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27 agosto 2025

 

Agostino di Ippona De Trinitate

 

C’è un aspetto interessante: il peccato originale. Sappiamo che il peccato originale è quello che si è prodotto nel momento in cui Adamo ed Eva hanno mangiato la mela della conoscenza. Ma cosa c’è di interessante in tutto ciò? Questo Dio di cui si parla nella Bibbia viene in effetti rappresentato come un personaggio geloso, lo dice lui stesso, quindi, possessivo, irascibile e soprattutto permaloso perché, quando Adamo ed Eva colgono la mela, dà fuori di matto. Generalmente, si considera appunto che questa mela in realtà non sia proprio la mela in quanto tale, ma la questione della conoscenza. Ora, come incomincia il tutto? Incomincia con un divieto. Atteniamoci a questo racconto della Bibbia. Incomincia con un divieto assolutamente insensato, che non ha nessun motivo di essere: non devi mangiare la mela. Perché? C’è un divieto, dunque. Questa questione è essenziale, si fonda tutto su questo, sul divieto, perché senza il divieto non c’è il crimine, senza il divieto non c’è il peccato; senza il peccato non c’è nessuna redenzione, perché a questo punto ci dobbiamo redimere da che? Senza questa proibizione, senza questo divieto, la presenza, l’esistenza di Dio sarebbe assolutamente inutile, perché la sua utilità è di essere il salvatore, di redimere; quindi, è necessario che ci sia un peccato, ma il peccato non c’è, per cui bisogna inventarlo. Solo così posso pormi come colui che salva. Quindi, questo divieto ha la funzione di innescare tutta quella cosa che poi si è chiamata soteriologia, la dottrina della salvezza. Innesca tutto questo quel divieto, senza il quale Dio non serve a niente. La questione è molto interessante, anche molto importante, perché questa struttura si è ripetuta e continua a ripetersi, a distanza di migliaia di anni, a tutt’oggi. Si inventa un male e ci si pone come il rimedio: le case farmaceutiche inventano le malattie per potere vendere il farmaco che è il rimedio: la pandemia, il Covid famoso. Si inventa per esempio una epidemia, dopodiché ci si pone come i salvatori. È esattamente la stessa cosa, quella di Dio che inventa un divieto, che non significa niente, che non si sa da dove arriva, né perché, ma serve a questo, a potere costruire su questo divieto il crimine e quindi, a partire dal crimine, la salvezza.

Intervento: Anche le leggi ha un po’ questa funzione…

Anche le leggi, certo, però qui siamo di fronte a una questione ancora più radicale. È stato posto il peccato come originale, che si è trasmesso, in che modo non si sa bene, per cui tutti quanti nascono macchiati dal peccato originale. Senza il divieto non c’è redenzione, quindi Dio diventa inutile. C’è anche quest’altro aspetto, in effetti, della conoscenza, perché Dio non vuole che Adamo acquisisca la conoscenza. Perché non vuole?  Anzi, dovrebbe in teoria essere contento: acquisisce conoscenza, diventa più intelligente, più bravo, possiamo discutere; e, invece, no, l’unica conoscenza permessa è quella di Dio. Per cui è come se Dio avesse detto: ti amo se rimani ignorante come una zappa. Perché, se vogliamo attenerci a quello che si è detto a questo riguardo, del peccato originale, ci sarebbe la conoscenza e l’accesso alla conoscenza è vietato da Dio; quindi, deve rimanere ignorante, solo così viene amato da Dio. Ed è vero, perché l’unica conoscenza, lo dice Agostino, ma tutti quanti continuano a ripeterlo, l’unica conoscenza vera è quella di Dio. E, allora, ecco che la questione della salvezza diventa fondamentale: tutti nascono con il peccato ma possono salvarsi.  