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27 ottobre 2021

 

Aristotele Metafisica Θ 1-3 di M. Heidegger

 

La volta corsa stavamo parlando sempre della potenza e dell’atto, di ciò che produce e di ciò che viene prodotto. A pag. 101. Nel produrre, quel che dev’essere prodotto è necessariamente, anche se la produzione non è ancora terminata ed anzi non è ancora cominciata, già scorto in anticipo: in un primo momento, esso è solo, nel senso vero e proprio del termine, pre-sentato, ma non ancora tratto-qui e prodotto come qualcosa di preparato. Avere un’idea, però non ancora in atto. Questo presentare l’ργον (l’opera compiuta) nel suo εδος (nella sua forma) anticipandolo con lo sguardo è il vero e proprio inizio del produrre, che quindi non incomincia solo nel momento dell’avvio del lavoro manuale in senso stretto. La cosa incomincia nella mia idea, prima ancora che prenda in mano il martello, ecc. Questo cogliere-con-lo-sguardo l’aspetto è di per sé il formarsi di un vedere, il formarsi dell’immagine preliminare. In questo modo, però, qualcosa si è fatto notizia: questo formarsi dell’immagine preliminare può accadere solo come delimitazione di quel che ad esso appartiene; è un Auslesen (l’operare una cernita), un raccogliere, selezionandole, le cose che nei loro reciproci riferimenti formano un insieme, un λέγειν. L’εδος è quel che viene messo insieme in una tale cernita, è un λεγόμενον, è λόγος. E l’εδος è τέλος (la forma è il fine, il fine compiuto, la perfezione), il termine che pone termine, τέλειον, la cosa compiuta; il τέλος, in base alla sua essenza, è sempre il risultato di una cernita: λόγος. Parlando qui di cernita, evidentemente si riferisce al fatto inevitabile che qualcosa viene accolto e qualcosa viene scartato. L’εδος dice che cosa dev’essere la cosa produrre. L’immagine dice che cosa deve diventare. Questo εδος, che viene chiamato in causa in un determinato modo e in quanto qualcosa e che esclude di per sé altre cose, stabilisce ora la conduzione dell’intero processo produttivo; è quello che dà la misura, che regola, dicendo a partire da sé, χαϑ aύτό, che cosa è secondo le regole; questa funzione è svolta, però, sempre escludendo altre cose. Quel che viene escluso è tuttavia costantemente compresente e procede parallelamente, χατά συμβεβηχός (casualmente, accidentalmente), nella misura in cui il materiale e le circostanze in cui si svolge di volta in volta il produrre continuano ad offrire l’occasione di errori ed omissioni, di operazioni irregolari. Così, il λόγος, il raccolto e soprattutto il chiamato in causa, è quel che costantemente opera delle esclusioni; questo però significa anche quel che contemporaneamente include quel che è contrario. Questo vuol dire: quel che è contrario sta “lì” e si mostra nel suo peculiare modo proprio per essere evitato; per far sì che evitiamo di incorrere in esso; per essere evitato non in se stesso (non è di quel che dev’essere evitato che si occupa il vasaio), ma in quel che procede parallelamente al processo produttivo, parallelamente ma non casualmente, in quel che necessariamente avviene intorno al processo produttivo. Come dire, per dirla in termini più interessanti per noi, qualunque cosa si ponga ha in sé il suo negativo; come diceva Hegel, il positivo e il negativo sono due momenti dello stesso. Cosa che non va senza implicazioni: una di queste è l’impossibilità di stabilire un fondamento. Affrontiamo l’intimo rapporto che lega δύναμις e λόγος (potenza e dire) a proposito della δύναμις μετά λόγου (potenza secondo il movimento). La caratteristica di quest’ultima è di procedere nei confronti di έναντία (il contrario, l’opposto). La caratteristica della potenza secondo il movimento, quindi, è il contrapposto: è perché c’è il contrapposto, l’έναντία, che c’è il movimento. Che cosa significa questo fatto e in che misura caratterizza la δύναμις μετά λόγου, ossia la έπιτήμη ποιητιχέ (capacità di fare, esser capaci di)? La έπιτήμη ποιητιχέ è il sapere come si produce qualcosa, l’intendersi di qualcosa nella sua producibilità, meglio ancora, nel suo esser-prodotto, in quanto ργον. Decisivi in questo rapporto con l’opera sono εδος (forma), τέλος (fine), πέρας (limite): il formarsi dell’immagine preliminare in quanto discesa entro limiti. Qui si trova il primo segno della λη; ma la stessa λη è, mentre si interviene su di essa, qualcosa che costantemente ancora non è, qualcosa che continua a sfuggire, è l’άπειρον. Qui è Heidegger che parla, però, riprende Aristotele, il quale sembra ripercorrere la via di Anassimandro, l’άπειρον, l’indefinito, l’indelimitato, da