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27 settembre 2023

 

Aristotele De interpretatione

 

Tutto ciò che stiamo facendo ci ha condotti alla comprensione del tutto. Non a una teoria del tutto, cioè a un discorso che racconta come starebbero le cose, ma alla comprensione delle condizioni perché il tutto possa darsi. Che cos’è il tutto? Il tutto non è altro che la simultaneità dell’uno e dei molti. È un altro modo di formulare ciò che abbiamo detto spesso, e cioè che non c’è uscita dal linguaggio. Il tutto, πάντον, ponendosi come simultaneità tra l’uno e i molti, ci dice che qualunque problema si incontri presso gli umani è il problema dell’uno e dei molti. Che sia quale cravatta indossare la mattina, se quella a righe o quella a pallini, o che sia l’eventualità di scatenare una guerra nucleare, entrambe le cose costituiscono un problema che è determinato dall’uno e dai molti. La scelta di fare una cosa oppure un’altra ha la stessa struttura: questo è bene, questo è male, ciò che scarto è il male, che contraddice il bene. Ecco che si affaccia la questione della logica. L’uno e i molti non ha mai cessato di apparire nel pensiero: il numero e la sequenza numerica, significante e significato, nella retorica la metafora e la metonimia, nella linguistica la condensazione e lo spostamento, tutte queste dicotomie, che rimangono dualistiche all’interno di queste discipline, in effetti, non sono altro che questa continua riformulazione del problema iniziale dell’uno e dei molti. Sto dicendo che non c’è un altro problema, perché l‘uno e i molti è il problema – problema nell’accezione heideggeriana del termine – del linguaggio. Uno e molti: il dire e ciò che il dire dice, il λέγειν τί, a cui segue il κατά τίνός, verso qualche cos’altro: dicendo dico qualcosa, l’uno e i molti. Non si è mai usciti da lì perché non c’è uscita da questo, è il funzionamento del linguaggio, non c’è un altro modo, né di pensare né di fare né di muoversi, non esiste. Che cosa ha a che fare il problema dell’uno e dei molti con la logica, di cui incominciamo a occuparci? Ha a che fare parecchio, perché, in effetti, la logica, così come ce la sta presentando Aristotele nell’Organon, che vuol dire strumento, strumento di pensiero… Come si pensa? Attraverso uno strumento, e Aristotele incomincia a dirci come funziona: funziona come giunzione e disgiunzione, in greco σύνθεσις e διαίρεσις, unisco e separo, sommo e sottraggo. Parlare è un calcolo, non a caso si parla di calcolo proposizionale, dove si parla di somme e sottrazioni. La somma, rappresentata nella logica dalla congiunzione e dall’implicazione; la sottrazione è rappresentata dalla negazione e dall’opposizione. Nego, quindi, sottraggo: A non è C, quindi, sottraggo la C, la levo via. Congiungere e separare. Congiungere, in effetti, porta all’unità, al πάντον, al tutto. Da qui anche il lapsus di Diels, che traduce ἒν πάντα εἰναι come se πάντα fosse πάντον, il tutto. Il tutto è l’unità, è l’uno, e ciò che sottraggo sono i molti, i cattivi di Platone, cioè ciò che impedisce all’uno di essere uno. La logica fa questo: unisce e disgiunge. Ma in base a che cosa unisce e disgiunge? In base a regole prestabilite. Una regola prestabilita è una regola arbitraria, e Aristotele ce ne ha parlato parlando del genere e della specie, dell’universale e del particolare. La regola da seguire è che se qualcosa è un particolare, una specie, allora questa specie apparterrà a qualcosa di più universale, in questo caso al genere. Io dico “uomo” e “uomo” può intervenire vuoi come specie vuoi come genere. “Uomo” è genere se considero Cesare, quindi un individuo specifico, Cesare è una specie che appartiene al genere “uomo”; ma “uomo” diventa specie se considero l’uomo come specie del genere “animale”. Ecco, che, come vedete, genere e specie sono mobili. Così anche l’universale, che è ciò che raccoglie tutti i particolari, le specie. Tutti? Ecco l’induzione, che ci viene in aiuto attraverso l’analogia: si dice, si pensa, si crede, si vuole che siano tutti. Questa è la premessa maggiore che, come abbiamo visto altre volte, non è deducibile da qualche cosa, si innescherebbe all’istante un regresso all’infinito, che non ci porta da nessuna parte, ma deve essere inventata, costruita; per cui, ecco, l’induzione che ci viene in soccorso, che ci consente, attraverso l’analogia, di inventare, di costruire letteralmente la premessa maggiore: sembra simile a quell’altra cosa, si comporterà dunque allo stesso modo. Come sappiamo, questo è il fondamento del sapere, di tutto. Vedete che la logica – Aristotele ne parlerà in modo più dettagliato e articolato negli Analitici – giunge e disgiunge a seconda che ciò che deve aggiungere rientri all’interno di un genere: se dico che A appartiene a B, vuol dire che questa A è specie rispetto alla B, che è genere, che la A è un particolare rispetto alla B, che è un universale. Ma questi sono concetti e, infatti, lui lo dice. Quando parla dell’“ogni”, questo viene usato come universale, ma “viene usato” come universale, non c’è l’universale; lo uso come universale, per indicare che questa cosa appartiene a qualche cos’altro…, probabilmente, la certezza non c’è mai. Si indica con “ogni”, e nella logica si usa una A rovesciata (), che indica un quantificatore universale; il quantificatore esistenziale, il simbolo è , dice che ce n’è almeno uno che non è come pensi tu. Quindi, la logica si muove in questo modo: costruisce un universale, lo costruisce letteralmente, non può essere dedotto da altro, deve essere costruito, inventato; dopodiché, una volta che ha costruito l’universale, decide che una certa serie di cose, per analogia, appartiene a quell’universale; quindi, in base a questo criterio, se appartengono o se oppure non appartengono, somma o sottrae, aggiunge o separa.