È questo che rende Dio necessario, il fatto che intervenga come il Salvatore. Infatti, Gesù Cristo, il Figlio, è il Salvatore. Salvatore da che? Da quel peccato, da quel crimine che è stato inventato appositamente. Come dicevo, il divieto è la condicio sine qua non di tutto quanto, ogni religione è soteriologica, è sempre e comunque una dottrina della salvezza. E il peccato più grave è quello di superbia, il volere sapere di più. Infatti, è il peccato originale, che ha meritato la cacciata dall’Eden. Una cacciata senza possibilità di appello, perché non li ha ripresi dopo, tu donna partorirai con dolore, tu uomo lavorerai con il sudore, ecc., tutto quanto è stato innescato dal divieto, senza quel divieto non si sarebbe innescato niente. Sulla questione della salvezza, della soteriologia, che riguarda ciascuna religione, naturalmente, Puech ha qui (Gnosticismo e manicheismo) scritto delle cose interessanti, questo studioso francese, studioso di gnosticismo, neoplatonismo, ecc. Qui dice che cos’è la gnosi e che cos’è il manicheismo. Che cos’è infatti la gnosi se non la conoscenza, come dice la parola stessa? La conoscenza nell’accezione assoluta del termine, più precisamente nel caso specifico una conoscenza che è in primo luogo conoscenza simultanea e reciproca di sé in Dio e di Dio in sé - è da qui che poi prese Hegel: io sono Dio e Dio è me - la quale conoscenza consente a chi la possiede, allo gnostico, di salvarsi, gli garantisce che può essere salvato, che lo sarà o addirittura che lo è già. Che cos’è una gnosi se non un sapere che non si rivolge soltanto ed esclusivamente alla ricerca della salvezza, ma che, rivelando l’uomo a se stesso e svelandogli compiutamente il segreto e il significato di tutte le cose, gli procura la salvezza? È già esso stesso, di per sé, salvezza. In effetti, questa idea è ripresa ancora oggi, il conoscere se stessi, andare a fondo, ecc. E che cos’è il manicheismo se non una religione che appunto pretende di fornire agli uomini o di suscitare in loro questa conoscenza salvifica? Come ogni gnosi, il manicheismo è sorto dall’angoscia insita nella stessa condizione umana. Qui ci sarebbe da dire qualcosa, perché questa angoscia verrebbe dalla non conoscenza, l’angoscia di fronte all’ignoto, di fronte all’infinito. È un tema che ricorre tantissimo ancora oggi, come se gli umani fossero angosciati dal fatto che esiste un infinito. Perché? La condizione nella quale è legato qua in terra, in seguito alla sua generazione, alla sua venuta al mondo, è sentito dall’uomo come estranea e intollerabile, sostanzialmente malvagia. Non è vero, questo è un retaggio cristiano, è il cristianesimo che vuole che sia così, e cioè che l’uomo provi questa angoscia in assenza della rivelazione, in assenza della salvezza. E c’è stato Søren Kierkegaard, un danese, nei primi anni dell’Ottocento, un teologo scrittore, che è annoverato, tra l’altro, nei manuali di filosofia, il quale ha scritto molto sull’angoscia. L’angoscia, secondo lui, che è un fervente cristiano, segue al fatto di non avere la fede, solo la fede salva dall’angoscia. Non ha alcun interesse la lettura di Kierkegaard, se non per il fatto che nelle sue opere descrive se stesso, cioè, descrive esattamente l’anima bella. Ed è insopportabile perché c’è un’arroganza mielosa, sdolcinata, di colui che sa tutte le cose, che si rende conto, che invece gli altri poveretti non sanno niente e il suo compito è quello di educarli. Dice così, Kierkegaard, nel saggio che si chiama Timore e tremore. Se non ci fosse nell’uomo una conoscenza eterna, se al fondo di tutto non ci fosse che una forza selvaggia ribollente, la quale torcendosi in oscure passioni tutto produce, sia ciò che è grande come ciò che è insignificante, se sotto ogni cosa si nascondesse un vuoto senza fondo, mai colmo, che altro sarebbe la vita se non disperazione? Qui sembra alludere a Anassimandro, l’indeterminato, l’πείρων, ecc.  