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27-8-2014

 

Łukasiewicz sta mostrando che il principio di non contraddizione non è dimostrabile. Allora si rivolge al principio “ultimo”: il principio di identità non è definitivo perché lo si può dimostrare in base a un altro principio che ne è la ragione, tale principio è la definizione di giudizio vero, che lui mette come principio ultimo: il giudizio vero. È vero il giudizio affermativo che attribuisce a un oggetto tale attributo che esso possiede. Da questo risulta direttamente che se un oggetto possiede un attributo allora è vero che lo possiede quindi lo possiede, se non lo possiede il contrario, queste proposizioni sono vere perché io appunto, in questo modo, definisco la verità, e sottolineo definisco la verità, dunque il principio di identità non è ultimo ma lo è la definizione di giudizio vero, sul quale si fonda questo principio. Non ha detto perché questa è la verità ma che questo è il modo in cui definisco la verità. Che è diverso. Esaminiamo questa affermazione in modo più preciso, come ogni definizione anche quella di giudizio vero è un giudizio individuale, ogni definizione infatti comprende in modo palese o nascosto una parola che attesta un fatto individuale “definisco” “chiamo” “contrassegno” “intendo “eccetera, ad esempio per giudizio vero intendo un giudizio affermativo che attribuisce a un oggetto un attributo che esso possiede oppure contrassegno con la lettera c la relazione di inerenza p a c, oppure … eccetera. Le parole “contrassegno” “chiamo” “intendo” eccetera si possono omettere quando le proposizioni in cui figurano sono sufficientemente chiare come avviene nelle definizioni, di conseguenza invece di dire “per giudizio vero intendo eccetera “dico in breve” “è vero il giudizio affermativo che … eccetera”. In Aristotele troviamo un brano che sembra una formulazione del principio di identità mentre invece è solo la definizione di giudizio vero. Dice Aristotele (Metafisica) “vero è dire che l’Essere è e che il non Essere non è”. Secondo Lukasievicz questo è soltanto un giudizio, la definizione di giudizio vero. Bisogna distinguere la definizione dal principio che ne risulta, la definizione è sempre un giudizio individuale attestante il fatto che qualcuno determina, designa, nomina in qualche modo un dato oggetto, il principio fondato sulla definizione è sempre un giudizio generale il quale nell’oggetto definito ritrova l’attributo che gli è stato assegnato dalla definizione. Ora ogni definizione è un giudizio vero poiché attribuisce all’autore della definizione l’attributo che gli spetta, chi infatti scrive o afferma “per cerchio intendo una linea curva oppure designo con la lettera c il rapporto di inerenza p a c, costui crea il fatto di cui parla o di cui scrive, nello stesso pronunciare o nelle scrivere queste parole egli afferma infatti di intendere per cerchio una linea curva, a questo punto però sorge un’obiezione, l’autore della definizione potrebbe mentire e pure definendo il cerchio come una linea curva potrebbe essere convinto che esso sia tutt’altra cosa, ammetto che simili casi possano capitare ma lo scopo delle definizioni non è quello di esprimere degli atti di convinzione o delle decisioni di volontà, come vogliono alcuni, bensì di stabilire il significato delle parole o di qualsiasi altro tipo di segni concepibili tramite i sensi per rendere possibile una reciproca comunicazione e per cogliere i fatti della realtà. Le parole “intendo” “designo” “determino” eccetera bisogna sempre riferirle ai segni ovvero alle proposizioni che le contengono non agli atti psichici, in questo modo ogni definizione si riferisce al “fatto” che essa stessa produce e contiene, per questo ogni definizione è vera. Qui in effetti c’è un problemino rispetto a ciò che ha detto un attimo fa rispetto alla realtà, la realtà dovrebbe essere una, la stessa, uguale, mentre dice a questo punto che ogni definizione “si riferisce al fatto che essa stessa produce e contiene” però la definizione è un atto linguistico, è una proposizione per lo più, quindi il “fatto” che essa produce non è la realtà perché ciò che produce una definizione non può essere la realtà, una definizione non può produrre ex nihilo la realtà, quindi qui non si capisce bene perché sembra apparentemente contraddittorio, attenendoci alla nozione di contraddittorietà classica. La definizione di giudizio vero è un principio ultimo perché è vera di per sé e non è dimostrabile in base a un altro giudizio. Q(e questo in effetti è coerente con ciò che diceva prima. Torno a leggere il passo di prima: in questo modo ogni definizione si riferisce al “fatto” che essa stessa produce e contiene perciò ogni definizione è vera. Se io definisco che questa penna è nera, lo definisco, allora se affermo che questa penna è nera, affermo una cosa vera. Se io defissi questa penna come un portafoglio, se questa fosse la definizione allora affermare che questa cosa qui è un portafoglio è un’affermazione vera.  