Intervento: Sembra che l’universale, costruito attraverso l’analogia, costituisca il trionfo della volontà di potenza. Come se la premessa della logica fosse la volontà di potenza. Pretendere di sapere che tutte le cose si debbono comportare in un certo modo.

Sì, esattamente. Si comporteranno come voglio io. La volontà di potenza qui – per fare un gioco di parole – la fa da padrone, perché chiaramente con l’induzione raggiungo una certezza che niente al mondo mi garantisce, ma che io impongo: io decido che questo è così, che questo è tutto. Ma il tutto qui è più che altro una teoria del tutto. Vale a dire, l’induzione, in effetti, è l’unica cosa che crea veramente una teoria del tutto, perché se l’è inventata. Il tutto, cui alludevo prima, ponendosi come la simultaneità dell’uno e dei molti, offre soltanto la condizione per potere pensare qualunque cosa, perché pensare è necessariamente dividere l’uno dai molti, e quando pensiamo noi facciamo questo, compiamo quel calcolo di cui parlavo prima, sottrazione e addizione. Quando parlo faccio ininterrottamente questa operazione, compio un calcolo continuo, aggiungo e sottraggo. La stessa decisione, determinazione, definizione, tutte queste cose che hanno il de davanti fanno tutte la stessa cosa: de-cidono, cioè, tagliano via, ritagliano un qualche cosa e, quindi, escludono tutto il resto, quello che i logici chiamano complemento booleano.

Intervento: …

L’implicazione è una delle forme argomentative fondamentali. Dice che se c’è questo allora c’è quest’altro, se A allora B, questa forma argomentativa si può volgere anche in un’opposizione, si può scrivere anche in un altro modo: o come se A allora B, oppure, non (A oppure B), ed è la stessa cosa, è solo scritta in un altro modo. L’implicazione è quella che aggiunge, cioè, se c’è questo allora posso aggiungere quell’altro, se c’è la A posso aggiungere la B, sempre in base alle regole di cui dicevamo prima, regole arbitrarie e indimostrabili; anche perché una eventuale, possibile, ipotetica dimostrazione subirebbe lo stesso destino, cioè, non dimostrerebbe niente.

Intervento: Dovrebbe utilizzare ciò stesso che deve dimostrare.

