INDIETRO

 

 

27 settembre 2017

 

M. Heidegger, Essere e Tempo 

 

Questa sera faremo un passo indietro. Più tardi torneremo ad alcune cose che Heidegger dice intorno alla verità perché c’è qualche cosa che forse non abbiamo articolato a sufficienza a questo riguardo. A pag. 352. L’interpretazione esistenziale della coscienza deve reperire un’attestazione, insita nell’Esserci stesso, del suo poter-essere più proprio. L’Esserci deve attestare di sé del suo essere più proprio. La maniera in cui la coscienza attesta non ha il carattere di una informazione indifferente, ma è un risveglio che pone innanzi all’esser-colpevole. Pone innanzi, cioè, all’impossibilità di determinarsi. Ciò che risulta così attestato è “afferrato” dall’udire che comprende genuinamente la chiamata nel senso che essa intende. Questa è la “voce della coscienza”. Solo la comprensione della chiamata, in quanto modo di essere dell’Esserci… Sappiamo che l’essere dell’Esserci è la Cura. …offre il contenuto fenomenico di ciò che la chiamata della coscienza attesta. Quindi, occorre comprendere questa chiamata per sapere cosa la coscienza attesta. Cosa dice propriamente la coscienza? Per saperlo occorre comprendere questa chiamata, che sappiamo essere una chiamata da parte dell’Esserci all’Esserci, muove dall’Esserci e ripiega su se stessa. Abbiamo caratterizzato la comprensione autentica della chiamata come voler-avere-coscienza. Un atto di volontà, quindi. La chiamata è quella che toglie via dal Si, dalla chiacchiera. Questo lasciar-agire-in-noi da se stesso il se-Stesso autentico nel suo esser-colpevole rappresenta fenomenicamente il poter-essere autentico attestato nell’Esserci stesso. Occorre lasciar agire in noi il se stesso autentico. E qual è il se stesso autentico? L’esser colpevole, quindi, il non potere non tenere conto della mia indeterminabilità. Nel momento in cui l’Esserci volesse determinarsi ritrova soltanto l’essere gettato, perché è questo l’Esserci: l’essere gettato. Non è qualche cosa che è lì, fisso e immobile. Questa è la “rivoluzione” di Heidegger, che ha tolto l’essere dalla sua posizione immobile e l’ha posto invece come gettatezza. Quindi, non c’è più l’essere fermo lì, immobile. L’essere dell’Esserci, difatti, è la Cura, che è l’essere continuamente progettato verso un qualche utilizzabile. Il voler-avere coscienza, in quanto autocomprensione del poter-essere più proprio, è una modalità dell’apertura dell’Esserci. Volere avere coscienza, cioè, volere trarsi via dal Si, è un’autocomprensione della propria colpa, nell’accezione di Heidegger, e questo trarsi via attraverso il confronto con la colpa è esattamente l’apertura dell’Esserci. Naturalmente, questo avviene anche attraverso una modalità affettiva, che è quella dell’angoscia, lo spaesamento. Il fatto dell’angoscia di coscienza è una riprova fenomenica che, nella comprensione della chiamata, l’Esserci è posto innanzi al proprio spaesamento. (pagg. 352-353) L’Esserci guarda se stesso e si spaesa perché non c’è già più. Il voler-avere-coscienza diviene così un esser-pronto all’angoscia. Io voglio avere coscienza, voglio tirarmi fuori dal Si, però, così facendo mi trovo nell’angoscia, perché mi rendo conto di che cosa sono fatto. Poi parla del silenzio, della voce della coscienza che, in effetti, è un richiamo silenzioso. Il discorso della coscienza non è mai comunicazione pronunciata. La coscienza chiama soltanto tacendo, cioè la chiamata proviene dall’afonia dello spaesamento e chiama indietro l’Esserci risvegliato, che deve farsi silente, richiamandolo al silenzio di se stesso. Il voler-avere-coscienza può comprendere adeguatamente questo discorso che tace soltanto nel silenzio. Ma il silenzio fa ammutolire le chiacchiere comuni del Si. Ecco perché il silenzio: non c’è più il Si, non c’è più la baraonda di tutti coloro che dicono “si fa così, si fa cosà, non si fa questo, non si fa quello, ecc.”, ma tutto questo tace. Perché possa esserci questa chiamata, quindi questa presa di coscienza, occorre che il Si taccia, non ci sia più. L’apertura dell’Esserci… L’apertura dell’Esserci non è altro che la sua gettatezza. …implicita nel voler-avere-coscienza è quindi costituita dalla