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27 maggio 2020

 

Scienza della logica di G.W.F. Hegel

 

Qui stiamo affrontando una questione importante. Hegel ci invita a riflettere sulla questione dell’esistenza. L’esistenza è un termine che interviene continuamente – questo esiste, questo non esiste, ecc. – ma senza riflettere bene su che cosa si sta dicendo. Hegel, invece, ci ha riflettuto bene e ha inteso che ciò che esiste non è quella cosa che comunemente si intende con esistenza, perché quella cosa che comunemente si intende con esistenza è contraddittoria, è il negativo. In definitiva, l’esistenza di qualche cosa o il ciò che appare, il fenomeno, in quanto tale è contraddittorio perché deve necessariamente contenere in sé l’uno e i molti. La cosa che io vedo e che dico che esiste posso dirlo perché astraggo. Questa cosa che indico, dico che esiste, anche se il più delle volte non si fa molto caso a ciò che esattamente si sta dicendo, ma che cosa vuole dire che esiste? A quali condizioni posso dire che esiste? Hegel esplora bene tutto questo perché dice che questa cosa esiste in quanto io compio un’operazione particolare: questa cosa c’è in quanto – questo, poi, lo dirà molto bene Heidegger – perché inserita nel mondo, cioè, perché è fatta di infinite connessioni; quindi, per potere dire che esiste io devo astrarre questa cosa, togliere tutte le connessioni, e allora posso dire che questa cosa, che immagino di avere determinata, esiste. Solo che, facendo questo, in realtà io sto indicando in questa cosa, dicendo che esiste, qualcosa che è una negazione. È una negazione di ciò che è in realtà perché, senza tutte le connessioni di cui è fatta questa cosa, questa cosa non c’è; quindi, se tolgo tutte le connessioni e lascio solo questo aggeggio, in teoria questo aggeggio non esiste nemmeno; ciò nondimeno lo faccio esistere come astrazione. È una pura e semplice astrazione, perché se non faccio questo rimane una contraddizione, che non posso determinare perché è fatto delle sue connessioni, delle sue relazioni. L’esistenza non è altro che relazione. E, allora, posta la questione in questi termini, che cosa posso dire che esiste? Non posso propriamente dire che esiste nessuna cosa perché non la posso determinare. Quindi, è come se non esistesse nulla, però, dico invece che esiste nel momento in cui compio questa operazione di astrazione: faccio come se questo aggeggio non fosse il prodotto di uno sterminio di relazioni e di connessioni, e allora esiste, allora cioè lo determino. A pag. 537. L’essere è l’astrazione assoluta. Se è astrazione assoluta, ovviamente non ha nessuna determinazione, quindi, è nulla. E, allora, tornando a ciò che dicevo prima, dire che questa cosa qui esiste è attribuire un qualche cosa a qualcosa che, in questi termini, è nulla se l’astraggo. Questa negatività non gli è un che di estrinseco, ma esso è essere e nient’altro che essere, solo in quanto è quest’assoluta negatività. Questo è un po’ tutto il fulcro del pensiero di Hegel: l’essere è assoluta negatività; così come di qualunque altra cosa che diciamo che è. Che cos’è l’essere? Facciamo un passo indietro alla questione dell’essenza. Qual è l’essenza di qualcosa? Quando dico di avere trovato l’essenza di qualcosa? Quando comunemente dico di avere trovato qualcosa che necessariamente è, cioè, quella cosa è nient’altro che quella. Dicendo questo, e cioè quella cosa è nient’altro che quella, sto ponendo il negativo. Poniamo una X. Che cosa c’è di essenziale in questa X? Diciamo che abbiamo trovato la essenza di X quando questa X non è e non può essere altro da se stessa; quindi, abbiamo tolto tutto ciò che la X non è e rimane la X. È quello che indicavo come il complemento booleano: quando scrivo la X e poi la nego, indico tutto ciò che la X non è, cioè la totalità degli enti meno la X. Quindi, questa X è pura negatività in quanto è definita da ciò che non è: è tutto ciò che non è. Il discorso che fa Hegel è bene articolato perché ciò che la X non è, è posto come opposizione