linguistico senza tenere conto che sono due giochi differenti con regole differenti, e finché si continua a immaginare che la regola sia una, ci si trova inesorabilmente di fronte a questo paradosso. Una situazione come questa può sbloccarsi a condizione che io possa accogliere le varianti del discorso e quelle che il discorso produce continuamente, a questo punto non ho più bisogno di assicurarmi che  il discorso prenderà un’altra piega comunque, perché mi accorgo che la prende comunque ininterrottamente, e ciò che impedisce di accogliere questo fatto è uno dei due corni del dilemma e cioè la necessità che tutto sia saldo, stabile e sicuro, e quindi questo costringe a eliminare tutto ciò o molte di quelle cose che sono delle varianti, quelle che potrebbero dare insicurezza, sono varianti ma non vengono accolte, non vengono accolte e quindi incomincia la ricerca di qualche cosa che dall’esterno, perché è come se il discorso non potesse più, perché si sbarrano tutti gli accessi, la ricerca di qualche cosa dall’esterno cioè della quale io non sono responsabile. In altri termini che cosa consente di accogliere le infinite varianti del discorso? Ciò che generalmente chiamo responsabilità, è il trovarsi responsabili di ciò che si dice, dei pensieri che intervengono delle fantasie, dei desideri qualunque cosa, questa pare essere una delle condizioni per potere accogliere queste infinite varianti. Le varianti non sono altro che le regole per giocare altri giochi linguistici. Una persona che afferma che comunque le cose andranno sempre male, è come se non potesse accogliere le regole per giocare altri giochi linguistici, ma soltanto questo. Se io, per esempio, affermo che sto facendo questa cosa ma comunque non riuscirò, andrà male, succederà qualcosa che fa andare tutto storto, io mi trovo in un gioco che è come se fosse programmato, cioè se avviene una certa cosa allora succederà quest’altro, se faccio una cosa che mi diverte sicuramente andrà a finire male, per esempio, questo schema inferenziale così rigido, non viene accolto come una produzione del linguaggio, cioè come una  mia produzione, ma come un fatto naturale, cioè le cose sono così e anche un senso in questo caso è unidirezionale, un senso univoco, cosa cosa comporta che il senso sia unico? Comporta l’esclusione che si diano altri giochi linguistici, che si diano cioè altre regole, se una cosa la desidero e questa, per esempio, non la otterrò, questa è una regola, corrisponde alla grammatica del mio discorso, la quale dice che se desidero una certa cosa, non la otterrò o se la ottengo la perderò, questa è la grammatica di questo discorso, ma anziché come grammatica del discorso spesso viene presa come una procedura linguistica e cioè come qualcosa di assolutamente necessario, le cose sono così e non possono essere altrimenti, ma cosa costringe a pensare una cosa del genere? che cosa blocca un gioco linguistico per esempio, l’unica regola? Ché questa è una questione,  ché  è come se si trovasse  un discorso bloccato che non ha accesso a nient’altro. Questa è sempre una questione che è sempre comunque difficile da affrontare, ma così di primo acchito potremmo dire questo, che ciò che blocca il discorso è ciò che Freud chiamava il tornaconto, cioè il vantaggio, in questo  caso il vantaggio è di poter continuare a pensare a una inevitabile variante del discorso, una inevitabile altra piega che il discorso prenderà e produrrà una forte emozione, senza il tenere conto che già il pensarlo adesso già produce un emozione . Ciò su cui occorre lavorare è questo una necessità di attendere dagli eventi queste emozioni, cioè queste varianti, anziché accogliere quello che il discorso produce, poi le varianti sono le produzioni del discorso, non altro che questo, ma che cosa impedisca al discorso di accogliere quelle varianti che produce ininterrottamente, questa è una questione straordinariamente ardua da affrontare e ancora più ardua da formalizzare...

Interventi

Questa attesa che l’emozione venga da altro che non sia il discorso, è esattamente ciò che io indico come il discorso religioso, che poi si configura con gli dei, con varie cose e poi neanche necessariamente gli dei, può essere qualunque altra cosa, ma è comunque l’attesa che la salvezza venga da un elemento fuori dalla parola, questa è propriamente la struttura religiosa...