situazione emotiva dell’angoscia… È nell’angoscia che c’è questa apertura del voler avere coscienza, perché se io voglio avere coscienza mi ritrovo nell’angoscia perché non mi osso determinare in nessun modo. …dalla comprensione come autoprogettarsi nell’esser-colpevole… La comprensione comporta, sì, certo, l’apertura ma questa apertura è fatta di un autoprogettarsi nell’essere colpevole, cioè, questo progetto, che è insito nella comprensione, è l’autoprogettarsi nell’essere colpevole cioè, mi progetto nell’essere colpevole. Mi progetto, quindi. Infatti, diceva prima, del voler avere coscienza, non è una cosa che accade così, miracolosamente, sono io che mi progetto, che voglio uscire dal Si, e quando esco dal Si c’è il silenzio, cioè, tutte le voci della bolgia finalmente tacciono. A pag. 354. Questa apertura eminente, autentica, attestata nell’Esserci stesso dalla sua coscienza, cioè il tacito e pronto all’angoscia autoprogettarsi nel più proprio esser-colpevole, è ciò che chiamiamo decisione. E, in effetti, è una decisione. Come dicevo prima, non è che accade da solo tutto questo, io decido. La decisione è una modalità eminente di apertura dell’Esserci. Ma l’apertura è già stata interpretata esistenzialmente come la verità originaria. Quindi, l’apertura come verità originaria. E qui, ecco che facciamo il passo indietro. Torniamo alla questione della verità e la riconsideriamo di nuovo. Dobbiamo tornare a pag. 258. Aristotele designa questa ricerca come φιλοσοφείν περί τής άληϑείας, “filosofare” sulla “verità”, o anche: άποφαίνεσϑαι περί τής άληϑείας, far vedere nei riguardi e nell’ambito della “verità”. La filosofia stessa è definita come έπιστήμη τις τής άληϑείας, scienza della verità. Essa è caratterizzata anche come έπιστήμη, ϑεωρεί τό ổν ổν, cioè come scienza che considera l’ente in quanto ente, cioè rispetto al suo essere. Perché se voglio considerare l’ente in quanto ente devo pormi la domanda che cosa fa sì che l’ente sia quello che è e, quindi, l’essere, immediatamente. Che significa qui “indagare sulla verità”, scienza della “verità”? Ora, ciò che dice intorno alla verità e che ci è parzialmente sfuggito la volta precedete, è una cosa molto interessante. Heidegger pone la verità non come un qualche cosa, un qualche cosa, per esempio, a cui si arriva o da cui si parte, ma in un modo davvero singolare. A pag. 264. Che un’asserzione sia vera significa: essa scopre l’ente in se stesso: enuncia, mostra, “lascia vedere” (πόφανσις) l’ente nel suo esser scoperto. Esser-vero (verità) dell’asserzione significa essere-scoprente. La verità non ha quindi la struttura dell’adeguazione del conoscere all’oggetto nel senso dell’assimilazione di un ente (il soggetto) a un altro ente (l’oggetto). Distinzione soggetto-oggetto cartesiana. A sua volta l’esser-vero nel senso di esser-scoprente è ontologicamente possibile solo sul fondamento dell’essere-nel-mondo. Questo è essenziale. Questo fenomeno, in cui ravvisammo una costituzione fondamentale dell’Esserci, è il fondamento del fenomeno originario della verità. Bisogna dunque scrutare ancora più a fondo questo fenomeno. Qui c’è tutta la questione della verità in Heidegger. È detta in poche righe ma spesso Heidegger riesce a dire cose notevoli in poche righe. Un’asserzione scopre l’ente. Non lo scopre in quanto oggetto rispetto a un soggetto che lo vede. No, è qualche cosa che si scopre a condizione che ci sia un Esserci, e cioè a condizione che io sia nel mondo. Se io sono nel mondo si dà questo esser scoprente, che è la mia affermazione sul mondo. Mentre affermo, mentre mi rivolgo a un utilizzabile, è in questo momento che qualche cosa si scopre, qualche cosa mi viene incontro, si manifesta, perché io sono nel mondo e ciò che mi si scopre è anche lui, il mondo, ovviamente. La verità qui è nello scoprimento di qualche cosa: qualche cosa, mentre si scopre, è verità. Il che significa ancora che questa verità è già data, nel senso che è presupposta. E qui c’è un gioco strano in Heidegger e difficile da reperire nel suo testo, ma non impossibile. Prendiamo queste frasi. A pag. 266. La “definizione” della verità come esser-scoperto ed esser-scoprente non è affatto una semplice esplicazione