Poi però dice: per giudizio vero intendo un giudizio che attribuisce a un dato oggetto un attributo che esso possiede, allora si attribuisce la proprietà di “intendere qualcosa” attraverso il giudizio vero, ed egli (l’oggetto) effettivamente possiede quella proprietà poiché stabilisce ciò attraverso l’enunciazione stessa della definizione. Qui sembra che questa cosa non sia più una produzione della definizione, ma la definizione un effetto della cosa. C’è una continua oscillazione tra considerare l’eventualità che la definizione produca ciò stesso che definisce e dall’altra parte invece la considerazione che la definizione rilevi un attributo che l’oggetto possiede. Ora il giudizio vero però lui lo pone come giudizio ultimo, quindi attribuisce di fatto a un qualche cosa che è una definizione pura e semplice, l’attributo di essere il principio ultimo, che è molto interessante perché a questo punto non ponendo più il principio di non contraddizione come principio ultimo, perché lui dice che non è dimostrabile, allora il principio ultimo deve essere un giudizio vero. Però la domanda che sorge è come faccio a sapere che è vero? Per la definizione. Lui considera anche che i giudizi come “tuona” oppure “ho mal di testa” non sono dimostrabili, il che li fa somigliare al principio ultimo, tuttavia se ne differenziano per il fatto che non sono veri di per sé, non attestano dei fatti che essi stessi includono ma si riferiscono a fenomeni esistenti al di fuori di essi. Cosa che è singolare, adesso facciamo a lui quello che lui fa ad Aristotele. Dice “non attestano dei fatti che essi stessi includono ma si riferiscono a fenomeni esistenti al di fuori di essi”, la definizione, se si riferisce all’oggetto o più propriamente a una proprietà che esso possiede allora questo giudizio si riferisce a qualcosa che è esterno a se stessa, quindi non sarebbe ultimo perché ultima sarebbe la realtà. Infatti uno dei motivi per cui non accoglie il principio di non contraddizione è che: la verità di questa relazione, tra ciò che si afferma e la proprietà dell’oggetto eccetera, non sta in sé stessa ma esige incondizionatamente una prova, perfino quei filosofi che ritengono ovvio il principio di contraddizione fondano la sua verità non su di esso, bensì sull’evidenza ossia su un fatto psichico che percepiscono di fronte a tale principio. Il principio di contraddizione dunque non è ultimo e chiunque lo accetti oppure voglia convincere altri ad ammetterlo deve dimostrarlo. Ma questa cosa secondo lui non si può fare. Adesso considera un altro aspetto, cioè le dimostrazioni elenctiche di Aristotele: Nessuno più di Aristotele ha avvertito il bisogno di dimostrare il principio di contraddizione, tuttavia egli non sapeva né poteva conciliare questa sua esigenza con la convinzione che questo principio in quanto definitivo non è dimostrabile, egli si trovò in una situazione imbarazzante si contraddisse proprio riflettendo sul principio di contraddizione. Il modo per uscire da simili situazioni è noto, bisogna cercare una distinzione verbale capace di velare la contraddizione sottesa. Anche in questo caso Aristotele è stato salvato da una parola ossia dall’avverbio “elencticos”, il principio di contraddizione non è dimostrabile e le sue uniche prove sono quelle elenctiche, confutative. Che non sono vere e proprie dimostrazioni (le vere e proprie dimostrazioni sono quelle sillogistiche) dunque che cosa distingue la dimostrazione elenctica da quella vera e propria? Vediamo che cosa dice Aristotele al proposito, che la differenza fra la dimostrazione elenctica e la dimostrazione vera e propria consiste in questo che se uno volesse dimostrare il principio di contraddizione in modo diretto cadrebbe palesemente in una petizione di principio, invece se la causa di questo fosse altro allora si tratterebbe di un elenco, cioè di una confutazione non di una dimostrazione. Se io voglio dimostrare il principio di non contraddizione direttamente devo utilizzarlo, perché devo affermare che affermando quello che affermo escludo quello che non affermo, cioè quello che nego, e quindi dovrei includere il principio di non contraddizione nella dimostrazione stessa, per aggirare questo allora fa una dimostrazione confutativa, che però dice giustamente Łukasiewicz non è una dimostrazione vera e propria. Il senso di queste parole mi sembra essere il seguente chi dimostra il principio di contraddizione in modo diretto lo dimostra male perché compie una petitio principi (che è nota in retorica cioè l’utilizzo all’interno di una dimostrazione di ciò stesso che si vuole dimostrare) se invece qualcun altro commette questo errore allora è possibile la dimostrazione elenctica e tutto sembra corretto. In poche parole la dimostrazione elenctica si distingue da quella vera e propria per il fatto che la prima è valida e la seconda no, cioè non è una dimostrazione. Ma l’autorità di Aristotele continua tutt’ora ad essere così rilevante che anche i commentatori più recenti invece di scorgervi un mero sotterfugio tengono in grande considerazione questi ragionamenti. (Poi dice vediamo cosa intende Aristotele per “elencos”). Elencos è un sillogismo con conclusione contraddittoria rispetto alla tesi posta, un simile sillogismo si forma quando l’avversario è indotto a riconoscere dei giudizi da cui deriva una conseguenza