cui tutto sorge; ma, facendo questa connessione tra la materia, la λη – ricordate, materia e forma, il sinolo; materia e forma non sono altro che potenza e atto – e l’άπειρον sta dicendo che questo essere in potenza di qualche cosa è l’indeterminato, l’indefinito, l’infinito. Questa è una cosa interessante dal momento che la materia, che dovrebbe essere ciò su cui si poggia saldamente il piede, di fatto Aristotele la definisce come άπειρον, che però deve esserci: qualcosa prende forma da ciò che non ha forma e ciò che non ha forma è per definizione άπειρον, indelimitato, indeterminato. Quindi, occorre l’indeterminato perché qualcosa si determini o, se vi piace di più, occorre un significante perché ci sia un significato: il significante è indeterminato finché non c’è un significato, non significa niente senza un significato; quando, invece, c’è un significato, allora sì, significa, prende forma, diventa quella cosa che è, εδος, cioè, trova il suo fine, il suo τέλος, il suo compimento. Il modo in cui si procede, allora, è quello dell’escludere, abbandonare, evitare, ci si riferisce cioè a έναντία (opposto). Io evito ciò che è opposto a ciò che devo fare. Qui è curioso il fatto che, dopo aver detto certe cose intorno all’άπειρον, quindi al linguaggio, dica delle cose che evocano le parole di de Saussure: nel linguaggio non vi sono se non differenze. Ma tutto questo sembra procedere senza il λόγος, mentre secondo Aristotele è vero il contrario; ma se le cose stanno così, è a questo punto che ci si trova di fronte al rapporto tra εδος e λόγος (la forma che prende il discorso). Ora, però, il pre-sentare dell’εδος è un Auslesen e quindi un dar notizia (λόγος). Il presentarsi dell’εδος, della forma che viene incontro - anche mentalmente, per dirla così – è, dice Heidegger, un dare notizia, che è uno degli infiniti modi con cui traduce λόγος. Il τέλος proviene dalla cernita e, chiamato in causa in questo modo, esige il comando nel processo produttivo; è quello che dà le regole, e le dà operando esclusioni. Se ho il fine di costruire una statua, una cosa che scarto, che escludo, p.es., è quella di costruire una macchina da scrivere. Ma tutto questo insieme di cose non si presenta in Aristotele in modo più semplice, giacché dell’έπιτήμη, della conoscenza quindi, fa pur sempre parte il giudizio, ossia appunto giudizio positivo e giudizio negativo? Dice: non era più semplice porla in questo modo, e cioè che nel τέλος c’è un giudizio positivo e un giudizio negativo? Perché, però, nel λόγος si dà questa contrapposizione di positivo e negativo? Perché la sua essenza è il dar notizia e questo dar notizia consiste necessariamente nel dar qualcosa in quanto qualcosa. Perché? Perché ogni dare risponde ad un non avere che prende; questo prendere in quanto prendere che prende quel che non ha è solo in parte un prender-possesso, giacché la cosa da possedere continua a restare altro; “in parte” significa qui: ogni volta sotto un certo rispetto, sotto questo o sotto quello, ogni volta in quanto questa cosa o quella. Con questo “in quanto” ogni volta si decide qualcosa, che in questo modo si stacca dal resto. Perché, dunque, l’in quanto fa parte del λόγος? Perché il dar-notizia fa parte dell’informazione e l’informazione originariamente risponde ad un informarsi. Informarsi significa però necessariamente imboccare un cammino, ossia ogni volta scegliere una strada rinunciando ad un’altra, assumere un determinato punto di vista rinunciando ad uno diverso. Fa parte dell’informazione questo intimo limite: che la scelta di un determinato cammino determini la contemporanea nascita di una sfera in cui resta tutto ciò di cui non ci si è informati. Cioè, si scarta tutto ciò che non appartiene. A pag. 108. Il raccogliersi del processo produttivo nella sua completezza scaturisce dal λόγος inteso come l’adunarsi. Entro questa prospettiva dev’essere compreso anche il μετά (λόγου). Da tutto questo emerge come il λόγος non possa essere inteso a partire dalla “logica”: bisogna invece procedere nella direzione opposta. Si arriva così a parlare della δύναμις μετά λόγου come χίνεσις (movimento). In che modo essa si riferisce alla χίνεσις? In che modo questa δύναμις secondo il movimento si riferisce al movimento? Il movimento è qui il movimento del vivente, il movimento della ψυχή; l’anima possiede l’άρχή del movimento, άρχήν χίνεσεως χει (avere l’origne del movimento). L’anima come ciò che è l’origine del movimento, è il da dove vengono le cose; ovviamente, anima nell’accezione greca del termine. Il movimento dell’anima consiste