verbale, ma trae origine dall’analisi dei comportamenti dell’Esserci che noi, innanzi tutto, siamo soliti dire “veri”. Esser-vero in quanto esser-scoprente… Badate bene, dice esser-vero, non esser scoperto, ma in quanto esser-scoprente, che è diverso, cioè, è qualche cosa che è in atto, potremmo aggiungere noi, nella gettatezza. Esser-vero in quanto esser-scoprente è un modo di essere dell’Esserci. Ciò che a sua volta rende possibile questo scoprire deve necessariamente esser detto “vero” in un senso ancor più originario. Solo i fondamenti ontologico-esistenziali dello scoprire mettono a nudo il fenomeno della verità più rigorosamente originario. La verità, intesa nell’accezione più autentica, più rigorosa, più originaria, la si trae dallo scoprire stesso, non dallo scoperto ma dallo scoprire stesso, dall’atto dello scoprimento. In questo momento dello scoprimento lì c’è la verità ma, dice a pag. 270 Questo esser scoperto è custodito in ciò che è espresso. L’espressione, in certo modo, diviene un utilizzabile intramondano che può essere ricevuto e ritrasmesso agli altri. Questo esser scoperto è custodito in ciò che è espresso. La mia espressione, ciò che dico, è ciò che custodisce ciò che si manifesta. Questo che sta dicendo lo avevamo già incontrato rispetto al λόγος. Il λόγος, diceva, custodisce ciò che si manifesta, ciò che si mostra. L’Esserci non ha bisogno di portarsi in cospetto dell’ente stesso mediante un’esperienza “originaria”, e resta tuttavia in un rapporto di essere-per l’ente. Lo scoprimento, in larga misura, non è il prodotto di una scoperta rispettivamente propria, ma il frutto del sentito dire. Cosa accade esattamente? Nello scoprimento qualche cosa appare, il λόγος custodisce il qualche cosa che appare, e in questo custodire ciò che appare, dice Heidegger, lì c’è la verità. Ciò che appare, certo, ma se non ci fosse il λόγος che lo custodisce attraverso un’espressione non ci sarebbe nulla. Il ciò che mi appare, che si mostra, che esce dal nascondimento, non è la semplice presenza, non è l’ente in quanto tale ma è ciò che appare in quanto custodito dal λόγος, cioè custodito nell’espressione. Solo a questa condizione si può porre come la verità. E allora, dice Heidegger, questa verità è presupposta. Ma perché? Perché devo pensare che questa verità è presupposta? Perché ciò che mi viene incontro, ciò che mi appare, se non ci fosse l’apertura dell’Esserci non apparirebbe, ma se c’è l’apertura dell’Esserci significa che l’Esserci è già gettato nel mondo, è già in relazione con ciò che appare, cioè è già da sempre preso nella verità, perché ciò che appare è la verità, semplicemente per il fatto che è ciò che si manifesta nel momento in cui c’è un’apertura. Lui parla dell’apertura come la radura, come l’illuminazione, ecc., cioè, il momento in cui l’essere rischiara qualche cosa, ma cosa vuole dire questo? Vuole dire che l’Esserci, nella sua gettatezza, nel momento in cui è gettato, fa accadere qualcosa. Che cosa accade? Intanto, se stesso ed è proprio questo se stesso, da cui parte e di cui non può fare a meno, che in qualche modo presuppone della verità. Il fatto che io sia l’Esserci, che ci sia io che parlo e che penso, questo ha a che fare con la verità. Quando l’Esserci riflette su se stesso e ritrova se stesso, anche nella sua indeterminazione, comunque si trova ad avere a che fare con la verità, cioè con qualche cosa che appare all’Esserci ma, apparendo all’Esserci, costituisce il suo mondo e quindi costituisce l’Esserci stesso. È per questo che lui può parlare di verità, perché sennò sarebbe la posizione cartesiana, nel senso che io sono e quindi le cose ci sono. No, l’Esserci c’è in quanto essere nel mondo, altrimenti non c’è, ma è proprio in quanto essere nel mondo che nel mondo trova quelle cose che lui è e che lo fanno essere quello che è. È a questo punto che può parlare di verità, cioè di qualche cosa che fa esistere l’Esserci in quanto se stesso. È come un gioco di andata e ritorno, nel senso che l’Esserci, sì, potremmo anche dire che incontra il mondo ma non piacerebbe ad Heidegger, perché non è che incontri il mondo, sarebbe in questo caso una semplice presenza. L’Esserci è il mondo. Quindi, nel