contraddittoria rispetto alla tesi da lui difesa. (è un’inferenza di tipo formale del “modus ponens”) Aristotele dimostra il principio di contraddizione non soltanto in modo elenctico ma anche in modo apagogico: la prova apagogica si forma allor quando come punto di partenza della dimostrazione si assume una proposizione contraddittoria con la tesi data, per dimostrare in seguito che da essa derivano conseguenze sillogisticamente assurde, dalla falsità delle conseguenze si deduce poi la falsità del punto di partenza della dimostrazione, così che risulta vera la tesi che la contraddice. La differenza fra la dimostrazione elenctica e quella apagogica è estremamente importante specialmente per la nostra questione, precisiamola: la dimostrazione elenctica di un dato giudizio b consiste nella ricerca di una premessa a, (eventualmente di due premesse come il sillogismo premessa maggiore e premessa minore) premessa a dunque che costituisce la ragione della conclusione b, in seguito viene attestata la verità della premessa a e l’avversario viene indotto a riconoscere b, chi riconosce la premessa deve riconoscerne pure la conclusione, (è il modus ponendo ponens della logica medioevale che dice se a allora b, ma a, dunque b. È un ragionamento modo ponendo, noto dalla logica formale. La dimostrazione apagogica del giudizio b, inizia con una momentanea supposizione di falsità del giudizio b e di conseguente falsità del giudizio a, che ne è la premessa, in seguito si attesta che a dispetto della conclusione il giudizio a è vero e l’avversario viene indotto a riconoscerlo cioè a negare la conclusione dedotta, chi però contraddice la conclusione non può ammettere la premessa e deve riconoscere che in tal caso il giudizio b non è falso (sarebbe il modus tollendo tollens, cioè se a allora b, ma non b, dunque non a. Infatti dice “modo tollendo” noto alla logica formale, che è il principio induttivo che è quello su cui si fonda tutta la teoria di Popper sulla falsificabilità): Alla fine la dimostrazione elenctica e apagogica si riducono a queste due forme di ragionamento (il modus ponens e il modus tollens) ora il dedurre attraverso il modus ponens non si fonda sul principio di contraddizione a meno che qualcuno usasse questo principio dimostrando il rapporto tra la premessa a e la conclusione b, invece il dedurre “modus tollens” presuppone sempre il principio di contraddizione come ci convinceremo più avanti, chi volesse dimostrare questo principio in modo apagogico commetterebbe per dirla con Aristotele una petitio principi (come dicevamo prima) e senz’altro non potrebbe convincere l’avversario. Quindi dice Łukasiewicz, se uso il modus ponens questo non fa uso del principio di non contraddizione quindi non serve per dimostrare le verità del principio di non contraddizione, se uso invece il modus tollens questo potrebbe dimostrarlo però ricadiamo nel problema di prima, e cioè è una petizione di principio, perché devo usare il principio di non contraddizione per dimostrare che è vera una tesi che afferma la verità del principio di non contraddizione. Il principio di contraddizione è l’essenza delle cose (qui vedremo che Aristotele si aggancia alla nozione di “essenza”.) La dimostrazione elenctica qui è connessa alla nozione di essenza e di sostanza, anche qui il punto di partenza è costituito dalla definizione, Aristotele richiede all’avversario di dire una parola, e di definirne il significato, la parola deve però significare una determinata cosa poiché leggiamo (Metafisica): il non avere un determinato significato equivale a non avere alcun significato, e se le parole non hanno alcun significato allora non ha luogo neppure la possibilità di parlare e comunicare reciprocamente. Questa affermazione di Aristotele è falsa. Come ha mostrato tutta la semiotica, Greimas per esempio, dove le parole non hanno un significato ma sono una rete, una connessione di significati. Cioè “è falsa” rispetto alle affermazioni della semiotica per esempio. Il brano seguente precisa cosa intendeva Aristotele nel dire che la parola deve significare un qualcosa di determinato: Supponiamo che uomo abbia un significato determinato e stabiliamo che questo sia “animale bipede” (non si accorge che dice “stabiliamo” non dice che “è”, ma “stabiliamo”) e affermando che ha un significato determinato intendo dire quanto segue:  se il termine “uomo” significa quanto si è detto (e cioè ciò che lui ha stabilito) ogni volta ci sia qualche cosa che è uomo questo dovrà essere ciò che s’è detto essere l’essenza dell’uomo” (qui c’è un passaggio che si potrebbe anche non essere d’accordo nel seguire, perché lui a un certo punto fa questo passaggio tra la definizione “io stabilisco che …” e poi passa all’Essere, all’essenza, e questo a Łukasiewicz sfugge. Aristotele adopera le parole “t nθroωpω enai” per significare l’essenza dell’uomo la quale è una, immutabile, distinta dalla materia, impossibile da cogliere con i sensi, accessibile alla conoscenza solo per mezzo di un concetto. Significare una cosa determinata vuole dire “significare l’essenza concettuale” di un dato oggetto (come dire che tutta la semantica di Aristotele è fondata