alla X: quando pongo la X pongo anche ciò che la X non è. Ora, però, dice Hegel, abbiamo due cose contrapposte. Abbiamo detto, però, che la X è la negazione di ciò che non è. E, allora, interviene la seconda negazione di cui parla Hegel, e cioè la riflessione di questo elemento, che si contrappone alla X, sulla X, cioè su se stesso, perché la X è quella cosa lì, la sua essenza è quella cosa lì, cioè di non essere tutto ciò che X non è. È per questo si riflette su di sé, ed è per questo che non possono rimanere due cose separate ma si riflette su di sé. L’essenza ritorna sull’essere e, ovviamente, l’essere a questo punto non è più quello di prima, perché si è integrato con la sua essenza, cioè con ciò che veramente è, e cioè non essere ciò che non è. Il porre X presuppone la X, perché non c’è ancora, né la sua esistenza né la sua essenza. Qui sta la finezza di Hegel, nel dire che non si tratta di un percorso lineare, per cui si passa prima da questo, poi si arriva a quell’altro e poi a quell’altro ancora; no, questi passi, chiamiamoli così, sono già parte integrante del tutto, sono già presenti tutti: perché io possa porre una X tutto questo deve già essere presente, ci deve essere il linguaggio, linguaggio inteso come l’intero, il tutto. È chiaro adesso ciò che dice Hegel quando dice che un certo elemento è posto, quindi, tolto, perché nel porlo lo tolgo in quanto lo integro con la sua negazione e, quindi, non è più quello, è un’altra cosa. È riflesso su se stesso ponendo a questo punto se stesso come un altro: nel ritorno è come se tornasse indietro e ritrovasse se stesso come un altro. Sta qui anche la bellezza e la novità del pensiero di Hegel. Nessuno prima di lui aveva posta la questione in questi termini, ci si era sempre fermati a ciò che lui chiamava la religione, cioè a mantenere come separate le due figure, il positivo e il negativo. Positivo nel senso di ciò che si pone e negativo nel senso di ciò che si contrappone al ciò che si pone, cioè, tutto ciò che non è ciò che si pone. La tesi letteralmente è il porre. Ciò che ho posto, ponendolo, lo tolgo, e lo tolgo per questo motivo: nel porre una qualunque cosa, questa cosa si integra con il suo negativo. Facendo l’esempio del significante e del significato: il significato, in effetti, si toglie, non è presente, non è qualcosa di immanente; si toglie e torna, per usare termini un po’ rozzi, sul significante, che solo da quel momento in poi diventa significante, cioè, significa qualcosa, sennò è nulla. Questo applicando il pensiero di Hegel al segno di de Saussure. Perché il significante possa significare occorre che il significato si tolga, che non rimanga un’altra cosa rispetto al significante. La religione, invece, fa o tenta di fare questo: mantiene separati il significate dal significato, come due cose a sé stanti. Da qui, naturalmente, la necessità di trovare, reperire, inseguire il significato, senza potere accorgersi che è già qui mentre ne parlo. E deve essere già qui altrimenti non potrei parlare né di questa cosa né di alcun’altra. A cagione di essa l’essere è solo come essere che si toglie, ed è essenza. L’essere si toglie, e si toglie perché in questo movimento di riflessione su di sé l’essere diventa essenza. È come se il significante si fosse appropriato del suo significato. Solo a questo punto l’essere ha un’essenza, cioè è qualcosa, cioè possiamo dire che cos’è l’essere o comunque abbiamo risposto alla domanda che cos’è propriamente l’essere, possiamo rispondere: quando l’essere riflette su se stesso. Si ritrova come essere ma in questa riflessione è avvenuto qualcosa: l’essere si è posto come altro rispetto a se stesso; solo in questo modo trova la sua essenza, cioè come negatività, come qualcosa che si toglie, e rimane l’essenza. Adesso vediamo come da questa essenza si passa all’esistenza, perché manca ancora un passaggio. Ma viceversa anche l’essenza, come semplice eguaglianza con sé, è essere. Anche l’esistenza è qualcosa, quindi, è. La dottrina dell’essere contiene la prima proposizione: L’essere è essenza. La seconda proposizione; L’essenza è essere, costituisce il contenuto della pria sezione della dottrina dell’essenza. Ma questo essere, cui l’essenza si riduce… Nel senso di riporta. …è l’essere essenziale, l’esistenza, un essere uscito, o un derivare, dalla negatività e interiorità. Come dire che l’esistenza è un derivato, è un qualcosa che deriva dall’essenza, da questo movimento di riflessione dell’essere su se stesso, del significante su se stesso, naturalmente passando dal significato, cioè dalla sua essenza. Qual è l’essenza del significante? Quella di significare qualcosa. A pag. 538. Ma il mondo apparente… Apparente nel senso che appare, il fenomeno. …e il mondo essenziale stanno assolutamente in relazione uno con l’altro. Così, in terzo luogo, la esistenza è rapporto essenziale… L’esistenza è rapporto essenziale, rapporto che riguarda l’essenza, ma soprattutto è rapporto, relazione. …ciò che appare mostra l’essenziale, e questo è nella sua apparenza. Il rapporto è l’unione ancora imperfetta della riflessione nell’esser altro e della riflessione in sé. La penetrazione perfetta delle due è la realtà. Quindi, la realtà come unione della riflessione nell’esser altro e della riflessione in sé. Ci sono sempre questi due aspetti, l’essere in sé e l’esser altro, la A e il non-A, il significante e il significato; ci sono sempre questi due elementi che intervengono in Hegel, ma poi interviene anche la sintesi, il terzo elemento che, poi, di fatto, non è che la relazione. Ho detto spesso, ma è forse il caso di ripeterlo perché è importante: consideriamo, ad es. la relazione A e B. Quando questi due elementi sono hegelianamente in relazione fra loro non c’è più né la A né la B, c’è la relazione tra A e B. Nella relazione non sono più la stessa cosa, ed è esattamente quello che diceva rispetto all’essere che si toglie: essere, non essere, cioè tutto ciò che si oppone all’essere, ma che ritorna su di sé; è solo a questo punto che l’essere ha l’essenza, cioè il fondamento, che è la stessa cosa; e, quindi, è un’altra cosa rispetto a prima: la A, quando ha inteso di sé di non essere tutto ciò che non è, allora può tornare su di sé e dirsi A. È ciò che ha inteso Severino quando dice dell’essere e del non essere: l’essere di per sé non si determina se non c’è il non essere in quanto tolto; solo a questo punto l’essere è tutto ciò che non è non essere, solo a questo punto è determinato, è l’essere incontrovertibile, come amava dire lui; sennò l’essere è il nulla. Il problema è che Severino mantiene questi due elementi non come momenti ma come figure, cioè non riesce ad accorgersi che l’essere, una volta che ha compiuto questa operazione per cui è non solo più essere ma è anche diventato essenza, non è più l’essere che era prima, perché si è integrato con il suo negativo. A pag. 541. Così l’esistenza non è qui da prendersi quasi un predicato o quasi una determinazione dell’essenza, in modo da poter dire con una proposizione: L’essenza esiste, ossia ha esistenza;… Cioè: non è qualcosa che si aggiunge. …ma l’essenza è passata nell’esistenza; questa è la sua assoluta estrinsecazione, al di della quale l’essenza non è rimasta. Si è tolta ed è diventata esistenza. La proposizione dunque sarebbe: L’essenza è l’esistenza; essa non è diversa dalla sua esistenza. L’essenza è passata nell’esistenza, in quanto l’essenza come fondamento non si distingue più da sé come dal fondato, ossia in quanto quel fondamento non si distingue più da sé come dal fondato, ossia in quanto quel fondamento si è tolto. Questo è il movimento che bisogna sempre avere presente quando si legge Hegel, sennò non si intende niente. È un movimento continuo tra un elemento e l’altro, una simultaneità tra i due elementi, che però non rimangono due separati ma resta uno, la relazione, e l’esistenza è relazione. L’esistenza è la riflessione del fondamento in sé, la sua identità con se stesso venuta ad essere nella sua negazione; dunque la mediazione, che si è posta come identica con sé, ed è perciò