Interventi

Un discorso che giunga sempre a quella conclusione per cui le cose andranno sempre a finire male è un discorso religioso, non può provare una cosa del genere e dunque come lo sa? Lo crede, lo crede senza poterlo provare, credo qui absurdum diceva Tertulliano e più è assurdo e più lo credo e lo credo perché mi solleva dalla responsabilità di ciò che dico, la questione come vedete riconduce sempre a questo aspetto, è centrale in tutto ciò che andiamo facendo, della responsabilità del discorso che procede dalla constatazione che nulla è fuori dalla parola, e dunque tutto ciò che avviene, tutto ciò che dico, tutto ciò che avviene, non sono responsabile nel senso che...ciò avviene nel discorso in cui mi trovo, ora se per esempio mi casca una tegola sulla testa mentre sto passando, chiaramente di questo non sono responsabile

Intervento

La questione più difficile da intendere è che questa tegola che mi cade sulla testa, senza il linguaggio non sarebbe mai caduta, né sarebbe mai esistita, né tutto ciò che accade sarebbe mai esistito, questa è sicuramente la questione più ardua da considerare, solo che è inesorabile, inesorabile proprio prendendo il discorso occidentale rigorosamente e portandolo alle estreme conseguenze. Dunque vedete come un gioco linguistico è dato dalle regole che lo fanno esistere cioè dalla sua grammatica, nell’esempio che abbiamo fatto la grammatica del discorso comporta una struttura religiosa. La struttura religiosa è quella che si trova in una bizzarra condizione perché afferma alcune cose e supportandole da argomentazioni più o meno logiche “ finirà male perché tanto tutto è finito male,  quindi sempre è tutto finito così, vedi il mondo come funziona, finisce sempre tutto male” dunque è supportato da pseudo argomentazioni logiche, senza per altro attenersi minimamente alla logica, la quale logica, una affermazione come questa la considera nulla, “è sempre stato così” questo non significa nulla, assolutamente niente, questo può indurci, appunto questa è una induzione a pensare che possa accadere ma che io decida che accadrà, questa è una mia decisone. Ed è di questo che occorre che io tenga conto perché tenendone conto la questione cambia completamente. Se io soffro per qualche cosa, qualunque cosa sia, immagino generalmente che questa sofferenza sia causata da un elemento esterno,  per cui se succede questo allora soffro,  non è esattamente così, la mia sofferenza è una mia decisione, io posso soffrire sapendo perfettamente che sono io che lo voglio fare, sapendo questo soffro anche magari, ma la cosa è totalmente differente, diventa una questione estetica nel senso che a me piace così, per cui lo faccio. Certo. Cosa cambia? Cambia il fatto che  ritrovandomi  responsabile di ciò che sto facendo in nessun modo posso attribuire  la responsabilità all’altro, accusarlo e attendermi quindi che dall’altro arrivi la mia salvezza, ché la salvezza non c’è,  se sono io che desidero, che decido di soffrire non posso attendermi dall’altro che io cambi decisione, ma sono io che ho deciso CAMBIO CASSETTA  Tutto questo ha una portata clinica notevole, perché è propriamente questo ciò che  occorre che si verifichi, l’accoglimento della responsabilità, è un altro modo di affermare la questione che vi dicevo qualche incontro precedente e cioè che l’itinerario analitico occorre che giunga a porsi come ricerca linguistica, accogliere la propria responsabilità è una ricerca linguistica, perché la responsabilità consiste nell’accogliere che il discorso che sto facendo e quindi quello che produce le cose che ho intorno, è una mia produzione, non di altri. E’ come se ciascuna volta occorresse domandarsi di fronte a ciascun discorso che in qualche modo vieta o interroga, qual è la grammatica di questo discorso, a quali condizioni posso farlo, che cosa occorre che io creda per potere giungere alle conclusioni cui giungo? Questo può costituirsi, così anche come esercizio, esercizio retorico, in quanto è ciò che consente di inserire delle varianti, alla grammatica del discorso, per questo spesso dico che non c’è via se non quella di portare le affermazioni alle estreme conseguenze ma alle estreme conseguenze intendo questo, estreme conseguenze logiche. Per esempio, rispetto al discorso che si faceva prima quello della catastrofe finale, io posso provare una cosa del genere che ci sarà la catastrofe finale? No. Allora perché lo credo? Infinite altre cose accadono che io non posso provare e alle quali non credo, perché a questa sì? Cos’ha di particolare? Ha una funzione che altre non hanno e se non hanno questa funzione non sono credute. Così come la religione quella ufficiale, ha una funzione che è quella di consentire a ciascuno che ci creda, di pensare che la salvezza venga da qualche elemento fuori dalla parola, che quindi non sono responsabile del linguaggio, che quindi le cose sono garantite da un dio che ha questa funzione, lo stesso pensare che le cose andranno male ha una funzione, per questo è creduto. Non avrebbe nessun motivo di essere creduto qualcosa del genere e a che cosa serve, un utilizzo è quello che abbiamo visto prima, una sorta di assicurazione comunque ho l’asso nella manica, comunque anche di fronte all’arresto, almeno apparente, alla paralisi del discorso, ci sarà qualche cosa che mi garantisce primo  che comunque ci sarà una nuova variante e qualcosa che mi scuote, secondo che questa cosa non verrà da me e quindi non sono io che la produco e cioè non ho da confrontarmi col mio discorso, mi basta stare in attesa che arrivi la catastrofe, e prima o poi arriverà. I giochi linguistici sono fatti in modo tale da soddisfare qualunque esigenza, perché la grammatica di ciascun gioco linguistico, può variarsi, al punto da costruire infiniti giochi linguistici, infiniti, di questo occorrerebbe rendersi conto e cioè partendo dalle stesse considerazioni è sempre possibile costruire un gioco linguistico con un’altra grammatica che afferma esattamente il contrario. Facendo il verso allo scientismo se le cose sono sempre andate male, la legge delle probabilità sempre di più conforta pensare che cominceranno ad andare bene, uno può giocare anche con queste sciocchezze, ma appena per dire che qualunque certezza che si formula, non è supportata da nulla se non dal discorso religioso, è l’unico