sulla metafisica) una parola è dotata di significato solo quando vi identifica in modo determinato una cosa nella sua essenza, si chiama “uomo” una cosa che nella sua essenza potrebbe essere anche una parete o una nave, non usa la parola uomo in modo determinato ed ogni comunicazione di nuovo con lui risulta impossibile, infatti l’essenza di ogni oggetto è una cosa sola, questa proposizione che non viene formulata in modo preciso da Aristotele sta alla base di tutta la seguente dimostrazione (Metafisica): Rimanga dunque stabilito che il nome esprime un determinato e unico significato. Ciò posto allora non è possibile che l’essenza di uomo significhi la stessa cosa di ciò che non è l’essenza di uomo, ammesso evidentemente che uomo significhi una determinata cosa (sì, bisogna ammetterlo) non sarà possibile che la stessa cosa sia e non sia uomo, se non per omonimia, come se poniamo quello che noi denominiamo “uomo” altri lo denominassero “non uomo”, ma il problema di cui ci stiamo occupando non è se sia possibile che la medesima cosa sia o non sia uomo quanto al nome ma quanto alla cosa stessa. Ora dice Łukasiewicz: questa dimostrazione non è formulata in modo chiaro e preciso, intendo per prima precisarla ed esprimerla. La premessa dice che la parola “p” significa qualche cosa ovvero che denota un certo oggetto, (denota) l’avversario che non ammette il principio di contraddizione viene costretto a riconoscerla pronunciando una parola significante (cioè che ha un significato), egli deve farlo se vuole discutere, se così avverrà si daranno le condizioni per la prova elenctica essa è composta dal sillogismo condizionale del ragionamento modus ponens. /…/ se una parola non significa una cosa determinata nella sua essenza essa non significa niente cioè cessa la possibilità di comunicare, questa sarebbe la dimostrazione della prima premessa in Aristotele. Seconda premessa: se una parola significa una cosa che nella sua essenza è c e non è c, nello stesso tempo, allora essa non significa una determinata cosa nella sua essenza (cioè dice: o è questo o non lo è), l’essere uomo nella sua essenza significa infatti un’altra cosa del non essere uomo, (ovviamente e, dice Łukasiewicz, questo ragionamento non è senz’altro convincente ): le parole possono avere un significato pur non significando una cosa determinata nella sua essenza, supponiamo ad esempio che la parola “ippocentauro” significhi un essere animato il quale è uomo e nello stesso tempo non è uomo bensì un cavallo, questa parola pur significando qualcosa di inesistente non è priva di significato, ognuno infatti comprende il significato di “ippocentauro” e addirittura deve comprenderlo per potere dire che una tale creatura è solo frutto dell’immaginazione, d’altronde è errata la posizione che Aristotele sembra sostenere o che gli viene di solito attribuita, secondo cui le parole dotate di un significato non possono significare degli oggetti contraddittori dovendo essere definite in modo univoco. L’espressione il quadrato costruito mediante regolo e compasso dalla superficie pari a quella di un cerchio del raggio 1, indubbiamente è definita in modo univoco e dotata di un significato pur significando un oggetto dai caratteri contraddittori. Poi dice che il linguaggio umano potrebbe anche infatti riprodurre la realtà in un modo inesatto, insomma sta smontando l’argomentazione di Aristotele, un altro modo per dire che anche questa prova di Aristotele non regge. La seconda dimostrazione del principio di contraddizione si fonda dunque sul concetto di sostanza (l’avevamo visto prima il passo di Aristotele sulla sostanza). Che Aristotele abbia scelto una tale dimostrazione è legato non solo a sue idee metafisiche ma probabilmente anche alla sua polemica con i megarici, questi ultimi infatti negando la differenza tra sostanza e accidente non ammettevano il principio di contraddizione, dicevano che Socrate era uomo e non era uomo nelle stesso tempo poiché era bianco, era colto e essere bianchi ossia essere “del bianco” significa non essere uomo. Aristotele ha cercato di dimostrare che l’avere un accidente cioè “bianco” significava altra cosa dall’essere bianchi nella propria essenza ossia essere “del bianco”. Ogni oggetto può possedere tanti accidenti e non vi è nulla di contraddittorio ma l’essenza o la sostanza di ogni oggetto deve essere una e non può contenere contraddizione alcuna. Qui Łukasiewicz passa oltre perché comunque la questione della sostanza è metafisica e quindi non lo interessa più di tanto. Quindi riassume le prime tre obiezioni. La prima dimostra che la prova di Aristotele non giustifica il principio di contraddizione in quanto principio universale, la seconda afferma che questa prova non giustifica il principio di contraddizione quale legge logicamente sicura, la terza rileva un errore formale nella dimostrazione. Tutte queste obiezioni prese insieme testimoniano che anche la seconda prova elenctica di Aristotele non è convincente. Passiamo alle prove apagogiche: Come sappiamo la prova apagogica consiste in un ragionamento modo tollendo, il cui schema si può rappresentare nel modo seguente: se il giudizio b è falso