nello sforzo, ρεζις (sforzo), ed è sia fuga sia inseguimento. La cosa in vista della quale ci si sforza, l’ρεχτόν, non è un semplice oggetto del quale si ha una rappresentazione, ma è quel che mette in movimento, e lo fa in quanto λεγόμενον εδος (immagine che si forma nel discorso). (Questa stessa connessione fondamentale di χίνεσις (movimento) e ρεχτόν (oggetto da raggiungere) è esposta nell’ultimo libro, quello conclusivo, della Fisica /…/ L’άρχή, il punto di partenza da cui tutto ciò che vive viene messo in movimento … questa è l’accezione che intende Heidegger del termine άρχή di Aristotele: ciò da cui qualcosa incomincia, il punto da cui si incomincia …viene dunque a far parte dell’anima, che la trattiene dentro di sé, nei suoi vari rapporti, come punto di riferimento indicato dai fenomeni dell’εδος, del τέλος, dell’ρεχτόν e del λόγος. Questi fenomeni determinano un’unica e identica άρχή, nella quale è ripreso l’intero accadere e l’intima costituzione della δύναμις. Il movimento è messo in moto da tutte queste cose, che lui ha appena descritto, e cioè l’εδος, il τέλος, l’ρεχτόν e il λόγος, l’immagine, il fine, l’oggetto da raggiungere è la parola, naturalmente, perché tutto si svolge nella parola. Ogni produzione di qualcosa, in qualunque senso, ogni δύναμις μετά λόγου si prepara essa stessa, e lo fa necessariamente, con il suo proprio procedere l’occasione, che costantemente l’accompagna, dell’errore, dell’omissione, della valutazione sbagliata o carente; in questo modo ogni forza porta in se stessa e per se stessa la possibilità di decadere fino a diventare non-forza. Questo negativo non si pone semplicemente come il contrario del positivo della forza, ma è in agguato all’interno della forza stessa, ed è in agguato perché ogni forza che sia tale, in base alla sua essenza, è dotata di un “non”. Per Aristotele e l’antichità, seguire il succedersi di queste domande, non costituiva tuttavia qualcosa di essenzialmente sconvolgente, nella misura in cui per i Greci la domanda sull’essere non doveva, dopo tutto, che predisporre a una comprensione di ciò su cui si interrogava. Perché ti interroghi sull’essere? Perché l’essere mi serve per capire tutto il resto. Qui cita Aristotele. “Ecco perché, quel che è forte secondo la misura di un discorso (quel che dà capacità) compie, rispetto a quel che è forte senza discorso, le cose opposte; giacché (quel che dà capacità) è abbracciato da un (unico) punto di partenza, e quest’unico punto è l’informazione. Aristotele aveva distinto tra cose che sono senza vita e cose che sono vive. Dice che l’unico punto di partenza, quello vero, è l’informazione, cioè il λόγος, le cose che sono vive, che riguardano il parlante, potremmo dire. A pag. 110. Il pensiero è chiaro: la forza di produrre nel modo corretto presuppone che vi sia comunque una forza di produrre; non però inversamente quest’ultima porta con sé quella. Si chiarisce, allora, in che senso qui Aristotele intenda l’espressione άχολουθεν (conseguenza). L’aver-capacità-di-qualcosa è “conseguenza” della capacità-di-fare-in-modo-corretto; noi diremmo il contrario. Ma qui άχολουθεν significa “esser conseguenza” nel senso di “venire costantemente come risultato”, “venire come qualcosa che si accompagna a…”; dal punto di vista di ciò cui qualcosa sempre si accompagna, questo significa che esso porta con sé e presso di sé appunto quel che è sua conseguenza. Questo ha un senso ben determinato, significa cioè che quel che sempre si accompagna è la condizione di possibilità per ciò cui esso si accompagna, per ciò di cui esso è conseguenza. È importante che questo punto sia chiaro. In questo modo greco noi esprimiamo in maniera erudita parlando di condizioni a priori. Esser conseguenza significa qui “anticipare” e non “arrivare dopo”. Come dire che ciò che viene dopo è la condizione di ciò che viene prima. Dice che Esser conseguenza significa qui “anticipare” e non “arrivare dopo”, nella logica se dico “se A allora B” B, venendo dopo, è considerata la conseguenza di A. No, ci sta dicendo Heidegger, è esattamente il contrario. A pag. 111. Perché il “nel modo corretto” appartiene ad una forza? E questa domanda chiede anche: perché alla stessa forza appartiene anche il “nel modo scorretto”, l’”in modo indifferente”? Perché appartiene necessariamente ad una forza il “sempre in questo modo o in quello”, più generalmente il come? La risposta è che la forza in quanto δύναμις è per sua natura volta verso due direzioni e divisa in due. E poiché ora la forza guidata dal discorso è in un senso originario corretta, è cioè mescolata