Se questa fosse la situazione, se non ci fosse nessun sacro vincolo che unisse l’umanità, se le generazioni si susseguissero l’una dopo l’altra come le foglie dei boschi, se una generazione succedesse all’altra come nel bosco il canto degli uccelli… Qui sembra parlare di Democrito. …se l’umanità attraversasse il mondo come la nave attraversa il mare, come il vento il deserto, come un’azione vuota e sterile, se un oblio eterno sempre famelico spiasse la sua preda e non ci fosse forza alcuna per strapparmelo, come la vita non sarebbe allora vuota e sconsolata? Conclusione: ma perciò non è così. Questo è il modello dell’argomentazione dell’anima bella: se non ci fosse questo, tutto quanto, ecc., quindi, non è così. E poi dice ancora. La sua condizione attuale (dell’uomo) viene sentita come cattiva perché è una mescolanza, una commistura provvisoria ed anomala di spirito e materia, di bene e di male, di luce e di tenebra. E ancora. Aderire al manicheismo non significa altro che professare la doppia dottrina, i due dogmi strettamente connessi, i due principi o delle due radici o dei tre tempi o dei tre momenti dell’initium, del medium e della finis come, come li indicava Sant’Agostino. Da ultimo possiamo leggere questo. Il mito soteriologico permea il mito cosmologico ed antropologico al punto di confondervisi e di stabilire tra questi tre termini, universo, uomo, salvezza, uno stretto intreccio di corrispondenze, in apparenza complicate, ma in realtà lineari. Ogni episodio della formazione o del divenir del mondo implicherà un aspetto relativo la salvezza, di fronte a qualsiasi progresso del male emergerà un’occasione per riparare. Ci vuole sempre il male perché ci sia l’occasione per riparare. Esisterà un puntuale parallelismo tra le fasi successive dell’imprigionamento della luce e quello della sua liberazione nell’universo. La cosmogonia è soteriologia. Analoga corrispondenza tra l’imprigionamento e la liberazione della luce si ritroverà nell’uomo: anche l’antropologia è soteriologia. Potremmo aggiungere anche la psicologia, con tutti i suoi annessi e connessi. L’antropologia corrisponde alla cosmogonia nel senso che la creazione è la storia dell’uomo, ripercorreranno e torneranno a riprendere la genesi e il divenire dell’universo; vi sarà interconnessione e corrispondenza tra macrocosmo e microcosmo. /…/ Svincolare dall’universo e salvare nell’organismo umano questa sostanza luminosa costituirà di conseguenza un’unica operazione simultanea. L’operazione appunto, soteriologica, di salvezza. La domanda che si potrebbe fare: che cosa ha a che fare esattamente tutta la soteriologia con la teologia trinitaria? È una bella questione perché questa tripartizione è la tripartizione del segno. Noi non l’abbiamo mai visto con così tanta chiarezza, ma il segno è uno ma è trino. Si pensi a de Saussure: significante, significato e referente. Il segno è uno ma sono tre persone, tre momenti, dove, in effetti, il primo, il Padre, è l’ineffabile, ciò che non si può dire. E che cos’è che non si può dire senza il Figlio, cioè, senza il Verbo? Il significante perché, dicendo il significante dico il significato, e per dire il significato devo dire significanti. E che cos’è che tiene insieme queste cose se non lo Spirito? Qui parla sempre di Spirito, lui usa il termine latino mens. Mens significa anche spirito, ma in latino significa soprattutto l’intelletto, sarebbe il corrispettivo greco di nous, l’intelletto, l’intelligenza, la capacità intellettuale. Dunque, la tripartizione del segno è una questione interessante perché si è sempre posta, potremmo dire da Agostino, ma già prima, già con Plotino in fondo c’era una tripartizione: Uno, Intelletto e Anima. La necessità di questa tripartizione – ci si chiedeva qualche tempo fa - è poi, in fondo, la necessità del segno. Possiamo porla così: il segno – significante, significato, referente – ha nel referente, la sua garanzia, perché io dico qualcosa, pronuncio una parola, il significante, immagine acustica, come diceva de Saussure; questa cosa ha un significato, significa qualche cosa, ma queste due cose sono garantite da che cosa? Per de Saussure dall’alberello, cioè, dalla realtà, dalla verità. È qui sta la questione interessante, perché questa realtà, questa verità, questo terzo che poi determina la tripartizione, è quella cosa che consente ai primi due elementi, cioè significante e significato di avere un aggancio con qualcosa. Ma nella teoria del segno