allora è falso il giudizio a, il giudizio a non è falso quindi il giudizio b non è falso, ossia è vero. Ogni ragionamento di questo tipo suppone il principio di contraddizione. Quando conclude per esempio il giudizio b non è falso quindi è vero, presuppone il principio di non contraddizione. Questo è fondamentalmente il motivo per cui scarta la prova apagogica, ne elenca tre però tutte quante vertono sulla stessa questione per cui potremmo proseguire, anche la “ignoratio elenchi” cioè la rimozione del principio di non contraddizione. Caratteristiche delle prove di Aristotele. Nell’esaminare le prove aristoteliche del principio di contraddizione bisogna sempre ricordare che queste hanno un carattere marcatamente polemico. Infatti la seconda prova elenctica basata sul concetto di sostanza è rivolta, come suppone giustamente Maier contro i megarici i quali non ammettevano la differenza tra sostanza e accidenti (come abbiamo visto un attimo fa) ma indubbiamente Aristotele ha lottato per il principio di contraddizione contro la Scuola di Antistene che sembra testimoniare la parola che viene usata continuamente sia da Platone sia da Aristotele in relazione al nome di Antistene “paidensἰa”. Aristotele tratta tutti gli eristici con rabbia e disprezzo, chiama “depravata” la loro scienza eccetera eccetera /…/ Professata solo per il piacere della disputa (invece quelli che teme di più sono i sostenitori della teoria “sensista della conoscenza” ideata da Protagora): Secondo questa teoria tutta la nostra conoscenza si fonda sulla percezione sensoriale, ora sia la stessa percezione che i fenomeni percepiti contengono molte contraddizioni, ciò che uno considera dolce a un altro sembra amaro e anche alla stessa persona un fenomeno appare in modi diversi a seconda delle condizioni percettive, possono quindi esistere vari giudizi anche contraddittori sulla stessa cosa i quali fondandosi sulla percezione sensoriale sono tutti veri. Inoltre i fenomeni percepiti dai sensi mutano continuamente ovvero come dice Eraclito “scorrono” per cui non esistono mai veramente perché nascono e muoiono nello stesso istante. Se invece dallo stesso fenomeno nascono dei fenomeni contrari allora ognuno di essi deve contenere dei germi contrari quindi anche contraddittori. Nei confronti di questa teoria Aristotele assume una strana posizione egli ne rifiuta l’ipotesi fondamentale secondo cui la conoscenza si basa esclusivamente sull’esperienza dei sensi, sembra però accettarne proprio le conseguenze che sono più pericolose per il principio di contraddizione. L’ultima frase estremamente importante: Orbene a coloro che hanno tratto le loro convinzioni da queste considerazioni diremmo che in un certo senso ragionano rettamente ma che in un altro senso essi sono in errore infatti l’Essere si dice in due sensi pertanto in un senso è possibile che qualcosa derivi dal non essere mentre nell’altro senso non è possibile ed è anche possibile che la medesima cosa sia e non sia ma non nel medesimo rispetto infatti è possibile che la medesima cosa sia ad un tempo i contrari in potenza ma non in atto. (L’escamotage di Aristotele si fonda su questo cioè la distinzione tra atto e potenza. Ciò che è in atto non può essere contraddittorio ciò che è in potenza sì. Infatti dice Łukasiewicz: l’ultima frase è estremamente importante per la nostra questione essa infatti con parole chiarissime esprime il limite del principio di contraddizione, secondo Aristotele non rientrano in esso gli enti potenziali. T din£mei Ônta (dinamis è la potenza, da cui dinamite, per esempio) Giacché questi enti potenziali possono possedere nello stesso tempo dei caratteri contrari quindi anche contraddittori, dunque il principio di contraddizione riguarda solo degli enti attuali. Ma che cosa è quell’ente potenziale in quale non è soggetto al principio di non contraddizione? La risposta di Aristotele è questa (Metafisica ): La ragione per cui questi filosofi si sono fatti tale opinione (cioè il non riconoscimento del principio di non contraddizione) sta nel fatto che essi ricercavano sì la verità intorno agli enti ma credevano che fossero enti solamente le cose sensibili, ora nelle cose sensibili è presente in notevole misura l’indeterminato ossia quel tipo di essere di cui dicemmo sopra, perciò costoro dicono cose che sembrano vere ma in realtà non dicono il vero. Ne risulterebbe che gli enti potenziali sono proprio gli oggetti della percezione ossia i fenomeni. Benché Aristotele non abbia osato dirlo in modo esplicito e chiaro accontentandosi di un diplomatico richiamo al brano precedente la parola ẚόoriston (indeterminato) non lascia al riguardo alcun dubbio. Infatti dice Aristotele l’“indeterminato “ è l’essere in potenza e non in atto. In questo modo arriviamo alla seguente conclusione gli oggetti della percezione in quanto enti potenziali potrebbero possedere nello stesso tempo caratteri contrari quindi anche contraddittori. Chi ammette come i “sensisti” che esistono solo ciò che si lascia percepire per mezzo dei sensi può giustamente non riconoscere questo principio e può non ammettere l’esistenza di enti non contraddittori. /…/ Ma dice Aristotele in