supporto possibile, cioè credo qui absurdum, è la sola cosa che può far credere, e più è assurdo e più ci credo. Se pensate a questo fatto così curioso il discorso occidentale cerca  sempre di affermare le cose attraverso la logica e poi invece la abbandona, è curioso come funzioni per ciascuno, questo utilizzo bizzarro della logica, affermare che è sempre successo così, e allora?

Intervento

Che presuppone che primo che quello di oggi sia peggiore di quello di una volta, secondo che abbiamo un criterio ben saldo per stabilire che cosa è meglio e che cosa è peggio, e ancora credere che sia proprio così...

Intervento: c’è differenza nel pensare che tutto andrà male e il pensare che tutto andrà bene, cioè il pensare positivo?

Sì al pari dell’altra formulazione è come se si attendesse  qualcosa dal futuro, è una sorta di attesa, in un certo senso la struttura non è molto diversa in entrambi i casi è come se la risposta a qualcosa che sta avvenendo, dovesse venire da un altrove, un altrove che sarà in condizioni di produrre questo. Perché se ci pensate bene tra l’affermare che andrà bene e l’affermare  che andrà male non c’è molta differenza, quello che afferma che andrà male sta affermando che andrà bene, a modo suo, e cioè che ci sarà comunque qualche cosa...e quindi entrambi si aspettano qualche cosa che darà soddisfazione. Sì, di per sé la cosa può essere indifferente, certo che se questa attesa diventa ciò che  pilota l’attuale, può costituire un problema, è un altro modo per non accogliere ciò che sta producendo adesso, e cioè ciò che il discorso produce in questo momento, cioè io non ascolto ciò che il mio discorso dice e produce, io dico che andrà bene e quindi è come se mi assordassi con questa attesa, così come quello che dice che va male, abbiamo visto che tutto sommato sono due facce della stessa cosa, in ogni caso è l’attesa di qualche cosa che in ogni caso dovrà soddisfare  delle attese, delle esigenze, delle richieste, ma che sposta l’attenzione da ciò che sta avvenendo adesso...

 

n    Interventi

 

Occorre sempre  tenere conto che un’ attesa...negli anni settanta  andava di moda il mondo migliore, migliore per chi? Per me? E se per qualcuno fosse già il mondo migliore? E poi ciascuno avrà un’idea differente di questo mondo migliore, da qui, il passo che si compie spesso è il terrorismo e cioè imporre...è un po’ l’utopia delle brigate rosse, imporre con la violenza quello che per loro era il mondo migliore. Solo che viene imposto con le armi ad un certo punto, e allora è da valutare se ...ha sempre dei risvolti un po’ drammatici questa cosa, anche per Hitler il progetto che lui aveva in testa corrispondeva al mondo migliore, altri non avevano lo stesso criterio, e glielo hanno impedito, però di fatto per lui era sicuramente il mondo migliore, il migliore dei mondi possibile, quello in cui governava solo lui, ovviamente...