di Agostino - in fondo tutto il De Trinitate è una teoria del segno - è lo Spirito Santo la relazione, che lui chiama amore. L’amore è una relazione, tiene unite le cose e lo Spirito è ciò che tiene unito il significante con il significato. Sì, certo, significante significato, ma come faccio a sapere che queste cose stanno dicendo la verità? Come sappiamo già dal De Magistro, lo vedremo ancora nel De doctrina cristiana, lui sa che non bastano, perché il significante e il significato non sono garantiti da niente. Dopo tutto, chi garantisce che un certo significato sia il significato di quel significante? Per Platone, sì, è una convenzione, certamente, e in parte la accoglie anche Agostino - abbiamo imparato a pensare così, e va bene -, però, questa non è una garanzia. E, allora, ecco il terzo elemento: l’alberello di de Saussure, in Agostino è Dio, è la verità, la verità assoluta è Dio. È Dio che garantisce che funzioni la tripartizione, e che, cioè, il significante e il significato dicano veramente le cose come stanno, dicano la verità. Ora, tutta la semiotica potremmo dire che è fondata sulla tripartizione del segno. Ma, a una più attenta riflessione, ci si accorge che questa tripartizione era già presente in Platone. Per Platone l’idea sta lassù, identica a sé, ecc., ma quaggiù cosa abbiamo? Abbiamo la cosa e quello che questa cosa rappresenta, il suo significato, che non vorrebbe dire nulla se non ci fosse lassù l’idea che garantisce che questo, per esempio, è effettivamente un libro. L’idea poi è diventata Dio. Allora, se questo è il problema del linguaggio - perché il problema è il linguaggio - è che dicendo dico qualcosa, e cioè che il significante, per potere essere detto, deve essere detto in quanto ha significato, sennò non significa niente. Quindi, dicendo i significanti in realtà sto dicendo il significato. Ma come faccio a dire i significati se non attraverso significanti, attraverso parole? Il problema - Agostino questo l’ha intravisto perché con troppa pervicacia lui insiste sul fatto che queste tre persone sono una, e cioè che il segno è uno ma è trino – sta nel fatto che la parola, così come accade, comporta un crimine, cioè, mente, inganna, perché dicendo una cosa ne dice un’altra: per dire un significante devo dire il significato. Il crimine, da cui occorre alla fine essere salvati è il linguaggio. Tutto il De Trinitate è una costruzione enorme, faraonica, messa in piedi al solo scopo di salvare, sì, dal crimine, certo, ma quale crimine? Il vero problema è il linguaggio, è lì che sta l’impossibile, è lì che sta l’impossibilità di gestire, di dire come stanno le cose. E, allora, si può pensare a questo punto che buona parte della Patristica sia stato un tentativo di rispondere a questo crimine. Perché è come se Dio avesse cacciato Adamo ed Eva perché volevano sapere come è fatto il linguaggio, di cosa è fatta la parola; che altro potevano volere sapere? Ma questo non si deve, non si può fare. Farlo significa trovarsi di fronte a tutte quelle cose che temeva fortissimamente Kierkegaard: il vuoto, il nulla, che provoca l’angoscia, ma provoca l’angoscia nel momento in cui ci si aspetta che non sia così, sennò che angoscia devo provare? Non esiste un senso nelle cose. Va bene, certo che non c’è, lo creo io di volta in volta che parlo, qual è il problema? No, invece, deve essere un problema gravissimo, carico di angoscia, carico di ansia, di timore, di tremore. Il problema, dunque, è quello del linguaggio, e la teoria del segno appare essere un tentativo di rimediare a questo problema del linguaggio. Problema che aveva ben visto Aristotele: l’ντελχεια non è il terzo elemento, l’ντελχεια è il compimento di significante e di significato, in quanto compiuti, in quanto sono la stessa cosa; mentre, in tutta la semiotica fino ad oggi, il terzo elemento è quello che dà un senso a tutto; in fondo, il terzo elemento anche in Peirce è la δόξα, che dovrebbe a ritroso dare un senso a tutto quanto; ma non è così in Aristotele. La