Sì. Che non si fa generalmente. Nella retorica ha un nome questa operazione, petitio principii, petizione di principio, cioè, si utilizza nella dimostrazione ciò stesso che si deve dimostrare. È una cosa non corretta. Ecco allora la logica, la logica è questo: aggiungere, secondo delle regole prestabilite, che sono quelle del genere e della specie; io stabilisco un genere in modo del tutto arbitrario e poi, sempre induttivamente, per analogia, determino che una certa cosa sembra rientrare all’interno di quel genere. Il fatto è che genere e specie sono concetti, non sono enti di natura, sono enti di ragione, quindi, dei pensati, non esistono da qualche parte. Tutta la logica, di cui ci parlerà Aristotele, non è nient’altro che questo: mostrare come accostare, aggiungere o togliere delle cose, a seconda di criteri che sono stati prestabiliti. Tutto qui, non c’è altro. La questione del vero e del falso è la base nella logica; ci sono poi anche le logiche a più valori, ma anche quelle hanno comunque bisogno del vero e del falso, aggiungendo un valore di verità, il vero/falso, e cioè è vero in alcuni casi e falso in altri. Il vero e il falso è questo: se è vero aggiungo, se è falso sottraggo, cioè, non utilizzo. Come si pone il vero, una proposizione vera? Come l’uno, l’uno che è quello che è. Viene qui subito alla mente Plotino: è un’ipostasi, qualche cosa che è quella che per virtù propria – siamo in pieno platonismo, naturalmente – e non per virtù di altro, perché sennò c’è subito uno spostamento e quell’uno incomincia a sgretolarsi. Ma, se parliamo, parliamo continuamente attraverso la giunzione e la separazione, cioè creiamo quell’uno, creiamo un universale. Dicevamo già tempo fa che ogni affermazione si pone come un universale, si pone come quella che include sotto di sé tutte le altre cose che si possono dire di quella cosa: un’affermazione stabilisce che è così. Quando Aristotele abbozza il suo quadrato logico, che poi verrà formalizzato da Pietro Ispano, ci dice che cosa sono i molti: l’uno è l’universale affermativo, i molti la particolare negativa; come dire che c’è almeno un elemento che incrina, che mette in discussione questa unità, questo monoblocco, che è poi quella cosa che i greci chiamavano εἶδος, nel senso dell’immagine compiuta, finita, chiusa in sé. La particolare negativa dice che c’è almeno uno per cui non è così. Ma, allora, aveva ragione Platone: i molti sono i cattivi, perché mi rompono le uova nel paniere, nel senso che mi scombinano, mi mettono in crisi questo uno; ed ecco perché i molti vanno tenuti a bada, a freno, in modo che stiano dove li posso dominare. Ecco Plotino che arriva alcuni secoli dopo. Per Platone l’uno non domina ancora i molti, semplicemente li vuole separati perché l’uno è il bene e i molti sono il male. Per Plotino no, l’uno è ciò che produce i molti e, quindi, li domina, li controlla; come dire che recupera i molti, che sono sempre stati una maledizione per il pensiero, perché io ho un pensiero, affermo qualche cosa e voglio che sia quella, universale, ma c’è sempre qualcuno che arriva e che dice “sì, ma questo caso è diverso”, e incrina la pienezza, la totalità, la compattezza dell’uno. I numeri: il numero e la serie numerica. Il numero è quello, è l’uno, ma la serie numerica è quella cosa senza la quale quel numero non esiste. Provate a togliere tutti i numeri lasciando soltanto il due; questo due, a questo punto, cosa ci rappresenta? Niente. Quindi, questo due per esistere deve avere i molti: ecco perché non li posso togliere. Ecco il colpo di genio di Plotino: i molti sono generati dall’uno e diventano dunque qualcosa di dominato, quanto meno di dominabile. La logica ci dice come dominare le cose, che cosa posso dominare e che cosa no. Se unisco domino; se separo, ciò che è separato costituisce un problema, per cui devo fare credere che ciò che è separato scompaia. Quando ricompare ciò che è separato? Con Hegel. Ciò che da sempre, tranne che dai presocratici, è stato tenuto separato, per cui se io nego questa cosa cessa di esistere, ecco che con Hegel ritorna e ritorna a pieno titolo perché si accorge che senza il negativo non c’è neppure il positivo: il positivo, ciò che pongo, non c’è senza tutto ciò che lo nega. Questa è anche la fortuna della retorica, perché qualunque cosa io ponga c’è sempre la possibilità di costruire un’argomentazione che va in tutt’altra direzione. Questo viene dal fatto che ciascuna cosa è polivoca, ciascuna cosa non esclude i molti; anche se io voglio