con il negativo, per questo motivo il come è per essa non solo essenzialmente necessario, ma tale da riguardare sempre la decisione stessa. Per una tale forza, ossia per la capacità, il come copre la stessa area di dominio sulla quale essa ha capacità di agire; il come non è una qualità che si accompagna alla capacità, ma è qualcosa che coincide con quel che nella capacità stessa e con la capacità stessa viene deciso. La forza, dice, è divisa in due: la forza e la non-forza. Questo momento di incominciamento ha con sé sempre e necessariamente il proprio negativo. Questo negativo non è però qualcosa che si aggiunge, ma è qualcosa che rende positivo il positivo. Passiamo alla Terza sezione e andiamo a pag. 114. In questo capitolo Aristotele vuole sbarazzarsi di quelli che negano il movimento, che invece a lui serve per mantenere δύναμις e ένέργεια, come il movimento appunto, che non è altro che l’entelechia. Si trova ad avere a che fare con delle obiezioni, in particolare in questo caso con i Megarici, i quali, sulla scorta degli eleati, negavano il movimento. Se negano la possibilità del movimento allora non c’è più la possibilità dell’andare da un punto a un altro; ma il punto di arrivo non è qualcosa che deve essere raggiunto idealmente – non è il τέλος, il fine – ma è ciò che è già necessariamente qui, e quindi si perde la possibilità di stabilire un bene che sia da raggiungere: questo bene sarebbe già qui adesso. Ora, il lavoro che fa Aristotele nella Metafisica è bizzarro. Cercando di mantenere la sua posizione teorica, anche contro i vari personaggi contro i quali si scaglia di volta in volta, si ritrova per le mani dei concetti proprio di quei personaggi che lui vorrebbe o aggirare o confutare o completare a seconda dei casi. Abbiamo visto come si ritrovi, per esempio rispetto alla nozione di άπειρον, nella posizione di Anassimandro. Ovviamente, non è la stessa perché per Anassimandro l’άπειρον è ciò da cui comincia tutto, è la causa di tutto, per Aristotele no, c’è l’άπειρον, la materia, ma c’è anche l’ένέργεια, c’è questo movimento che in Anassimandro non c’è; però, il punto di avvio è lo stesso. Facendo queste considerazioni si trova a intendere molte cose intorno al funzionamento del linguaggio, potremmo dire, nel momento in cui coglie la necessità che ciò da cui si parte sia simultaneamente anche il suo negativo, e cioè che non ci sia un positivo senza un negativo. Il che vale a dire che qualunque cosa dica ha un suo negativo che gli si oppone: senza questa opposizione non ci sarebbe neanche il primo. De Saussure l’aveva intesa in questo modo: il significante non è altro che il rapporto differenziale tra tutti gli altri significanti, è ciò che emerge dal non essere tutti gli altri, e così anche per il significato, naturalmente. Questo è già presente qui in Aristotele, non in termini così espliciti, però c’è già: ciascun elemento è anche il suo contrario. Qui Heidegger cita Aristotele: “Alcuni, però, come per esempio i Megarici, dicono che solo quando una forza è all’opera, l’esser-forte per qualcosa è accessibile, quando essa invece non è all’opera, allora neanche l’esser-forte è presente, per esempio, l’architetto che non costruisce non sarebbe forte (abile) per il costruire, mentre lo sarebbe solo l’architetto che sta costruendo; allo stesso modo starebbero le cose per quanto riguarda le altre forze. Che quel che è sostenuto qui dicendo queste cose non abbia nulla di accettabile non è difficile da vedere.” La ricerca prosegue con l’introduzione da parte di Aristotele di una tesi dei Megarici. Chi sono i Megarici? Uno dei luoghi dal quale dobbiamo trarre la risposta è, per esempio, questo stesso passo di Aristotele. Dei Megarici, infatti, non ci è stato tramandato alcuno scritto. Negli Stoici, in Sesto Empirico, in Alessandro di Afrodisia, in Simplicio a volte è menzionata frammentariamente qualche loro dottrina e qualche loro proposizione. È una corrente filosofica e una scuola che, come Platone, prende le mosse da Socrate; il fondatore è Euclide di Megara (che non è il matematico). Il loro tentativo è stato quello di collegare il filosofare socratico con la dottrina degli Eleati (Parmenide e Zenone). All’interno del confronto critico con gli Eleati ha trovato posto anche il filosofare di Platone, così come quello di Aristotele, dei quali i Megarici erano contemporanei. Una delle domande centrali, se non addirittura la domanda centrale di tutte e tre le correnti era la domanda sull’essenza e sulla possibilità del movimento, ossia, in un certo senso, la domanda sull’essere del non-ente, ossia, a