salvezza, tutta la soteriologia è sempre un ritorno: si parla, parlando si commette il crimine, e il crimine è quello che il significante non può dire se stesso se non come significato, e allora ecco che interviene la verità, interviene Dio e a questo punto riconduce al significante provvedendolo di un significato stabile, certo. Che è esattamente quello che fa Hegel con la dialettica: in sé e per sé e poi, attraverso l’Aufhebung, torna sull’in sé, e allora lo garantisce, diventa il tutto; infatti, lui lo chiama lo Spirito assoluto, diventa l’assoluto; cosa che in Aristotele non c’è, neanche nei presocratici naturalmente. Quindi, dicevo, il crimine sta nell’atto di parola, nel cominciare a parlare: parlando avviene il crimine, cioè, avviene che ciò che dico è un’altra cosa, è sempre un’altra cosa. L’unico rimedio è fare in modo che da quest’altra cosa che compare si possa tornare al primo elemento confermandolo, rassicurandolo e, soprattutto, rendendolo assoluto. Mentre in Aristotele e in ciò che andiamo dicendo non c’è questo ritorno, non c’è mai, non si torna da nessuna parte, perché ciò a cui si vorrebbe o si dovrebbe ritornare propriamente non è mai accaduto, perché è sempre stato in divenire. E questo è ciò che tenta di fare Agostino nel De Trinitate: mostrare che queste tre persone ci sono, sono separate e sono necessarie tutte e tre perché senza lo Spirito, che è quello che tiene insieme, che dà un senso a tutto, il Padre e il Figlio si separano, non ci garantisce più la loro unione. Che è esattamente quello che fa nella semiotica, anche contemporanea, il terzo elemento, può essere l’alberello di de Saussure o qualunque altra cosa, e cioè il referente. Il referente è ciò a cui da ultimo ci si riferisce per sapere che cos’è veramente. Il significante dice, il significato dà sì un significato, ma chi mi dice che le cose stanno veramente così è il referente, l’alberello, Dio in tutta la patristica. E, in effetti, soltanto lui può garantire una cosa del genere, che non ha garanzia naturalmente, soltanto questa idea di ritorno a qualcosa di assoluto. Perché il percorso è questo: c’è qualcosa che non si può dire, perché non posso dire il significante perché dicendolo dico un significato, così come non posso dire il significato perché dicendolo dico un significante; ma dicendo significante, che non posso dire, ciò che dico è il significato, quindi, e necessario che questo significato possa in qualche modo ritornare sul significante e fissarlo, fermarlo, renderlo assoluto, renderlo quello che è. È una questione complicata, mi rendo conto, è tutt’altro che semplice, ma vale la pena interrogarsi sulla semiotica, perché la semiotica dopotutto è una delle discipline che a tutt’oggi ha un maggiore seguito, tutti parlano del segno. Il segno, sì, certo, se consideriamo il segno soltanto come un rinvio, va bene; ma se consideriamo il segno come tripartizione, ecco che allora le cose si complicano, perché questo terzo elemento, non solo non c’è, ma non ha nessun motivo di esistere. Soltanto se prendo atto di questo, per cui il significante non si può dire ma si dice solo il significato, se lo prendo come un crimine, solo allora mi serve il terzo elemento per emendarlo, cioè, per redimerlo dal crimine. Costruendoci su tutta la soteriologia, naturalmente. Il significante, dicendosi, diviene, si altera, diventa altro, quindi, non so mai che cosa sto dicendo esattamente, anche se sono continuamente preso dalle parole che dico. Dunque, il crimine, e il divieto è quello di non interrogare il linguaggio; infatti, il divieto riguarda la conoscenza: non devi interrogare oltre. Per Aristotele era solo un suggerimento, cioè, è inutile che interroghi la δόξα perché troverai altra δόξα, e va bene, ma già per Platone non è così, per Platone c’è il divieto: non devi interrogare oltre, perché lui si rendeva benissimo conto che se uno incomincia a interrogare, questa storia delle idee non sta in piedi: chi te l’ha detto che c’è questa idea? Da dove arriva? La