momento in cui l’Esserci si dà, si dà il mondo ma questo mondo, che si dà all’Esserci, è l’Esserci stesso nel suo essere gettato nel mondo. Poniamo la questione in termini semiotici. Nel momento in cui si avvia il linguaggio, in cui mi trovo nel linguaggio, mi trovo parlante e da questo momento incominciano a esistere le cose, che esistono perché mi vengono date le informazioni e le istruzioni per utilizzare queste informazioni, ma, a questo punto, in cui letteralmente si crea il mondo, io sono quel mondo, io sono tutte queste cose, di cui sono fatto, perché sono cose che sono intervenute nella parola e io sono fatto di parole. Nel momento stesso in cui inizio a parlare, nel momento in cui sono gettato nel mondo, cosa trovo? Trovo che io ero già nel mondo, nel senso che dal momento in cui faccio esistere questa cosa, la incontro come un utilizzabile, allora e soltanto allora ho l’opportunità di dire che questa cosa c’era anche prima. Solo allora posso dirlo, e perché lo dico? Beh, perché ho imparato una serie di cose che mi dicono che questa cosa c’era anche prima. Dire che c’era anche prima è un’affermazione che di per sé non significa nulla, però, è importate per sottolineare che quando incomincio a parlare è come se avessi già sempre parlato. È questa la questione attorno a cui gira Heidegger.

Intervento: Come dire che non c’è punto di origine…

Esatto. È quello che Heidegger chiama il tornare indietro, l’Esserci che torna su se stesso, e che cosa ritrova? Trova un rinvio infinito. Questa apertura, che altro non è se non l’avviarsi del linguaggio, è già sempre stata, perché nel momento in cui io sono nel linguaggio è some se fossi sempre stato nel linguaggio, non posso più pensare di non esserci, l’essere fuori del linguaggio non è più pensabile. Non solo ma non è mai stato pensabile, ovviamente; se prima non c’era il linguaggio, con cosa lo penso? Heidegger ha ragione a dire che è il λόγος che custodisce nell’espressione, custodisce in ciò che dico la verità, che non è altro che il fatto che mi trovo da sempre nel mondo, nel linguaggio. È questa la verità originaria, formulazione che oscilla tra la linguistica, la semiotica e la filosofia di Heidegger. È per questo che dice che bisogna presupporre della verità. Cosa vuole dire? Presupporre che io sono da sempre nel linguaggio, non posso non presupporlo, perché non posso pensare di non esserci, non lo posso fare letteralmente, devo quindi presupporre il linguaggio, in cui mi trovo da sempre. Non c’è mai stato un momento in cui io non sia stato nel linguaggio. Certamente, posso dirlo ma non posso pensarlo, non posso farmi un’idea di come sia fuori del linguaggio, questo non lo posso fare. A pag. 273. L’Esserci, in quanto costituito dall’apertura, è essenzialmente nella verità. Cioè, è essenzialmente in questo trovarsi di fronte all’ineluttabilità del linguaggio. A suo tempo, noi la ponemmo non come verità ma come necessità logica. È chiaro che dipende da cosa si intende con verità e da che cosa si intende con necessità logica, ovviamente. La verità, così come la pone Heidegger, è il trovarsi già da sempre nel mondo, l’Esserci è già da sempre nel mondo, sempre gettato, perché l’Esserci è questo essere gettato, non è da qualche parte, non è un qualche cosa che sta lì, non c’è niente lì, è soltanto nella gettatezza che esiste l’Esserci e non è determinabile. E, infatti, dice “C’è” verità solo perché e fintanto che l’Esserci è. È l’Esserci che la produce, è il linguaggio che, riflettendo su se stesso, si accorge di se stesso. Ed è questa la verità, non ce ne sono altre. La verità originaria, come la chiama Heidegger, è il linguaggio che si accorge di se stesso, che incomincia a pensare se stesso, uscendo dal Si, ovviamente. A pag. 274. In virtù del suo essenziale modo di essere conforme all’Esserci, ogni verità è relativa all’essere dell’Esserci. Sappiamo che l’essere dell’Esserci è la Cura e, pertanto, ogni verità è relativa alla Cura. Infatti lo scoprire, conformemente al suo senso più proprio, sottrae l’asserzione all’arbitrio “soggettivo” e porta l’Esserci scoprente in cospetto dell’ente stesso. Solo perché la “verità”, in quanto scoprire, è un modo di essere