immediatezza. Quindi, ha tolto la mediazione tra l’uno e l’altro e si è posto come immediatezza, come ciò che esiste. A pag. 542. In quanto immediatezza che si pone col togliere, l’esistenza è una unità negativa e un esser dentro di sé. Si determina quindi immediatamente come un esistente e come cosa. L’esistente o la cosa è pura negatività. Generalmente si tende a pensare che quando si dice che qualcosa esiste s’intende qualcosa di positivo, cioè che si pone. Il che è vero, si pone, ma ponendosi si toglie: è questa la questione che aggiunge Hegel. Non è che non sapesse certe cose, conosceva perfettamente il fatto che normalmente dicendo che esiste s’intende qualcosa di positivo, ma lui aggiunge delle cose: sì, è vero, la pongo, ma ponendola la tolgo, e cioè inserisco il negativo; questo negativo si riflette sulla cosa, perché quella cosa, per essere quella che è, deve togliere il suo negativo, negativo che però deve esserci sennò non posso determinarla come cosa. L’esistenza come un esistente è pota nella forma di quell’unità negativa, ch’essa essenzialmente è. Un’unità negativa, cioè, è un uno negativo in quanto tolto. Quando io indico questa cosa qua, nel fare questo, questo è già tolto, è già un negativo. Ma questa unità negativa è dapprima solo una determinazione immediata, e quindi l’uno del qualcosa in generale. Il qualcosa che esiste è però diverso dal qualcosa che è. Quello è essenzialmente un’immediatezza tale, che è sorta per via della riflessione della mediazione in se stessa. Così il qualcosa che esiste è una cosa. Un’immediatezza che è sorta per via della riflessione, cioè del suo togliersi, perché riflettendosi toglie. Questa cosa, nel momento in cui l’ho posta, nel momento in cui mi sono riferito a questa cosa, in quel momento l’ho tolta. Esattamente come la lampada di Severino: nel momento in cui la astraggo la tolgo, la tolgo per poterla considerare, per poterla analizzare, per poterla manipolare, ecc. e, quindi, l’ho fatta diventare nulla, è pura negazione. La cosa in sé… Hegel si riferisce a Kant, anche se poi si accorge che le cose sono un po’ più complesse di come le aveva poste Kant. Kant aveva posto la cosa in sé come una figura a sé stante, della quale non si può sapere niente, però, c’è, come garante universale. La cosa in sé è l’esistente come l’Immediato essenziale che si ha a cagione della tolta mediazione. A pag. 543. Quando si distingua la cosa dalla sua esistenza, essa è il possibile, la cosa della rappresentazione o immaginazione, vale a dire un che di fantastico, che come tale deve in pari tempo non esistere. Vi rendete conto di quello che ha detto? Un che di fantastico, che come tale deve in pari tempo non esistere, ma che cosa? Quando distinguo la cosa dalla sua esistenza. Ma la sua esistenza è la relazione. Se io separo la cosa dalla sua relazione, che è la sua esistenza, mi trovo di fronte, direbbe Borges, a un animale fantastico. Questo è ciò cui mi trovo di fronte ogni volta che faccio queste costruzioni, questi modelli, queste formule, è come se fossero animali fantastici, perché li si pone come un qualche cosa di separato dalla sua esistenza, cioè, dalla relazione, Heidegger direbbe dal mondo in cui e per cui esistono. Ora, essendo la cosa in sé l’identità essenziale dell’esistenza,… Ha ricondotto la cosa in sé kantiana a nient’altro che l’identità essenziale dell’esistenza, esistenza che è relazione, ma perché ci sia relazione occorre che ci sia qualcosa che sia identico a sé. Quando metto in relazione la A con la B, occorre che la A sia determinata, che sia identica a sé, sennò non c’è nessuna relazione. Quindi, come vedemmo già nella Fenomenologia dello spirito, anziché porre la cosa in sé come figura la pone come momento, momento di un tutto che deve essere integrato. La cosa in sé è l’esistenza che si riferisce a sé, l’esistenza essenziale; è l’identità con sé, solo in quanto contiene in se stessa la negatività della riflessione; quello che appariva quale esistenza a lei esterna è quindi momento in lei stessa. Ciò