sua volta ancora, la domanda sul non e sull’essere in generale. Il fatto che i Megarici abbiano affrontato queste domande e il fatto che Aristotele si riferisca a loro in un punto cos’ eminente, così come fa anche Platone nel suo Sofista, dimostrano che non ci si trovi di fronte a degli illusionisti della parola che servendosi di trucchi e di vuoti sofismi cercassero di farsi una reputazione. Questa è l’immagine corrente che di loro per lo più si evince dalle notizie relative all’ultimo periodo della loro scuola, dimenticando però che gli ultimi membri delle scuole di Platone e di Aristotele in genere non erano meno propensi all’inganno di quanto non lo fossero i Megarici. Queste sono cose circa la storia dei Megarici. Ma a noi invece interessano le questioni teoretiche. A pag. 117. Di che cosa si tratta in tutto ciò? Si tratta sempre della stessa questione, della δύναμις χατά χίνεσις, come esempio viene portata un’έπιστήμη ποιητιχή, ossia l’οίχοδοομιχή, l’arte del costruire. Si tratta, dunque, secondo l’uso terminologico da noi precedentemente stabilito, di una capacità. Più esattamente si tratta di chiedersi se e quando e come un tale capacità possa essere realmente accessibile, ed esserlo in quanto quella capacità che è. La tesi dei Megarici suona: “Solo quando una forza è all’opera l’esser-forte per qualcosa è accessibile”. Badate bene che non dice che è o non è accessibile, è diverso. Il punto decisivo, quello che guida tutta la comprensione e l’interpretazione del capitolo, è la traduzione dell’ένεργή. Ενεργεν significa “essere all’opera” e non semplicemente “esser reale”. Quando una capacità di qualcosa è all’opera, quando cioè è in corso la produzione di ciò di cui la capacità è capace, allora diciamo in breve che si realizza quel che prima era solo qualcosa di possibile. Si tratta, dunque, della realtà del possibile, si tratta dell’ένέργεια, della quale infatti in questo terzo capitolo si parla ripetutamente. Qui il problema per Aristotele è che i Megarici negavano l’esistenza addirittura della δύναμις, della potenza, della materia, e quindi andavano scombinando la sua entelechia: se gli si leva la δύναμις, la potenza, come qualcosa di reale, allora si rimane grosso modo nella posizione di Platone e si toglie la possibilità del movimento, si toglie, secondo Aristotele, la possibilità di intendere da dove viene il movimento, che cosa lo produce. In effetti, la Forma di Platone è qualcosa che non si sa da dove arrivi, c’è ma non è un risultato, mentre per Aristotele è il risultato di qualche cosa che prima era in potenza e che ha raggiunto il suo τέλος, il suo fine. A pag. 121. La realtà della δύναμις viene vista nel suo esercizio (per i Megarici); qui sta la “realizzazione” della capacità, che altrimenti resta soltanto “potenziale”, nella “possibilità”; ma il possibile non è ancora il reale. Ma una capacità che non è in esercizio è una capacità solo potenziale? O è già essa stessa reale, anche se non in esercizio? Questo è il punto che interessava ad Aristotele: è reale anche se non è in esercizio? In questo modo, la domanda sulla realtà della capacità è stata meglio precisata. Ora, però, d’altra parte, è divenuta incomprensibile la tesi dei Megarici, posto che essi neghino il movimento. (E se però l’esercizio di una capacità fosse qualcos’altro?) Cerchiamo ora di cogliere innanzi tutto come si presenta ad Aristotele la tesi dei Megarici. Una cosa sappiamo già: Aristotele non discute la tesi stessa, ma si chiede quali siano le conseguenze. È una cosa che fa spesso: le sue tesi, le sue dimostrazioni sono portate avanti elencticamente, cioè, attraverso l’elenchos, attraverso la confutazione. Un’operazione retorica, tutto sommato. Adesso è Aristotele che parla. “Giacché è chiaro che (a partire dalla premessa della tesi dei Megarici non potrebbe esserci nemmeno l’architetto qualora egli non stesse costruendo. Esser architetto infatti significa esser nella capacità di costruire; la stessa cosa vale anche per tutti gli altri modi del produrre.” /…/ Le due concezione stanno l’una di fronte all’altra (Quella dei Megarici e quella di Aristotele): Aristotele considera decisa, in base alla determinazione d’essenza della δύναμις, la domanda sull’esser-accessibile della δύναμις stessa… Aristotele è sicuro che sia così. … i Megarici, servendosi dell’unico modo in cui una δύναμις può essere accessibile, ne negano in fondo l’essenza. Per i Megarici non c’è; se c’è è in potenza, ma se è in potenza non è più in atto, quindi, non c’è potenza. Cosa che ha delle conseguenze, che Aristotele farà subito rilevare.