affermarla in quanto tale, non può escluderli in nessun modo. L’abile retore è quello che è capace di ricongiungere tutte quelle cose che negano ciò che è stato posto, affermato, e lo reintroduce mostrando che, quindi, non è così o quanto meno che non è soltanto così. Invece, la logica, come abbiamo detto spesso, è un caso particolare della retorica. Mentre nella retorica ciò che viene negato può, anzi, deve essere riutilizzato per negare ciò che l’altro vuole affermare, nella logica si è invece pensato bene di cancellare ciò che viene negato, la negazione lo toglie di mezzo come se non fosse mai esistito e, come vi dicevo, fino a Hegel è stato così. Poi, Hegel è stato a sua volta cancellato e si è tornati a pensare così: se lo nego non esiste. Tutto questo per annunciare ciò che verrà detto intorno alla logica. La logica non è nient’altro che questo: mostrare che cosa può essere aggiunto o tolto in base a ciò che si è stabilito essere genere e specie. Siamo a pag. 229. Il vero e il falso nelle enunciazioni particolari e future. Pertanto, è necessario che l’affermazione e la negazione sulle realtà che sono e sono state sia vera o falsa; è necessario che sempre l’una sia vera e l’altra sia falsa sia sugli universali usati modo universale… “Uomo” può essere usato sia come universale sia come particolare. …sia sui particolari, come è stato detto; per quanto riguarda invece gli universali che non siano detti in senso universale, non è necessario: si è parlato anche di questi. Per quanto riguarda le realtà particolare e future, le cose non stanno nello stesso modo. Dice che è necessario che un’affermazione sia vera e l’altra falsa. C’è, però, una domanda che Aristotele non si fa: perché è necessario che l’una sia vera e l’altra sia falsa? Certo, se muovo dalla pre-supposizione che le cose esistano di per sé, che esistano nella realtà, ecco che allora la realtà funziona come garanzia: qualcosa c’è oppure non c’è. Ma se io muovo una qualche obiezione a questa posizione, allora non è necessario che questa affermazione sia vera o falsa, perché è vera se mostra l’uno e falsa se intervengono i molti; perché è questo il concetto di vero e falso. Se ci sono i molti, come li utilizzo? Sono tanti, sfuggono. I molti sono, rispetto a ciò che dicevamo tempo fa, il movimento, cioè l’indeterminabile; per determinare il movimento mi serve l’uno, mi serve qualche cosa di fermo, in quiete; e, allora, il vero del movimento quale sarebbe? La quiete? Sì, solo che questo comporta dei problemi e, allora, ecco la necessità di separare il vero dal falso. E quando lui dice che necessariamente devo separare il vero dal falso, ha ragione, ma anche no. Devo separarli necessariamente per parlare e ciascuno può verificare che parlando compie ininterrottamente somme e sottrazioni, altrimenti non parla. Quindi, è vero che è necessario che l’una sia vera e l’altra falsa, cioè che io ne accolga una e respinga quell’altra, ma nello stesso tempo non ha ragione, perché l’una esiste in quanto esiste quell’altra. Ed ecco riaffiorare il problema del linguaggio, cioè il problema dell’uno e dei molti, della loro simultaneità che per parlare dobbiamo escludere. Parlando escludiamo la simultaneità dell’uno e dei molti a vantaggio dell’uno, togliendo di mezzo i molti o il falso, che è la stessa cosa. Se, infatti, ogni affermazione o negazione è vera o falsa… Lui giustamente davanti ci mette il “se”, cioè pone queste proposizioni come ipotetiche e non apodittiche, come affermazioni necessariamente vere. …è anche necessario che ogni cosa si dia o non si dia: se infatti uno dirà che qualcosa sarà, mentre un altro negherà questa stessa cosa, è chiaro che necessariamente uno di questi dice il vero, e ogni affermazione è vera o falsa. C’è il famoso esempio della battaglia navale: affermare che domani ci sarà o non ci sarà una battaglia navale, oggi non è né vera né falsa; ma chi afferma che domani ci sarà è nel vero se domani ci sarà la battaglia navale; quindi, avrà detto il vero in anticipo. Ora, c’è un’altra considerazione qui da fare. Lui accosta il vero e il falso a ciò che si dà e a ciò che non si dà, a ciò che appare e a ciò che non appare. Il vero dice che quella cosa appare. Perché dirlo? Se appare, appare, non c’è bisogno di affermarlo. Non è proprio così. È un po’ come la tautologia, A=A. Perché devo dire che A è A, a che scopo? Se è A, è A. Però, io sto già utilizzando questo doppio riferimento alla A, per confermare che la A è proprio la A. Perché ha bisogno di