che appariva come qualcosa di esterno a lei, di fatto, non è altro che un momento di se stessa. Pensava che fosse qualcosa di esterno ma non lo è, e non lo è perché non è nient’altro che il suo negativo, ciò che quella cosa non è; quindi, le appartiene. Per questa ragione essa è anche una cosa in sé che si respinge da sé… Come nella riflessione. …e che si riferisce a sé come a un altro. Questo è il concetto di riflessione in Hegel: il riferirsi a sé in quanto altro. A pag. 545. Questa non l’ha dunque in una a lei estrinseca relazione ad un’altra cosa in sé… Non sta fuori da qualche altra parte. …e di quest’altra cosa in sé a lei; la determinatezza non è soltanto una sua superficie, ma è la mediazione essenziale sua con sé come con un altro. Hegel insiste tantissimo su questo: la relazione a sé come a un altro, perché questo sé in questo movimento è diventato un altro. La A, quando incontra il suo negativo per tornare su se stessa, ciò che incontra è, sì, sé – è sempre una A – ma come altra, dacché è diventata la essenza di A, cioè, è la A che contiene la negazione di tutto ciò che non è, che è la sua essenza. L’essenza è di essere appunto se stessa in quanto non è ciò che non è. Questa determinatezza della cosa in sé è la proprietà della cosa. Siamo sempre a pag. 545 e adesso parla della proprietà. La qualità è la determinatezza immediata del qualcosa, il negativo stesso, per cui l’essere è qualcosa. Che cosa determina immediatamente qualcosa? Il fatto che qualcosa è e, quindi, non è ciò che non è. Questa è la sua determinatezza in primissima istanza, ed è questo il motivo per cui l’essere è qualcosa anziché nulla. se fosse privo di ogni determinazione, come diceva all’inizio, sarebbe nulla, e invece qui ha una determinazione, che è il suo negativo, è il suo negativo che la determina. Così la proprietà della cosa è la negatività della riflessione, per cui l’esistenza è in generale un esistente, e, come semplice identità con sé, è cosa in sé. Qual è la proprietà della cosa? Cosa è proprio? Di essere ciò che è. Da qui la negatività, cioè di non essere ciò che no è. La negatività della riflessione,… Quando c’è riflessione c’è sempre negatività, perché torna a sé; tornando a sé si toglie. Quando parla di negazione s’intende sempre questo: il togliersi di qualcosa. La negatività della riflessione, la mediazione tolta, è però appunto essenzialmente mediazione e relazione, non ad un altro in generale (come la qualità in quanto è la determinatezza non riflessa), ma relazione a sé come ad un altro, ossia mediazione che è immediatamente in pari tempo identità con sé. È identica con sé ma identica con altro. L’astratta cosa in sé è appunto questo riferimento che dall’altro torna in sé; essa è pertanto determinata in se stessa;… Quindi, la cosa in sé è determinata. Lo diceva già nella Fenomenologia dello spirito: non è vero che la cosa in sé è inconoscibile, la conosciamo in quanto è momento di un intero. L’astratta cosa in sé è appunto questo riferimento che dall’altro torna in sé; essa è pertanto determinata in se stessa; ma la determinatezza sua è una costituzione, che come è essa stessa una destinazione, e come riferimento ad altro non passa nell’esser altro, ed è sottratta al mutamento. Questo riferirsi ad altro della cosa in sé, che è cosa in sé in quanto non è tutto ciò che non è, ci mostra la determinatezza. Vale a dire, la cosa in sé è qualche cosa che dall’esser altro, che ha come suo opposto, ritorna su di sé. A pag. 547. La proprietà non è distinta dal suo fondamento, né costituisce semplicemente l’esser posto, ma è il fondamento passato nella sua esteriorità, epperò veramente riflesso in sé. Cosa c’è di proprio in qualche cosa? Sta dicendo che è il suo fondamento, ciò che gli è proprio. La proprietà stessa come tale è il fondamento, un esser posto che è in sé,… Ciò che attribuisce l’identità di sé a qualcosa, come dire: tu sei identica, perché io da fuori sono tornato in te e ti ho fatta essere esattamente così come sei. La cosa in sé esiste dunque essenzialmente, e