dell’Esserci, essa può essere sottratta all’arbitrio dell’Esserci. Non è una questione arbitraria, l’Esserci è fatto di questo. Non decide l’Esserci, l’Esserci non decide di come è fatto, non decide di essere gettatezza, è gettatezza. Infatti, lui attribuisce questa struttura della verità alla stessa struttura dell’Esserci. Per questo, dice, che non possibile trovare la verità da qualche parte, ecc., ma la verità è questo scoprire, nel mentre scopre qualche cosa l’Esserci è già gettato. È questo che gli fa dire che ogni verità è relativa all’essere dell’Esserci, cioè è relativa al suo stesso essere gettato. Il che comporta, però, anche un altro fatto interessante, e cioè che la verità non è un qualche cosa di fisso, di stabile, ma dipende dalla Cura, dipende dal modo dell’Esserci. Infatti dice che è relativa all’essere dell’Esserci, quindi, è relativa alla Cura. La verità è lo scoprire dell’esserci ciò che mano a mano scopre, è questo essere scoprente dell’Esserci, nel suo essere gettato. È sicuramente un concetto differente da tutti quei concetti di verità che sono stati posti in precedenza. Per esempio, quello della filosofia analitica, della verità come risultato; no, per Heidegger la verità non è il risultato di qualche cosa. Né parte dalla verità come rivelata, come fa la teologia. La verità non è altro che l’essere scoprente dell’Esserci nel suo scoprire ciò che man mano scopre.

Intervento: La chiamava anche orizzonte…

Sì. L’orizzonte è l’apertura dell’Esserci. Dice poi. Se si muove dal modo di essere della verità esistenzialmente concepito, diviene comprensibile anche il senso della presupposizione della verità. Perché dovremmo presupporre che c’è verità? Che significa presupporre? Vedete come pensa Heidegger: si presuppone la verità; un momento, che cosa intendiamo con presupporre? Che stanno a significare “dobbiamo” e “noi”? Che significa “c’è verità”? “Noi” presupponiamo la verità perché “noi” essendo nel modo di essere dell’Esserci, siamo “nella verità”. La presupponiamo perché siamo nella verità, perché l’Esserci è quella verità che è in quanto scoprente, in quanto sempre gettato, e quindi è già verità, l’Esserci è la verità. “Noi” presupponiamo la verità non come qualcosa che stia “al di fuori” e “al di sopra” di noi e a cui ci rapporteremmo come ci rapportiamo ad altri “valori”. Non siamo noi a presupporre la “verità”, ma essa è ciò che rende ontologicamente possibile che noi possiamo esser siffatti da “presupporre” qualcosa. È la verità che rende possibile qualcosa come il presupporre. Quindi, il presupporre la verità potrebbe apparire ridondante perché, dice, la verità è ciò che consente di potere presupporre qualunque cosa. questo perché posso presupporre una qualunque cosa, posso considerare una qualche cosa come un qualche cosa, perché l’Esserci è gettato verso qualche cosa, perché lo scopre e lo scopre nel momento in cui, essendo gettato in questa progettualità, incontra delle cose. Queste cose che incontra gli vengono incontro sono scoperte, cioè escono dal nascondimento, e si mostrano come utilizzabili. Ma è in questo scoprire le cose che c’è la verità, in questa possibilità di scoprire le cose, e le cose possono essere scoperte perché l’Esserci è gettatezza e, quindi, è fatto di questo scoprire le cose, è fatto di questo essere continuamente gettato nel mondo, e l’Esserci è il mondo in cui è gettato, sennò è niente. Presupporre la “verità” significa allora comprenderla come qualcosa in vista-di-cui l’Esserci è. L’Esserci è sempre in vista di qualche cosa, se è gettato è sempre in vista di qualche cosa. L’essere in vista di qualche cosa e non poter non esserlo, perché l’Esserci è questo, ecco, questa è la verità. Ma l’Esserci – in virtù della sua costituzione ontologica in quanto Cura – è già sempre avanti-a-sé. È già sempre avanti a sé in quanto già sempre gettato, già sempre nel mondo. Esso è un ente per il quale nel suo essere ne va del suo più poter-essere. Questo lo avevamo già visto, però, forse adesso è più chiaro. L’Esserci è un ente ma un ente particolare, per il quale il suo essere più proprio è il poter essere: l’Esserci è un poter essere. Come dicevo prima, è importante tenerlo sempre