stessa cosa per Plotino, con lui il divieto è ancora più tassativo: guai a domandare; la stessa cosa con il cristianesimo: guai a domandare, guai a cercare la sapienza, guai a volere sapere di che cosa è fatto il linguaggio. Perché, in fondo, volere sapere di cosa è fatto il linguaggio significa volere sapere di cosa è fatto Dio, cioè, di niente. Ecco, allora, la cacciata dall’Eden: tu non devi conoscere, non devi sapere. Che cos’è però che ha fatto sì che tutta questa storia avesse un così grande successo? Perché quello che dice la Bibbia, di per sé, è folkloristico, non è niente di che, si contraddice ininterrottamente, dice un sacco di insulsaggini. Ma c’è un aspetto che ci fa vedere come si è veramente costruita la religione. Lo abbiamo avuto sott’occhio qualche anno fa con l’epidemia. In questo caso abbiamo potuto assistere in piccolo - d’altra parte anche il cristianesimo è nato piccolo, erano quattro gatti, anche se scalmanati – a come si è costruito: dando a ciascuno, fornendo a ciascuno una verità da imporre sull’altro. Io ricordo delle scene emblematiche, le ho viste, di una commessa di un supermercato, persone che non erano assolutamente nessuno, caricata di un potere, di potere decidere chi deve entrare e chi non deve entrare, ed era tutta tronfia di questo potere che aveva. La stessa cosa mi è capitata in un ufficio postale con un impiegato delle poste, lo stesso: questa arroganza, questa supponenza di chi pensa di avere la verità e, quindi, di poterla imporre. Un’altra cosa mi è stata raccontata: un tizio se ne andava in giro senza mascherina, uno gli si avvicina e gli dà dell’ignorante perché non si metteva la mascherina, quindi, non possedeva questa verità che invece lui possedeva. Si rende conto del potere che questa storia qui ha dato alle persone, potere che non hanno mai avuto in vita loro, e che non avranno mai più, ma in quel momento hanno goduto di un potere enorme, perché tutto lo Stato era alle loro spalle e le sosteneva: la delazione, le telefonate, quello che telefonava perché ha visto uno correre da solo sul lungomare. La questione è quella che già poneva Paolo, perché anche lui già incomincia a porre questa cosa: dare un potere enorme alle persone, nel caso della religione un potere eterno, che non svanisce come nel caso dell’epidemia. Però, l’epidemia, questo momento storico, ha messo veramente in luce, ma si intravedeva sin dall’inizio che era l’avvio di un qualcosa di religioso, e cioè offrire a ciascuno l’opportunità di potere giudicare, colpire, deprecare il suo prossimo, con verità. Con verità perché questa verità è fornita da una supposta scienza, poi diffusa attraverso la televisione, ecc. Lì, in piccolo, si è intravisto il nascere della religione, come fa una religione a prendere piede. La più parte delle persone era assolutamente convinta che le cose stessero come diceva la televisione, nessuno si interrogava. Interrogarsi sarebbe valsa l’eventualità di perdere questo potere: il potere di telefonare alla Guardia nazionale, se vedevo uno in giro senza la mascherina, il potere di bloccare quell’altro, ecc. Si vedevano queste persone pronte, eccitatissime da questa nuova situazione, per loro insperata, naturalmente, perché personaggi insignificanti, che però per una volta nella loro vita all’improvviso erano diventati importanti. Ecco come nasce la religione. Se questa cosa, anziché essere per un periodo limitato, è portata all’eternità, ecco che il gioco è fatto. Anche se ora non c’è più l’influenza, rimane la questione della scienza. Lo dice la scienza, ancora oggi è questo che si afferma: lo dice la scienza. Che non è altro che una trasposizione della parola di Dio, del Verbo: la Bibbia ha detto così, quindi, è così; la scienza ha detto così, quindi, è così. Questo è l’impianto della religione, l’ossatura, potremmo dire, di qualunque religione. E qual è il crimine, qual era il crimine al tempo del Covid? Metterlo in discussione. Ecco la cacciata. Difatti, alcune persone venivano in alcuni