La differenza tra Aristotele e i Megarici consiste nel fatto che la conferma e la prova di quel che viene compreso come realizzazione e realtà di qualcosa, qui della δύναμις, sono trovate in cose diverse (nell’avere in un caso, nell’esercizio nell’altro). Vedete che cosa è in gioco qui per Aristotele: è in gioco l’avere la possibilità di raggiungere il bene, invece i Megarici questo lo negano: il bene non ha questa possibilità, perché la possibilità non c’è; se c’è possibilità, possiamo averne accesso solo quando è in atto; ma se è in atto non c’è più la possibilità, quindi, non c’è possibilità, c’è solo atto. O, invece, in ciascuno dei due casi viene compreso come realtà, ossia come esser-accessibile di qualcosa, qualcosa di diverso? È questo il punto decisivo, il punto che domina l’intero confronto, senza essere mai stato direttamente ed espressamente messo in discussione, né da Aristotele né dai Megarici. Ed è questa la situazione che incontriamo nell’antichità e poi nell’intera filosofia, una situazione che ricompare anche a proposito della concezione e dell’elaborazione della domanda fondamentale, quella sull’ente. Infatti, la doppia domanda emersa nel nostro caso (“che cosa si intende con realtà, con essere-accessibile?” e “qual è il criterio e la prova della realtà in riferimento ad una δύναμις?”) appartiene alla domanda fondamentale sull’ente e tiene il filosofare con il fiato sospeso. Il movimento sarebbe quella cosa che consente di sapere da dove viene l’ente, cioè, trovare i fondamenti, i principi dell’ente; se io nego questo, allora l’ente è e basta o, come diceva Platone, gli enti sono soltanto raffigurazioni delle idee, che però non hanno un principio loro, non hanno una loro dignità, ce l’hanno per via della forma che le trascende. A pag. 125. Aristotele e i Megarici sono assolutamente concordi su che cosa significhi realtà, esser-accessibile di qualcosa; significa: presenza di qualcosa. Questa spiegazione può apparire come una spiegazione molto astratta, vuota e scarna. Eppure non lo è. A ragion veduta, nell’interpretazione del capitolo precedente, ci siamo soffermati a lungo sull’intero processo del produrre e sul rapporto con l’opera ad esso collegato, con l’intenzione cioè di preparare quel che viene ora. A proposito dell’”opera”, dell’ργον, abbiamo fatto delle distinzioni: εδος, τέλος, πέρας, λόγος (forma, fine, limite, discorso). Quel che fa sì che l’opera sia opera è determinato dall’aspetto. Quando so che un’opera è compiuta? Quando la vedo e dico “sì, è compiuta”. E difatti l’aspetto, come qualcosa di in sé terminato e compiuto, dev’essere messo in cammino, pro-dotto in una singola opera che gli corrisponda. Pro-durre significa: far sì che qualcosa sia presente perché se ne disponga (quindi, non significa solo: fare). Lo dicevamo anche la volta scorsa: il τέλος, il fine è che qualcosa sia un utensile, un utilizzabile, possa cioè servire al mio superpotenziamento. Sappiamo bene che questo è il τέλος autentico. E questo ci dice anche che la perfezione di qualche cosa consiste nell’essere questa cosa utilizzabile dalla volontà di potenza. Nell’esser-prodotto compaiono, in primo luogo, l’esser-fatto e, unitamente a quello, l’esser d’ora in poi a disposizione. Questo esser-prodotto è la realtà dell’opera; di quel che dà notizia di sé in questo modo, si dice che “è”. Per Heidegger il dar notizia è sempre il λόγος. Allora, quando diciamo che presenza è esser-prodotto, in questa proposizione dev’essere pensato tutto quel che abbiamo detto finora perché al concetto fondamentale greco dell’essere, dell’ούσία, sia concesso interamente il suo significato di παρουσία, presenza (e come concetto opposto άπουσία, assenza). Per il greco ούσία e παρουσία sono sinonimi, cioè, la sostanza e l’essere visibile, ciò che si presenta, sono la stessa cosa. A pag. 127. Alla fine, la differenza nel cogliere la presenza è dovuta al carattere dell’ente che qui ha da essere presente. Questo ente è un ente che si contrappone assolutamente all’ργον e al suo esser-prodotto, è cioè la δύναμιςQuesto ente è ciò da cui le cose vengono. È all’opposto di Platone, che lo scarta, per così dire. Qui l’ente è la condizione di ogni cosa, anche se sappiamo che questo ente, che sarebbe la λη, la materia, è per definizione l’άπειρον, l’indeterminato, però è ciò da cui le cose vengono, incominciano, anche se questo lo posso sapere soltanto dopo. …è evidente, allora, che non si deve intendere senz’altro l’esser-accessibile della δύναμις come presenza dell’ργον, ossia del produrre. Aristotele vede la presenza della δύναμις intesa come tale nell’χειν (nell’avere); quel che si ha è in possesso ed essendo in possesso è disponibile, accessibile. Solo che questa presenza della δύναμις intesa nel senso di qualcosa che si ha non è la δύναμις in esercizio. Dice Aristotele: ho la capacità, la potenza, e c’è anche se non è in atto. Era questo che gli interessava concludere: mantenere l’esistenza della δύναμις e dell’ένέργεια, come due momenti inseparabili ma distinti, e necessari entrambi: senza δύναμις non c’è ένέργεια, e viceversa. A pag. 132. Ma ritorniamo ora alla tesi dei Megarici