che essa esista, ciò viceversa significa: L’esistenza è come immediatezza esteriore in pari tempo essere in sé. Di nuovo i due elementi: immediatezza esteriore, l’elemento altro, e il sé. Sempre due momenti, non figure. Chiamarli momenti significa intendere che sono aspetti che non esistono di per sé ma che esistono nella loro relazione, esistono in quanto presi nella sintesi, nella integrazione, nell’Aufhebung; solo a questo punto esistono. Già per l’addietro, a proposito del momento dell’esser determinato, dell’essere in sé, venne fatta menzione della cosa in sé, e si notò che la cosa in sé come tale non è altro che la vuota astrazione da ogni determinatezza, mentre di essa non si può ad ogni modo saper nulla, appunto perché dev’essere l’astrazione da ogni determinazione. Se io la astraggo da ogni determinazione, cosa rimane? Nulla. venendo così presupposta la cosa in sé come l’indeterminato, ogni determinazione cade fuor di lei, in una riflessione a lei estranea, di fronte alla quale essa è indifferente. A pag. 552. Come cosa in sé essa è l’identità astratta, l’esistenza semplicemente negativa, ossia quella determinata come l’indeterminato; poi è determinata da quelle sue proprietà per le quali si deve distinguere da altre; ma in quanto per mezzo della proprietà è anzi continua con altre, questa differenza imperfetta si toglie; la cosa è con ciò tornata in sé ed è ora determinata come determinata; è determinata in sé ossia è questa cosa. Qual è il passo importante qui? La cosa all’inizio è indeterminata, poi si determina dalle sue proprietà, ma in quanto per mezzo della proprietà si continua con altre cose, non è isolata. Una proprietà è qualche cosa che si riferisce ad altro: se io voglio sapere le proprietà di questo aggeggio, generalmente mi riferisco ad altro, che non è questo aggeggio in quanto tale, sono le sue proprietà, colore, peso, ecc. La cosa è composta… È quello che vi dicevo prima della relazione, cioè, è composta da infiniti elementi. Che poi è l’antica questione dell’uno e dei molti di Parmenide, che è rimasta tale e quale. La cosa come questa è cotesta lor relazione semplicemente quantitativa, una semplice raccolta, l’anche di quelle materie. Prima aveva fatto l’esempio delle materie che compongono una cosa, ecc. Parla di un anche: quella cosa è quella cosa lì ma anche… L’uno e i molti, simultaneamente. La cosa è composta, ossia consta di un certo quanto di una materia, e anche di un certo quanto di un’altra, e anche di altre. L’aver questo nesso, cioè il non aver nesso, è ciò che unicamente costituisce la cosa. A pag. 554. Ma lo scioglimento della cosa… Scioglimento sarebbe la risoluzione: la cosa si risolve nelle sue relazioni. Ma lo scioglimento della cosa e l’esteriorità del suo essere è l’essenziale di questo essere; la cosa è soltanto l’anche, consiste soltanto in questa estrinsecità. La cosa è relazioni. Ma consta anche delle sue materie, e non soltanto l’astratto questo come tale, ma tutta questa cosa è lo scioglimento di se stessa. La cosa è cioè determinata quale una raccolta estrinseca di materie per sé stanti;… Una raccolta di materie per sé stanti: ciascuna è quella che è. …queste materie non son cose, non hanno l’indipendenza negativa, ma son le proprietà come il per sé stante, cioè l’esser determinato, che è riflesso in sé come tale. Quindi le materie sono bensì semplici e si riferiscono solo a se stesse; ma il lor contenuto è una determinatezza; la riflessione in sé è soltanto la forma di questo contenuto, che non è riflesso in sé come tale, ma secondo la determinatezza sua si riferisce ad altro. La cosa non è quindi soltanto l’anche delle materie, - la relazione loro come reciprocamente indifferenti, - ma è anche la lor relazione negativa; a cagione della lor determinatezza le materie stesse son questa loro riflessione negativa, che è la puntualità della cosa. C’è l’anche, la cosa è anche tutta una serie di cose, ma è anche puntualmente qualcosa. Quando è puntualmente qualcosa? Quando la cosa è in sé, toglie da sé il suo