Intervento:

Vede la difficoltà del convivere con le persone è la stessa difficoltà che ha ciascuna religione di convivere con un’altra religione, si combattono ma convivono perché sanno che si sterminerebbero,  cosa che quando possono fanno, ma è sempre uno scontro religioso uno scontro di opinioni, è una guerra di religione, cioè io credo questo e questo devi crederlo anche tu, credo nel dio uno e trino...

Intervento: ci vuole tolleranza...

Sì, tolleranza che è sempre molto problematica, perché la tolleranza non è altro che accogliere l’eventualità che altri abbiano una religione differente dalla mia e in fondo è questa la tolleranza, così come la chiesa cattolica tollera la presenza degli ebrei, gli ebrei tollerano la presenza dei mussulmani e così via...i mussulmani non tollerano la presenza...sono agitati continuamente...perché se ci si riflette bene la tolleranza di fatto potrebbe non esistere ma non perché  son tutti intolleranti, se non  si desse un pensare religioso non ci sarebbe bisogno di tollerare alcunché, non ci sarebbero altre religioni diverse dalle mie, perché io non ho nessuna religione

Intervento

La questione centrale nel discorso che abbiamo fatto questa sera è questa, ciò che io credo, qualunque cosa sia, non ha importanza, ciò che io penso può essere provato? No. Allora perché lo credo e perché lo penso? E qual è il tornaconto. Ora uno potrebbe dire, non tutto quello che dico necessita di dover essere provato, perché no? Se io affermo una cosa e questa non può essere provata allora è tanto vera quanto falsa, cioè non è credibile e io devo credere che sia vera, ma non posso provarlo in nessun modo. Questo comporta immediatamente che se io penso questa cosa non è perché è così, ma perché io decido che è così, è una mia decisione di cui mi assumo la totale responsabilità. Questa è la questione centrale, perché nulla mi costringe a credere nel senso che non posso provarlo e il linguaggio è fatto in modo tale da costringere proprio per la sua grammatica, se io voglio fare un’affermazione, affermare che sia vera, che debba essere provata, attraverso le regole del linguaggio e siccome non posso provare assolutamente nulla, ciascuna affermazione che io compio, di ciascuna affermazione che io compio mi assumo la totale responsabilità nel senso che è una decisione, io ho deciso che è così, se tutte le cose andranno male, se affermo questo, e sono io che ho deciso che è così, mi trovo di fronte ad un altro discorso, e mi chiedo perché l’ho deciso, se invece penso che sia un fatto ineluttabile non mi chiederò assolutamente niente, ma sarà così per sempre. Le parole fanno questo costringono, costringono a dirne altre, questo fanno le parole, è una costrizione da cui non si può uscire, ma di questo parliamo giovedì prossimo, a proposito di Austin J.L. Austin... un altro pilastro...

Intervento: io mi trovo a dire ad una persona ti amo e lei si trova a dire ti amo è difficile considerare che non è lo stesso amore

Questo esempio è interessante perché è come se si trovasse a fare un gioco in cui entrambi accolgono le regole, e allora dicendosi l’uno con l’altra, ti amo, ciascuno sa come utilizzare questo elemento linguistico in quanto accoglie le regole di quel gioco. Certo non può sapere cosa l’altra persona associa, pensa, associa a questa mossa, io dico mossa perché è come una partita a scacchi, entrambi i giocatori accolgono le regole del gioco degli scacchi ma nessuno sa che cosa pensa l’altro, che cosa produce nell’altro una certa mossa, sa che necessariamente se ha fatto questa mossa l’altro ne farà delle altre all’interno, nell’ambito delle regole di quello che è il gioco degli scacchi, ma che cosa sta pensando, cosa ha prodotto in lui questo gesto, questo non lo saprà mai...

Intervento

Si possono chiarire soltanto le regole del gioco che si sta usando...

Intervento: in questo discorso perché no ci si sente come dei piccoli dei

C’è l’eventualità che si ponga se è creduto, come una religione, è soltanto un altro gioco con la sua grammatica, occorre tenere conto che fuori da un gioco linguistico queste proposizioni  sono nulla

Intervento: può intendere che sta giocando il gioco del dio

Certo allora va bene così, allora va bene così come volevano gli gnostici....