essere confermato? Perché altrimenti la A da sé non significa niente. Uno dice che basta pronunciare la A. Sì, ma questa A chi mi dice che è proprio la A. Devo, quindi, verificare che la A sia A per poterla utilizzare, e cioè qualche cosa si dà, come avrete immediatamente ravvisato, sempre e comunque in una relazione. L’implicazione, in fondo, come tutte le altre forme logiche, non è altro che una relazione di inclusione o di esclusione. Lui continua a dire che è necessario che sia vera o l’affermazione la negazione. È vero nell’accezione che indicavamo, e cioè che per potere parlare io devo poterli distinguere, devo potere separare, sennò non posso ottenere l’uno. Se non separo i molti dall’uno non posso ottenere l’uno, quindi, non c’è la cosa in sé, la cosa per sé, non c’è quella cosa che posso affermare. L’uno qui è proprio nell’accezione che avrebbe voluto Diels, e cioè come πάντον e non come πάντα, come il tutto e non come tutte le cose. Quindi, nulla è o viene ad essere per caso né indifferentemente in uno dei due modi in cui potrebbe essere, né sarà o non sarà, piuttosto tutte le cose esistono necessariamente e non c’è indifferenza rispetto ai due modi in cui potrebbero essere (infatti, dice il vero o colui che afferma o colui che nega). Qui dice una cosa, la cui gravità sfugge anche ad Aristotele; non parliamo poi dei suoi commentatori, in particolare i medioevali. Aristotele dice una cosa che suona strana, e cioè chi afferma che domani ci sarà una battaglia navale ha ragione in anticipo, perché domani la battaglia navale sarà stata. Ha ragione in anticipo. Infatti, dice che non avviene per caso ma che è necessario che sia così: chi afferma che ci sarà una battaglia navale ha ragione in anticipo. Verrebbe da pensare: come avrà ragione in anticipo? Avrà ragione domani quando verificheremo se ci sarà o non ci sarà una battaglia navale, ma oggi che ne sappiamo? È una questione complessa ma interessante. Riandate con la mente alla Fisica di Aristotele, così come ce l’ha presentata Heidegger, rispetto al movimento, quindi, alla δύναμις, all’ἐνέργεια e all’έντελέχειᾳ. L’ἐνέργεια anticipa la δύναμις, che razionalmente si penserebbe venire prima, cioè c’è prima la potenza e poi c’è l’atto; infatti, quella cosa lo sorprese, e cioè qualche cosa che viene dopo diventa la condizione di ciò che è prima. Si è tentati chiaramente di pensare che colui che afferma che domani ci sarà la battaglia navale avrà ragione domani; no, dice Aristotele, ha ragione adesso. Ciò che sto dicendo adesso è, in un certo senso, la δύναμις, è in potenza ciò che accadrà; ma l’ἐνέργεια non segue cronologicamente la δύναμις, la precede logicamente. L’atto non segue la potenza, ma l’atto fa apparire la potenza; come se la verità di ciò che sarà stato fa esistere a ritroso una verità, non temporalmente, ma la fa esistere nel senso in cui l’ἐνέργεια fa esistere la δύναμις dopo che la δύναμις si è attuata in quanto potenza. Si pensa che ci sia la δύναμις, la potenza, e poi l’atto; no, diceva Aristotele, è l’atto che fa esistere la potenza. Sta dicendo che è ciò che si dirà dopo che fa esistere come vero quello che si sta dicendo adesso: ciò che si dirà, non ciò che accadrà. In fondo, è quello che a distanza di millenni pensò Peirce: ciò che dico dopo fa esistere ciò che dico prima. È il λέγειν τί: senza il τί non c’è il λέγειν, senza il significato non c’è il significante. Sembra una questione un po’ strana, d’altra parte, anche Aristotele ne fu sorpreso, eppure, è qualche cosa che rileva il funzionamento del linguaggio: è il τί, il qualcosa che fa esistere il λέγειν, il dire, è ciò che dico che fa esistere il dire. Uno penserebbe che c’è prima il dire e poi ciò che il dire dice, ma Aristotele, Hegel, Peirce, molto marginalmente anche de Saussure, ma soprattutto Eraclito, affermano il contrario: può esistere il mio dire perché c’è ciò che il mio dire dice. È solo dopo che è apparso ciò che il mio dire dice che esiste il mio dire, sennò non esisterebbe. La questione della δύναμις, dell’ἐνέργεια e dell’έντελέχειᾳ non è altro che la questione della simultaneità dell’uno e dei molti, δύναμις e ἐνέργεια. È il detto, il τί, il qualcosa, che fa esistere il dire. Tutto questo naturalmente è sostenuto dal verso qualcosa, λέγειν τί κατά τίνός: tutto questo si dice per qualcosa, per la volontà di potenza, in definitiva. Su questo Aristotele è stato molto preciso, dicendo che c’è la soddisfazione e l’insoddisfazione: sono soddisfatto se la volontà di potenza è soddisfatta.