presente, l’Esserci non è un quid, un qualche cosa. Certo, è un ente ma non è fissato, né determinato né determinabile, perché il suo essere più proprio è il poter essere, quindi, la sua gettatezza. C’è un corsivo poco dopo. Poiché l’essere dell’Esserci porta con sé questo auto-presupporsi, “noi” dobbiamo presupporre anche “noi stessi” come determinati dall’apertura. Questo “presupporre”, insito nell’essere dell’Esserci, non si riferisce all’ente difforme dall’Esserci e sussistente oltre ad esso, ma unicamente all’Esserci stesso. La verità presupposta, il “c’è” con cui il suo essere deve essere determinato, ha il modo di essere e il senso d’essere dell’Esserci stesso. Noi dobbiamo “fare” la presupposizione della verità perché tale presupposizione è già “fatta” con l’essere del “noi”. Noi presupponiamo la verità, facciamo questa presupposizione, ma, di fatto, questa presupposizione è già fatta nel momento in cui noi diciamo, facciamo, perché se facciamo vuole dire che siamo gettati verso qualche cosa, che siamo progettati, che siamo nel mondo, ed essere nel mondo significa che l’Esserci è scoprente di volta in volta di qualcosa, di un qualche utilizzabile, che è già sempre lì. Infatti, lui parla della verità presupposta come il “c’è”, il c’è qualche cosa. È questa la verità che noi presupponiamo: che ci sia qualche cosa. Ma come possiamo dire che c’è qualche cosa? Lo possiamo dire perché siamo gettati nel mondo, perché l’Esserci è questa gettatezza, è allora che può dire che c’è qualche cosa. La verità presupposta, il “c’è” con cui il suo essere deve essere determinato, ha il modo di essere e il senso d’essere dell’Esserci stesso. Noi dobbiamo “fare” la presupposizione della verità perché tale presupposizione è già “fatta” con l’essere del “noi”. Quindi, la verità presupposta è il senso stesso dell’Esserci. È l’Esserci stesso che dice che c’è la verità, perché l’Esserci si sta dicendo, si sta progettando, perché l‘Esserci è nel mondo ed è nel mondo in questo modo, prendendosi cura di qualche cosa. Prendendosi cura di qualche cosa pre-suppone qualche cosa. Il fatto che ci sia qualche cosa è una pre-supposizione, nel senso che l’Esserci è quello che è proprio perché tiene conto di questa pre-supposizione, cioè, presuppone che ci sia qualche cosa, che ci sia il mondo. Ma come fa a presupporlo? Nel momento in cui si trova nella gettatezza, nel momento in cui si rende conto di essere nella gettatezza è già gettato… altrove, tra l’altro. Naturalmente, tutto questo è possibile se è possibile all’Esserci pensare se stesso. Questa è una prerogativa dell’Esserci perché, essendo gettato, si rivolge all’ente che in questo caso è se stesso. A questo punto scopre quell’ente che è se stesso e lo scopre come verità, cioè come ciò che si dà. Si dà nel senso che io sto dicendo, sto pensando che qualche cosa si dà. Il fatto stesso di pensarlo comporta che qualche cosa ci sia, se non altro il mio pensiero, se non altro questo Esserci che sta pensando o che sta dicendo queste cose. Noi dobbiamo (müssen)presupporre la verità; essa deve essere come apertura dell’Esserci, così come l’Esserci stesso deve essere sempre mio e sempre questo. Dice Noi dobbiamo presupporre la verità e questa verità è come apertura dell’Esserci. A questo punto risulta abbastanza chiaro, questa apertura dell’Esserci, apertura che consente a qualcosa di venir scoperto, è la verità. La verità deve essere come apertura dell’Esserci, così come l’Esserci stesso deve essere sempre mio e sempre questo, cioè l’Esserci che io sono non può essere un’altra persona. Questo sarebbe il con-altri di cui parlava ma l’Esserci che mi appartiene sono io, sono io in quanto apertura, in quanto possibilità. Questo esserci come apertura è, per Heidegger, la verità. Tutto ciò fa parte dell’essenziale esser-gettato dell’Esserci nel mondo. L’Esserci, in quanto se stesso, ha forse deciso liberamente, e potrà mai decidere, se vuole o no entrare nell’“Esserci”? L’Esserci stesso può decidere di essere o non essere nell’Esserci? Ovviamente, no. “In sé” non è possibile vedere perché l’ente debba essere scoperto, perché la verità e l’Esserci debbano (müssen) sussistere. La confutazione abituale dello scetticismo, cioè