questa prova e lo sottolinea che per comunicare e pensare bisogna necessariamente riconoscere qualcosa di determinato (e insiste continuamente su questa cosa, qualcosa di determinato che nella sua essenza è uno) Tale rismέnon non può essere costituito dagli oggetti dei sensi i quali sono prevalentemente di natura indefinita (qui cerca di cavarsela in qualche modo, dicendo che questo indeterminato non può essere costituito dagli oggetti dei sensi perché se così fosse sarebbe una catastrofe) bensì dagli enti sostanziali che costituiscono l’essenza delle cose (enti sostanziali) il modello originale di quegli enti è una forma pura del tutto libera dalle contraddizioni della materia l’Essere divino. Questi enti ossia le forme sostanziali vengono colte tramite i concetti di cui le parole sono segno univocamente determinati nelle definizioni, questa univocità delle parole fondata sull’esistenza degli enti sostanziali costituisce la base ultima del principio di contraddizione, il quale va perciò considerato come la legge suprema sia del vero pensare sia dell’ente vero ed essenziale. Qui c’è un problema di cui però Łukasiewicz non parla, rivediamo più attentamente: dice, non sono gli enti dei sensi che ci interessano perché questi effettivamente sono contraddittori, ma i concetti che ci costruiamo di questi enti non possono essere contraddittori. (è Łukasiewicz che parafrasa Aristotele) Come è possibile che da qualcosa di contraddittorio, palesemente contraddittorio sia derivabile qualcosa che invece è assolutamente non è contraddittorio? Se non per una decisione, cioè una definizione che qualcuno fornisce come si diceva prima. Bisogna dire che per Aristotele il principio di contraddizione non è soltanto un principio ontologico ma è dotato anche di un significato metafisico (cioè lui attribuisce a questi concetti un riferirsi a qualcosa di metafisico che per altro sarebbe ultimo rispetto al principio di non contraddizione, quindi il principio di non contraddizione non sarebbe più ultimo. Altro problema): si basa infatti su una premessa metafisica che presuppone l’esistenza della Sostanza e alla quale esso rimane strettamente legato, tuttavia è proprio il suo significato metafisico a svalutarlo, giacché le premesse metafisiche non possiedono mai la certezza delle leggi logiche. Lo stesso Aristotele probabilmente era consapevole che per le sue tesi questo era un punto debole. Forse anche lui nutriva dei dubbi (queste sono considerazioni di Łukasiewicz) intorno all’esistenza degli enti sostanziali eterni e distinti dal mondo mutevole dei sensi e se i “sensisti” avessero avuto ragione? In tal caso anche gli eristici di Megara non sarebbe stati poi così lontani dalla verità e in tal caso tutta la sua grandiosa costruzione sarebbe caduta nell’abisso. Ma questo non è possibile, se così fosse l’uomo non potrebbe pensare né parlare né agire, non aveva torto nemmeno Aristotele in un certo senso, per questo Aristotele mantiene ben salda la sua verità assoluta cioè gli “enti sostanziali” come se fosse l’ultima ancora di salvezza. Principio di contraddizione è il principio del sillogismo (il sillogismo sarebbe la dimostrazione quella vera) I principi logici e ontologici sono non soltanto più sicuri ma anche più generali dei principi metafisici, essi riguardano infatti sia gli enti metafisici che costituiscono l’essenza del mondo sia gli oggetti dell’esperienza e sia le creazioni della nostra mente che non esistono nella realtà e in genere tutto ciò che è qualcosa e non un niente. Se il principio aristotelico di contraddizione fosse soltanto una legge metafisica allora non sarebbe impossibile affermare la scarsa importanza della sua portata logica e ontologica (e cioè il fatto che se io pongo che soltanto gli enti metafisici cioè quelli che corrispondono alla realtà esistono, allora la cosa ha poco rilievo perché per esempio non considera tutti gli enti che sono i concetti, dei quali si occupa l’ontologia cioè di ciò che è): Per Aristotele sicuramente è il principio ultimo perché costituisce il fondamento logico di tutti gli altri principi. (Però qui fa la distinzione fra fondamento sufficiente e necessario, per esempio nell’inferenza se a allora b, b è la condizione necessaria di a, e a è la condizione sufficiente di b ma non necessaria, perché a potrebbe anche essere falso, e sappiamo che nell’implicazione anche se l’antecedente è falso il conseguente è vero. Se a allora b, se a è falso b è vero, ma non il contrario, se b è falso anche a necessariamente è falso per cui la condizione di necessità è soltanto nel conseguente. Se il conseguente è falso dunque allora anche l’antecedente deve essere falso nell’implicazione quindi la verità del conseguente è una condizione necessaria della verità dell’antecedente ma non è sufficiente perché nonostante la verità del conseguente l’antecedente può essere falso però non mi addentro nella questione se il principio di contraddizione costituisca un fondamento sufficiente di tutti gli altri principi (ecco perché lo interessava) benché non sarebbe difficile provare la falsità di una tale tesi, in questo brano vorrei soltanto dimostrare che questo principio anche