per considerarne il punto di partenza, in qualche modo giustificato, e il fondamento; solo in questo modo, infatti, essa è degna di essere discussa e tale da esigere una nuova formulazione. L’aspetto peculiare di questa tesi dei Megarici – qualcosa che ormai dovrebbe esser chiaro da molto tempo – consiste non semplicemente nel fatto che la realtà della capacità sia posta esclusivamente nell’esercizio, bensì nel fatto che l’esercizio stesso della realtà sia colto unilateralmente, anziché essere colto nella sua piena essenza. Questo è il punto cruciale, e cioè posto unilateralmente anziché essere posto come entelechia, come movimento dialettico. A pag. 133. Citazione da Aristotele. “Per quanto riguarda l’ente senza anima, poi, le cose stanno esattamente nello stesso modo, né il caldo, infatti, né il freddo, né il dolce né alcun’altra percezione sarà mai qualcosa, se il percepire non viene eseguito; così è inevitabile che costoro (i Megarici) seguano la dottrina di Protagora…”. Vedete qui la finezza di Aristotele che dice che né il caldo, né il freddo, ecc., nessuna di queste percezioni sarà mai possibile se il percepire non viene eseguito; cioè, lui insinua il suo percepire come qualcosa che è altro dal perceptum, dal percepito. A pag. 135. Con la percezione non produciamo delle cose, non produciamo cose di un certo colore (il colore delle cose lo diamo quando usiamo le vernici), o che abbiano un certo suono (questo lo facciamo quando tendiamo o tocchiamo le corde). L’ργον dell’αίσθηεσις (il fine, nel senso di completezza, della percezione) altrettanto quanto quello della νόησις, è l’άλήθειαQui il fine della percezione, l’opera compiuta, non è altro che la verità. Άλήθεια nella concezione greca, naturalmente, non in quella di veritas latina. …la scopribilità dell’ente e, in particolare, la percezione delle cose, il fatto cioè che esse si mostrino a noi nei loro colori, con i loro suoni. Cioè, il fatto che le cose si mostrino a noi così come sono: questa è l’άλήθεια, escono dal buio, vengono in luce, appaiono e le vedo per come sono. Con il nuovo argomento, introdotto in modo così strano ed apparentemente osì ambiguo dal χαι τά ψυχα (secondo le cose non viventi), veniamo di fatto sospinti in quel nesso problematico che sta al centro della dottrina di Protagora. Aristotele ritorna spesso su questa dottrina; nel modo più esteso e penetrante nella confutazione che in Metafisica Γ 5. Ma anche Platone ha chiarito e consolidato una parte cospicua delle sue concezioni nel corso del confronto con Protagora e grazie ad esso. Così, la prima parte principale del dialogo Teeteto, il cui tema è έπιστήμε τί έστιν, “che cos’è conoscenza?”, è interamente dedicata al confronto con Protagora. Di tale confronto ci serviamo come della fonte essenziale. /…/ Bisogna però sottolineare immediatamente e con insistenza che non è facile distinguere, in particolare anche nel caso delle discussioni di Platone, quel che è opinione di Protagora da quel che è dedotto e aggiunto da Platone. Non è quindi senz’altro chiaro che cosa Protagora abbia inteso dire con la sua άλήθεια; in ogni caso, bisogna guardarsi dall’interpretare questa dottrina in maniera rozza, nella cosiddetta maniera sensualistica e di ridurla scolasticamente a qualcosa che farebbe parte di una cosiddetta teoria della conoscenza, dalla quale poi chiunque abbia un minimo di intelligenza riuscirebbe a mostrare in modo convincente che il punto di arrivo è il cosiddetto scetticismo. A pag. 137. Nel senso della dottrina di Protagora esiste soltanto quel che viene percepito… L’uomo è misura di tutte le cose. …e quel che viene percepito è ogni volta solo così come viene percepito. Noi, dunque, non conosciamo mai l’ente così come esso è per sé, ossia non percepito, come qualcosa che non è incluso in un esser-percepito. Persone diverse possono non trovare mai l’accordo circa uno stesso ente, giacché ognuno lo vede a modo suo. Qualcosa che a uno sembra caldo, ad un altro sembra freddo, e per la stessa persona, in relazione ai diversi stati fisiologici in cui può trovarsi, qualcosa sembra ora acre, ora dolce. Dopo avere tratto queste conseguenze dalla dottrina di Protagora, bisogna ancora andare oltre. Non solo persone diverse possono non trovare l’accordo su una stessa cosa, ma a rigore può anche accadere che su quella stessa cosa non trovino nemmeno il non accordo; in questo caso non sussiste neanche la possibilità del disaccordo. Un disaccordo, infatti, presuppone ovviamente qualcosa di identico, qualcosa di percepito che da molti sia inteso come un’unica e medesima cosa; qualcosa di identico che qualcuno affermi e qualcuno neghi. E il presupposto ancora anteriore, qui, è che qualcosa sia stato percepito. Se ci mettiamo a discutere su che cosa percepiamo vuol dire che qualcosa è percepito. Ma che cosa viene richiesto in questo modo? Niente di meno di un ente che di per sé e a partire da sé, prima di un qualunque atto percettivo, abbia la forza, sia cioè δινατόν (capace di…), di venir percepito. Questo ente percepibile, tale cioè da poter essere percepito, deve “essere” ed essere realmente ente che può venir percepito, se in generale