casi letteralmente cacciate, per esempio, da uno studio televisivo perché non erano d’accordo. Era la cacciata dall’Eden, che non è mai esistita, ma è esistita nella fantasia popolare. Quelli che ponevano qualche obiezione, qualche dubbio, venivano cacciati e accusati di anti scientismo, cioè, gli eretici, quelli che non credono in Dio. Gli scritti della Bibbia non sono neanche dei miti, sono, potremmo dire, folklore locale di allora, che esisteva in quell’area geografica compresa tra la Palestina, la Galilea, la Samaria e la Siria, in quell’area, cose che si tramandavano, ecc. Poi, a un certo punto, messo insieme tutto quanto, si è pensato a qualcosa che doveva esserci, qualcosa di assoluto, perché soltanto se è assoluto non può essere messo in discussione. Gli dei dei greci erano dei giocherelloni, quasi dei supereroi, umani ma con dei superpoteri, ecc., ma mancava, lo abbiamo detto tante volte, l’idea dell’assoluto che, invece si è posta poi in modo categorico e forte con Plotino, è lui che l’ha costruita, pezzo per pezzo. Perché questo Dio, così come viene descritto, dicevo all’inizio, Nella Bibbia, soprattutto nel primo libro, nel Pentateuco, la Genesi, sembra quasi una macchietta da avanspettacolo, un personaggio da operetta, che si arrabbia, si scaglia, poi si contraddice, dice una cosa, poi ne dice un’altra, è permaloso, è geloso. Lo dice lui stesso che è geloso dell’uomo: non vuole che l’uomo si distragga da lui, lui deve essere il centro del pensiero di tutti, sempre.

Intervento: Diciamo che esiste il paradiso. Cosa fa tutto il giorno?

Contempla Dio, contempla la verità, il bene assoluto. Naturalmente, questo bene deve essere un assoluto, cioè non deve essere argomentato. Il bene è ciò a cui ciascuno tende, ma che cosa sia poi di fatto non si è mai saputo e non si può sapere chiaramente, proprio perché è un significante che ha un’infinità di significati. Agostino parla dell’amore, che poi riprende da una citazione dall’anonimo autore dell’Imitatio Christi: l’amore è l’inclinazione al bene; ciascuno tende verso il bene e questo tendere verso il bene è l’amore. Ma non sappiamo che cos’è il bene. E, allora, ecco: cos’è il bene? È Dio. È diventato il bene assoluto. Infatti, non è un caso che la Bibbia fosse messa all’indice, cioè, non era possibile leggerla. Si poteva leggere solo la Bibbia nella versione ufficiale del cristianesimo, cioè quella emendata. Lo abbiamo visto anche in Filone. Qual è il motivo fondamentale? Il motivo fondamentale di tutta l’esegesi biblica è il fatto che tutte le cose che vanno contro ciò che io voglio devono essere cambiate, devono essere emendate, devono essere sostituite con qualche cosa che a me piace. Quando si trova un versetto della Bibbia che va contro la morale o quello che si crede, ecc., ecco che allora vuole dire che questa cosa è stata detta in senso traslato, in senso allegorico e, quindi, va trasposta. Tutto quanto nelle parole divine non può essere riportato, secondo il senso proprio, né all’onestà dei costumi né alla purezza della fede va riconosciuto come espresso in forma figurata, dove l’onestà dei costumi attiene all’amore di Dio, del prossimo e alla purezza della fede e alla conoscenza di Dio e del prossimo, va emendato. Lo dice, però lo dice in modo traslato e va quindi interpretato. Ecco fatto, risolto il problema. È un marchingegno già avviato con Filone, lo avevamo visto, l’esegesi biblica è questo: togliere tutte quelle cose che incrinano, minano la certezza della fede e porle come allegorie, che significano un’altra cosa, che è quella che voglio io. Su tutto ciò si è costruito il pensiero occidentale, quello con cui abbiamo a che fare quotidianamente.

Intervento: Una volta lei disse “attenzione alle persone che vogliono fare del bene”.

Sì e dicevo bene, perché quelle che vogliono fare il bene sono le anime belle, quelle che presumono di sapere che cos’è il bene assoluto e, quindi, devono costringere l’altro ad attenersi a ciò che loro hanno deciso essere il vero.