secondo lo stesso Aristotele non è un fondamento necessario di una delle più importanti leggi del pensiero e cioè del principio del sillogismo. Adesso sta cercando di mostrare che il sillogismo non ha bisogno del principio di non contraddizione, cioè una delle più importanti leggi del pensiero appunto il sillogismo non richiede il principio di non contraddizione. Poi ad un certo punto si trova costretto Łukasiewicz a considerare la logica non aristotelica: Per quanto ne so finora nessuno ha mai usato le ipotesi fittizie all’interno delle ricerche logiche eppure la finzione è uno strumento che può svelare nel modo migliore il valore delle leggi , delle cause o delle proprietà degli oggetti esaminati siccome con la finzione si escludono alcune leggi che riguardano un determinato ambito di fenomeni per cercare di scoprire che cosa accade senza di esse si arriva così a conoscere chiaramente in che misura le leggi escluse influiscono sull’andamento dei fenomeni (come quando molti anni fa ci chiedevamo che cosa è necessario al funzionamento del linguaggio, trovando tutto ciò che è necessario, è assolutamente necessario al funzionamento del linguaggio senza il quale il linguaggio cessa di funzionare ecco che tutto ciò ci indica di che cosa è fatto il linguaggio. Adesso io faccio una parafrasi: nelle logiche paraconsistenti in alcuni casi vale il principio di non identità “a se e soltanto se non a” però dice lui questa cosa può funzionare in assenza del principio di non contraddizione perché se io so che questa penna è una penna ma non è una penna, questo non mi impedisce di prenderla e scrivere quello che mi pare, quindi eliminare il principio di non contraddizione secondo lui in alcuni casi è assolutamente possibile, perché di fatto anche se so che è simultaneamente una penna e che questa penna è anche una non penna, cioè accolgo il principio di non identità, quindi rigetto il principio di non contraddizione, posso fare tutto quello che mi pare tranquillamente. Fa l’esempio del medico che sa che questa persona ha la febbre ma anche non ha la febbre, però gli dà comunque il rimedio che sa che è anche un non rimedio e sa che guarirà ma anche che non guarirà, ma glielo da lo stesso perché la sua esperienza ha verificato che in molti casi la cosa funziona. Ora a questo punto: La dimostrazione del principio di non contraddizione. La parte critica delle ricerche è terminata quanto più negativo ci sembra il loro esito tanto più risulta necessario aggiungervi una parte positivamente costruttiva, nonostante tutto infatti nessuno dubita seriamente del principio di contraddizione inoltre tanto nella vita quanto nel campo della scienza questo principio ci rende dei favori incontestabili dobbiamo perciò verificare quale sia l’origine della sua certezza, in che cosa consiste il suo significato principale e perché crediamo in esso in modo così assoluto, questo non è dimostrabile, come è potuto accadere che sia stato preso come un principio assoluto e definitivo? (intanto dice che non basta la questione dell’evidenza): Perché la parola “ evidente” significa qualcosa di diverso da “vero”, significa piuttosto uno stato psichico, una sensazione non ben definita che proviamo nel credere in alcuni giudizi, dal fatto dunque che un giudizio sembri vero a qualcuno non ne risulta la sua verità (e fin qui sembra legittimo, poi fa l’esempio di giudizi falsi che venivano considerati veri e va bene. Qui critica il concetto di “evidenza”): E poiché può capitare che lo stesso giudizio a uno sembri evidente e a un altro no allora in tale caso lo stesso giudizio sarà vero per l’uno e non per l’altro, addirittura sarà falso, ogni verità diventa allora qualcosa di soggettivo e di relativo e la verità assoluta e oggettiva cessa di esistere. Se uno afferma invece che un giudizio è evidente per uno allora deve esserlo anche per tutti gli uomini, sostiene una posizione discordante dalla realtà, perché le cose di fatto non stanno così, questo è un fatto definitivo che fa cessare la discussione (che non mi sembra un granché però … ) dunque l’evidenza costituisce il criterio di verità soltanto sulla carta ossia nei manuali psicologistici di logica o di teoria della conoscenza, in una ricerca scientifica reale nessuno si accontenta dell’evidenza bensì ognuno esige e cerca delle prove. (poi ecco) Volendo dimostrare il principio di contraddizione occorre cercare gli argomenti oggettivi (se no uno dice a me piace pensare che sia così e chiuso il discorso, che va anche bene però in ambito scientifico no) occorre cercare argomenti oggettivi e cioè trovare una prova dalla quale risulti la verità dello stesso principio, e non invece, nel migliore dei casi, la verità del giudizio in base a cui noi dobbiamo riconoscerlo , un giudizio si può dimostrare o a posteriori fondandolo sull’esperienza o a priori fondandolo sulla definizione, il principio di contraddizione è universalmente ritenuto un giudizio a priori per cui bisogna fondarlo su una definizione. (anche questo è interessante) potrebbe sembrare che come fondamento del principio di identità è costituito dalla definizione di giudizio vero, così il fondamento del principio di