Intervento: Il “verso qualcosa” è come dire che non c’è un dire senza un rinvio.

Esatto. Sottolinea il fatto che il linguaggio non è altro che relazione, nient’altro che questo. Ed è perché c’è relazione che noi possiamo parlare, appunto perché c’è questo rinvio continuo. Se non rinviasse saremmo come l’animale, un bruco, per il quale nulla rinvia a nulla. Il linguaggio dà la possibilità di rappresentare, di porsi a distanza, e questa distanza è quella che mi consente di affermare che io, per esempio, non sono quel termosifone che vedo e, quindi, di dire che vedo un termosifone. Posso farlo perché l’ho separato, mentre, per esempio, il leone non si accorge di essere un leone nella savana che corre dietro a una gazzella per sgozzarla, ma lui è queste cose qua, non c’è separazione, non c’è rappresentazione. Il linguaggio è relazione; senza relazione non c’è possibilità di rappresentare alcunché. Rappresentare, quindi, presentare: non mi si presenta niente senza rappresentazione, senza linguaggio, senza questa distanza che il linguaggio instaura, per cui il linguaggio mi consente di inventare le cose, potremmo dire, di crearle. Mi consente anche di chiedermi che cosa sono ma mi impedisce di saperlo, perché mi ritrovo in un rinvio da cui non esco mai più. Non lo fa per cattiveria o perché è un burlone, lo fa perché ogni cosa deve essere un rinvio ad altro, altrimenti il linguaggio cessa di funzionare. Quindi, dire che qualcosa sarà o non sarà non ha altra funzione che se dico il vero allora controllo la situazione, se dico il falso no; infatti, il falso è la perdita di controllo della situazione; i molti non li controllo, sono l’indeterminato, l’πειρον, diceva Anassimandro. Come controllo l’πειρον, l’infinito? Si è sempre cercato di controllare l’infinito ma manca sempre un pezzetto. Potremmo, quindi, aggiungere questo, che la logica, in fondo, è come se insegnasse a dominare le cose, con tutte le condizioni che dicevamo, e cioè, per prima cosa devo crearmi un universale; poi, devo crearmi delle regole di inferenza; poi, devo crearmi delle regole di appartenenza, e allora posso illudermi di controllare le cose. Ovviamente, non si controlla niente. È un po’ come se dicessi: controllo tutto perché sono il signore dell’universo. E allora? Non controllo assolutamente nulla, ovviamente, ma la logica illude di questo, costruendo dapprima, in modo assolutamente arbitrario, la premessa maggiore; poi, in modo arbitrario, delle regole di connessione; poi, costruendo in modo altrettanto arbitrario delle regole di appartenenza. Chi decide se una determinata specie appartiene a quel determinato genere? Chi l’ha deciso? Io. Non sono enti di natura, ma sono enti di ragione, concetti, quindi, dei pensati.