della negazione dell’essere e della conoscibilità della “verità”, rimane a mezza strada. Le cose essenziali sono queste. Poi, fa qualche critica a Kant. A pag. 277. “C’è” (es gibt) essere, non ente, soltanto in quanto la verità è (ist). L’essere per Heidegger è l’essere dell’Esserci. Quindi, potremmo dire che c’è l’Esserci soltanto in quanto c’è la verità, cioè soltanto in quanto l’Esserci è apertura. È questa la verità: l’Esserci è apertura. Essere e verità “sono” cooriginari. Che cosa significhi l’affermazione che l’essere “è”, posto che l’essere debba essere distinto da ogni ente, può essere discusso concretamente solo se sono stati chiariti il senso dell’essere e la portata della comprensione dell’essere in generale. Ed è qui che incomincia porre la questione dell’essere dell’Esserci come totalità e le varie cose che abbiamo successivamente letto. Quindi, la questione della verità, in che modo ci interessa? Potremmo dirla così. La verità incomincia a esistere nel momento in cui posso chiedermi che cos’è, in cui posso domandarmi intorno alla verità, e a qualunque altra cosa, ovviamente. Vale a dire, qualche cosa si dà, qualche cosa appare nel momento in cui c’è la possibilità che io possa domandare di questa cosa. A questa condizione qualche cosa mi appare: il domandare qualche cosa. Domandare che per Heidegger è anche il pensare qualcosa. Le condizioni che mi consentono di pensare qualcosa sono propriamente ciò che lui accosta alla verità. La verità è che esistono le condizioni perché io possa pormi una domanda. Il che significa ancora che soltanto attraverso il linguaggio è possibile pensare la verità. Quando lui dice che non c’è verità senza Esserci, cioè non c’è verità senza di me, è come dire che non c’è verità senza linguaggio. Quindi, non esiste una verità da qualche parte che debba essere quello che è e neppure, cosa più interessante, che la verità sia una, perché, diceva Heidegger, la verità è relativa al modo di essere dell’Esserci. Questo non significa che la verità sia una cosa relativa, non è così, ma la verità ci viene incontro nel modo in cui l’essere è gettato. È la sua gettatezza, la sua apertura, che è la verità stessa. Quindi, ovviamente, è sempre relativa all’Esserci e, infatti, senza l’Esserci non c’è nessuna verità. L’Esserci è dunque questa apertura, l’apertura che è prodotto dalla gettatezza: L’Esserci è gettato nel mondo; essendo gettato nel mondo, incontra delle cose che appaiono; ma appaiono perché lui, l’Esserci, è questo mondo in cui è gettato. Sta qui la questione più complessa da intendere in Heidegger, perché altrimenti sembra che da una parte ci sia l’Esserci e dall’altra il mondo, come semplice presenza. Ma questo sarebbe cartesiano. No, Questo esserci comprende il mondo comprendendo se stesso, perché lui è il mondo, non c’è nessuna distinzione tra l’Esserci e il mondo. E che cos’è questo mondo? A questo punto il mondo stesso è gettatezza, è sempre un essere “per” qualcosa. E questo è importante: l’essere sempre “per” qualcosa. Esattamente come un significante: è sempre “per” un altro significante. Non è mai per se stesso, si chiuderebbe immediatamente. Noi, però, sappiamo anche in che cosa consiste questo essere “per” qualcosa. Su questo Heidegger non approfondisce perché l’essere “per” qualcosa è ciò caratterizza l’Esserci, se è sempre gettato è sempre in vista di. Ma in vista di che? Per Heidegger è in vista di se stesso, della propria gettatezza. Sì, però, è in vista di qualche cosa che la persona non può non volere o, più propriamente, ciò di cui è fatto, cioè il linguaggio non può non “volere”, e cioè la volontà di potenza. È solo allora che diventa tutto un po' più chiaro perché l’essere sempre in vista di, certo, intendiamo quello che vuole dire Heidegger, ma non è soltanto una questione ontologica, anche, cioè una questione che appartiene all’essere dell’Esserci, ma è anche una questione strutturale, cioè che appartiene alla struttura del linguaggio. Dicevamo qualche volta fa che l’essere sempre in vista di… non è altro che un significante che è sempre per una altro significante, perché è così che funziona il linguaggio. Il fatto che un significante sia sempre in vista