contraddizione potrebbe essere costituito dalla definizione di giudizio falso presa da sola o al limite presa assieme alla definizione di giudizio vero, si tratta delle seguenti definizioni “è falso il giudizio affermativo che assegna a un oggetto l’attributo che quell’oggetto non possiede” “è falso il giudizio negativo che nega a un oggetto un attributo che quell’oggetto possiede”. Dalla congiunzione della definizione del giudizio vero e del giudizio falso risulta che se un giudizio affermativo è vero o falso allora il giudizio negativo corrispondente deve essere falso o vero e viceversa, potremmo dunque supporre che due giudizi contraddittori non possano essere veri nello stesso tempo così che il principio di contraddizione verrebbe fondato su definizioni universalmente accettate e risulterebbe tanto vero quanto il principio di identità (quindi fondato su definizioni universalmente accettate, però questo non ci dice nulla del perché sono universalmente accettate. Poi: Ciononostante bisogna ammettere che la definizione data di giudizio falso in qualche modo avvalla il principio di contraddizione, chi non riconoscesse questo principio potrebbe allora fornire un’altra definizione. (poi dice): questa esprime l’opinione universalmente accettata secondo cui la falsità consiste nella discordanza dei giudizi con la realtà, tuttavia è più prudente Aristotele perché nel caso in cui non valesse il principio di contraddizione, essa non ci costringerebbe a ritenere il medesimo giudizio vero e falso nello stesso tempo (quindi anche se la realtà fosse contraddittoria per qualche motivo questo potrebbe essere un problema importante è che questa discordanza che è presente nella realtà non lo sia nei giudizi, ammesso che ci sia una realtà) : Tuttavia nel corso di queste riflessioni sembra in alcuni esempi di oggetti in cui l’affermazione e la negazione non si sopprimono a vicenda, sono gli oggetti contraddittori: il quadrato costruito per mezzo di regolo e compasso con una superficie uguale a quella di un cerchio di raggio 1, ha dei lati che si possono esprimere con un numero algebrico e non li ha nello stesso tempo, sia quel giudizio affermativo che assegna quell’attributo al quadrato sia il giudizio negativo che glielo nega devono essere veri, (poi fa l’esempio anche di Cantor eccetera e come la quadratura del cerchio, il cerchio quadrato famoso) se dunque esistono dei tali casi in cui l’affermazione non sopprime la negazione allora il principio di contraddizione non è una legge universale che riguarda tutti gli oggetti (e questa è un’obiezione legittima). Ogni prova del principio di contraddizione deve tenere conto di questo fatto “esiste solo una via per eludere questa difficoltà, bisogna ammettere che gli oggetti contraddittori non sono affatto degli oggetti che non sono qualcosa bensì sono un niente” (e qui si utilizza un sistema che evoca quello che ha usato Russell per eliminare il paradosso) e cioè una limitazione, alcuni sono oggetti e altri non lo sono, (chi lo decide? questo è un problema che a lui non interessa): Ora da questa premessa che possiamo considerare come una definizione di oggetto risulta direttamente in forza del principio di identità che nessun oggetto può possedere nello stesso tempo o non può possedere il medesimo attributo per cui si dividono gli oggetti. Non ho dubbi che questa dimostrazione deluderà tutti, essa appare così facile, economica e superficiale e tutte queste obiezioni non sarebbero prive di ragioni se tutto finisse qui ma non è così, questa dimostrazione non può che essere una introduzione a successive nuove ricerche, secondo una prima definizione chiamiamo “oggetto” tutto ciò che è un qualche cosa e non un niente, (definizione: chiamiamo oggetto questo e quest’altro) dunque le cose, i fenomeni, gli eventi, le relazioni, tutto il mondo esterno, tutto ciò che succede dentro di noi, tutti i concetti e le teorie scientifiche sono oggetti. (e va bene, decidiamo che sia così) Secondo un’altra definizione: chiamo “oggetto” tutto ciò che non contiene la contraddizione (quindi una bella definizione). Nasce così la domanda “gli oggetti nella prima accezione sono pure oggetti nella seconda accezione?” (cioè qualunque cosa io consideri come qualche cosa che è e non come qualcosa che non è, questo contiene una contraddizione oppure no?) e di conseguenza è vero che le cose, le persone, i fenomeni, gli eventi, le relazioni, i pensieri, i sentimenti, i concetti, tutte le teorie eccetera non contengono contraddizioni? È questo l’autentico problema la cui soluzione stiamo cercando sin dall’inizio. La prova esposta in questo brano è dunque solo formale non è oggettiva ma nonostante ciò essa riveste non poca importanza permette infatti di formulare in modo adeguato il problema della contraddizione e indica la via che porta a una sua risoluzione oggettiva. Questa via non porta alla sterilità di un arido formalismo ed una psico speculazione a priori ma ci conduce verso territori ricchi e pieni di esistenza, la materia reale dei fatti fornitaci dall’esperienza e dalla teoria, giudicherà definitivamente il valore del principio di contraddizione. Ma vedremo che non sarà così.