deve poter accadere un percepire e un render scopribile. Questa è una finezza interessante di Aristotele: potete dire tutto quello che volete sulla percezione, ma se stiamo discutendo sulla percezione vuol dire che qualche cosa si percepisce e questo qualcosa, se percepito, è quello che è: se viene percepito allora è. La percezione dice di un qualcosa che è quello che è; poi, non importa come lo vedo io. È la tesi realistica, se vogliamo dirla in termini moderni. Se ora però vale la tesi dei Megarici, allora la realtà di un tale ente, dell’ente percepibile in quanto tale, viene sepolta. Perché mai? Se la realtà di un ente dotato di capacità e di forza per qualcosa risiede nell’esercizio, allora un ente percepibile “è”, in quanto tale, reale solo se e solo finché appunto viene percepito, in quella che noi chiamiamo la percezione “attuale”. Dunque, conclude Aristotele, se nessuna percezione è in esercizio, allora neanche le cose colorate e i colori, le cose sonore e i suoni sono accessibili. /…/ Ancora di più: per seguire la loro tesi i Megarici devono non solo pervenire a questa concezione delle cose realmente date in modo diretto, ma anche negare qualunque possibilità di un ente in se stesso e per se stesso accessibile, giacché tale ente può essere confermato solo se è possibile far vedere che l’esser-accessibile di quel che è accessibile come alcunché di percepibile non dipende solo dall’esercizio di una percezione. Si vede dunque come la tesi dei Megarici abbia conseguenze ancora più ampie ed intacchi addirittura le condizioni essenziali della possibilità del percepibile. Essa non si richiama soltanto alla disparità di opinioni che effettivamente esiste tra coloro che hanno percezioni. Tanto più, allora, e con ragioni tanto più sicure, i Megarici devono pervenire alla dottrina di Protagora. Il punto in base al quale, quindi, Aristotele costringe i Megarici entro le conseguenze della loro tesi è, come suggerisce l’evocazione del nome di Protagora, la dissoluzione tanto della possibilità della verità quanto della realtà autonoma delle cose accessibili… Cose accessibili, cioè, separate. Ma separate da che? Separate dal linguaggio. Quando si parla di enti separati è a questo che ci si riferisce, all’idea che qualche ente sia un ente separato dal linguaggio, che esista per se stesso senza essere in relazione con altro; mentre sappiamo che il linguaggio è relazione e, quindi, se non è in relazione è fuori dal linguaggio, con tutto ciò che questo comporta. …questo secondo momento viene giustificato con il fatto che l’argomento ora discusso riguardi gli ψυχα (i non viventi). La realtà delle cose accessibili in quanto cose autonome è salva per la comprensione solo se è possibile mostrare che la realtà delle cose percepibili intese come tali non risiede nell’esercizio della percezione. In questo modo è posto un compito che Aristotele non risolve positivamente; si limita invece a indicarne l’impraticabilità. Se devo dimostrare che le cose esistono anche senza di me, diventa arduo. Ma l’intera storia della filosofia venuta dopo di allora è una testimonianza di quanto poco la soluzione di questo compito sia riuscita. Il motivo di questo fallimento sta non tanto nel fatto che non si sia trovato il cammino per la risposta, quanto piuttosto nel fatto che si sia continuato, fino ai giorni nostri, a considerare la domanda stessa troppo alla leggera. Qui dobbiamo rinunciare a sviluppare questa domanda in tutti i suoi aspetti. A pag. 139. Aristotele non è in grado, come non lo è stato nessuno prima di lui e come non lo sarà nessuno dopo di lui, di cogliere l’essenza propria e l’essere di quel che costituisce appunto questo tra… Sta parlando del tra che c’è tra il percepito e il percipiente, tra me che percepisco e ciò che ho percepito. Che cosa consente questo passaggio? …il tra che cade tra αίσθητόν come tale e l’αίσθηεσις come tale, di cogliere quel che di per sé compie il miracolo grazie al quale, benché ci si riferisca all’ente nella sua autonomia, questa autonomia non scompare a causa di tale rapporto, ma anzi a chi lo stabilisca è data la possibilità di assicurarsi secondo verità proprio di quell’autonomia. Posso anche parlare dell’autonomia dell’ente, ma ne sto parlando, sono io che sto parlando, che sto decidendo per questo ente autonomo. Perché questo avvenga, però, dobbiamo avere la possibilità di comprendere qualcosa come realmente accessibile, anche se e proprio se la cosa accessibile è accessibile come qualcosa che può essere in un certo modo, come qualcosa che può venir percepito. (È questa la possibile appartenenza dell’ente al mondo; solo in questa appartenenza l’ente “diviene”, producendosi come qualcosa che anche prima di essere percepito non era un nulla). L’indipendenza delle cose accessibili da noi uomini non viene lesa dal fatto che proprio questa indipendenza sia possibile come tale solo se esistono gli uomini. L’essere-in-sé delle cose non diventa solo inspiegabile, ma anche completamente senza senso se l’uomo non esiste; il che non significa che le cose stesse dipendano dall’uomo. Non dipendono dall’uomo; potremmo dire: dipendono dalla parola.