negativo, lo integra. Quindi, c’è la cosa in sé, ma questa cosa in sé è anche l’anche dell’essere una relazione con altre. Queste materie si compenetrano l’una con l’altra. Dice Hegel che sono porose, intendendo questo termine nell’accezione greca di πορός, cioè, ci sono dei buchi, dei passaggi. Le materie sono quindi essenzialmente porose, cosicché l’una sussiste nei pori ossia nel non sussistere delle altre; ma queste altre sono anch’esse porose; nei loro pori ossia nel loro non sussistere sussiste anche la prima, e tutte le rimanenti. Il sussistere delle materie è insieme il loro essere tolte… Se sussiste una cosa scompare quell’altra. Se sussiste l’essere scompare il non essere. La cosa è quindi la contraddicentesi mediazione con sé dell’indipendente sussistere per mezzo del suo opposto, cioè per mezzo della sua negazione, vale a dire di una materia indipendente per mezzo del sussistere e non sussistere di un’altra. … La verità dell’esistenza sta quindi nell’avere il suo essere in sé nell’inessenzialità, ossia il suo sussistere in un altro e precisamente nell’assoluto altro, vale a dire nell’aver per base la sua nullità. Perché è tolto, non c’è più; eppure, è la sua base. A pag. 536. Ciascuna materia è posta come la sua negazione, e questa negazione è il sussistere di un’altra materia; ma questo sussistere è parimenti anch’esso la negazione di quest’altra materia e il sussistere della prima. C’è una cosa e l’altra scompare; se pongo l’altra, la prima dilegua: in questo movimento continuo. Pensate al movimento del significante e del significato, è ininterrotto. Il significante ha un significato, ma questo significato si leva e il significante diventa effettivamente significante; ma questo altro significante ha a sua volta un altro significato, e così via all’infinito. A pag. 557. Ciò è contraddittorio; ma la cosa non è altro che questa contraddizione stessa; perciò è apparenza o fenomeno. È la contraddizione stessa, e questo è il motivo per cui appare. Se tolgo la contradizione non appare più, nel senso che per potere farla apparire, perché sia un fenomeno, devo astrarla dal concreto, dal tutto, dall’intero. È come se, in un certo qual modo, fossi costretto a porla come se fosse fuori dal linguaggio, perché finché è nel linguaggio è una relazione con tutto il resto; non è determinabile in quanto tale e, quindi, devo astrarla. Devo compiere questa astrazione, che poi è il modo in cui si impara a parlare, tra l’altro; presupponendo ciascuna volta che questa cosa sia questa cosa qui. Cosa che propriamente non è, perché quello che vedo non è niente altro che un insieme di relazioni; ma per poterlo prendere, considerare, pesare, ecc. devo astrarla, devo fare come se non fosse nel mondo, come direbbe Heidegger.

Intervento: Imparare a parlare…

La religione non si toglie, né facilmente ma neanche difficilmente, proprio perché permane, e permane perché è il modo in cui si impara a parlare. Per potere determinare qualcosa, per potere usare qualcosa devo presupporlo fuori dal linguaggio. Questo fino a un certo punto, perché questa presupposizione non è necessaria, ma appare quasi inevitabile. So che questo aggeggio non esiste fuori della parola, ma quando lo comprendo, quando ne faccio qualche cosa, sto facendo un qualche cosa che mi porta a pensare che io mi stia proprio riferendo a questa cosa qui. Certo, il tenerne conto è possibile, anzi, è auspicabile, ma è estremamente difficile perché toglie la possibilità di adoperare la volontà di potenza, di dominare il prossimo; a questo punto non avrebbe alcun senso né alcuna utilità, cioè non dà più soddisfazione. La soddisfazione si trae dalla pratica del linguaggio, nel mettere in atto il linguaggio, dove c’è la volontà di potenza ovviamente, non può togliersi – ogni volta che affermo qualcosa la metto in atto – ma so che cosa sto facendo, cioè, so che questa cosa è inevitabile all’interno del linguaggio dove mi trovo. Se cesso di pensare di trovarmi all’interno del linguaggio, cambia tutto, diventa tutto terribilmente reale.