di un altro significante è qualche cosa che non può né interrompersi né gestirsi, non posso interrompere la catena linguistica, non posso farlo, perché io sono questa catena linguistica. Un po' come l’Esserci, che è gettatezza, non controlla questa gettatezza, è questa gettatezza stessa. Io sono questo stesso linguaggio, che è fatto di questi significanti che sono sempre in vista di qualche altro significante, in uno spostamento continuo o, per usare una parola di Heidegger, in una gettatezza continua. È in questa gettatezza del significante che si situa la volontà di potenza. L’essere sempre in vista di qualche cos’altro, di un utilizzabile, quindi, per potere essere utilizzato. Ecco che qui si insinua la volontà di potenza. Se un significante è sempre in vista di un altro significante per qualche cosa. Non può non essere per qualche cosa, e su questo Heidegger è preciso: se non fosse più per qualche cosa non sarebbe più nella gettatezza. Ma questo non è possibile perché noi non possiamo, come dice lui, decidere che cosa l’Esserci è o non è, non possiamo cessare di volere essere un Esserci, è come se io volessi cessare di essere nel linguaggio, non saprei da che parte incominciare. Quindi la domanda è: per che cosa è il linguaggio? Per niente. Ma non basta: il linguaggio è per il superpotenziamento del linguaggio. Certo, quando diciamo che il linguaggio è per niente ma che l’unico obiettivo è quello di riprodursi all’infinito, questo riprodursi all’infinito possiamo intenderlo come un superpotenziamento del linguaggio. Infatti, il linguaggio acquisisce elementi, informazioni, strumenti. A che scopo? Per potere produrre altre sequenze e controllarle, gestirle, cioè, saperle. Ecco perché ci interessava questa questione della verità. Certo, abbiamo fatto un po' di giri lunghi, però, è pur sempre un esercizio intellettuale. Dicendo che la verità è questa stessa apertura, cioè, questa stessa gettatezza, dice qualcosa di importante, cioè che la verità, la cosa più importante che esista per gli umani, di fatto non è altro che l’essere sempre un significante per un altro significante. È questa la verità, la verità originaria. Poi, su questo si costruiscono tutte le varie formulazioni della verità. Ciascuna cosa è per un’altra, esattamente come ciascuna parola, come ciascun significante: è sempre in vista di… e non può non esserlo. Questo è stato un colpo di genio di Heidegger, intendere questo rispetto all’essere ed è questo che ha sbarazzato tutto il pensiero antico, metafisico, teologico, dell’essere, come un qualche cosa che è lì, fermo e che garantisce tutto quanto. No, dice, l’essere non è altro che l’essere dell’Esserci, quindi, è la Cura dell’Esserci nella sua gettatezza. È gettatezza continua, cioè un significante sempre proiettato verso altri significanti. È un modo sicuramente differente di approcciare la questione della verità. Se proprio volessimo tirarla al massimo, anche se Heidegger non sarebbe d’accordo, la verità è che non c’è uscita dal linguaggio. Noi presupponiamo la verità, secondo Heidegger. Spostiamo la questione dalla verità al linguaggio. Noi presupponiamo il linguaggio, non possiamo non presupporlo. Perché? Perché lo siamo usando. Come facciamo a sapere che lo stiamo usando? Come lo so che sto usando il linguaggio? Perché tutto ciò che ho appreso, tutto ciò che so, è ciò che mi consente di dire che ho imparato che sono nel linguaggio. Anche questo l’ho imparato, se non l’avessi imparato non me ne sarei mai accorto. Si impara che si è nel linguaggio, si impara che questa è la verità, perché non ce ne sono altre più radicali, più originarie. Non c’è qualche cosa prima del linguaggio che consenta da lì di stabilire se il linguaggio c’è o non c’è, ecc. Infatti, la domanda “come so che sono nel linguaggio?” non è una domanda eludibile, devo potere rispondere a questa domanda perché l’ho imparato. Tutta questa serie di operazioni che faccio ho imparato che si chiama “sapere che sono nel linguaggio”. So che tutta questa serie di cose che sto facendo, suoni, connessioni, ecc., tutto questo si chiama “parlare”. Non c’è un’altra risposta. Non lo so per rivelazione divina, l’ho imparato, come qualunque altra cosa.