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MARTEDÌ 27 MAGGIO 1997

 

Chi vuole riprendere qualche questione avviata martedì scorso, abbiamo parlato della psicanalisi e poi di altre questioni. C’è qualche aspetto che desiderate riprendere o che volete sia ampliato? Subito no. Parlavamo dell’itinerario analitico in prima istanza e poi che di cosa avviene e dove conduce e che cosa ci ha indotti a strutturarlo in un certo modo, tenuto conto della decisione presa un paio di anni fa di non appoggiarci a nessun atto di fede, a nessun credo, nessuna pregiudiziale, cosa che ha creato non pochi problemi, perché muoversi non dando nulla per acquisito è piuttosto complicato e rischia di arrestare, di bloccare il discorso ogni momento e quindi si trattava di trovare qualche cosa che invece non lo bloccasse. Chiaro che ciò che abbiamo trovato continuiamo a elaborarlo, a svolgerlo. Forse non tutti voi lo sapete ma quando stavamo considerando queste questioni avevamo in mente di produrre qualche cosa che necessariamente costringesse a pensare in un certo modo, si trattava quindi di costruire delle proposizioni che funzionassero in questo modo, qualcosa cioè che non potesse non essere accolto, naturalmente è la struttura grammaticale soprattutto a costringere una cosa del genere, si diceva allora rispetto alla struttura grammaticale che impedisce di credere vero ciò che si sa essere falso: se io so che una certa cosa è falsa non posso crederla vera in nessun modo pensando che è falsa. Questo fa parte di una questione molto complessa ma la struttura grammaticale è quella che a un certo punto costringe a pensare in un certo modo. Così facevamo questo esempio molto banale: voi pensate che io sia una certa cosa, uno psicanalista che fa delle cose... se ad un certo punto veniste a sapere che sono un agente dal KGB e che questo lavoro è solo una copertura, allora l’immagine che voi avete di me probabilmente cambierebbe, cioè non sarei più la stessa cosa, non potreste più pensarmi come mi pensavate prima, come dire che l’introduzione o l’immissione di un elemento può cambiare radicalmente il modo in cui si pensa, e allora si rifletteva intorno a quali elementi potessero essere inseriti all’interno di una struttura del discorso occidentale in modo tale che il pensiero non potesse più proseguire negli stessi termini. In parte riuscendo in questa operazione, in parte questa operazione è ancora in atto, e ciò che andiamo dicendo in effetti rende più difficile credere delle cose, qualunque esse siano, rende più difficile perché porta immediatamente in evidenza la non sostenibilità di ciò che si sta per credere, così come non è possibile ad esempio... (quando questa nostra amica che era qua poi è scomparsa) ci ha raccontato della sua religiosità, una religione Barai (?) che arriva dall’Iran, dalla Persia, nessuno ha abbracciato questa fede, evidentemente qualcosa lo ha impedito. Ora qui mi rivolgo unicamente alla struttura grammaticale per cui qualcosa avviene ma ciò che l’ha impedito è il fatto che alcune tesi che venivano proposte non erano sostenibili in nessun modo, e così allo stesso modo e per lo stesso motivo nessun altra affermazione può essere accolta, nel senso di essere creduta vera, in nessun modo. In nessun modo perché il lavoro che stiamo facendo fornisce immediatamente gli strumenti per confutarla. Basta talvolta semplicemente chiedere come lo sa la persona, come sa una certa cosa, come l’ha saputo e questo già può creare dei problemi e ciò che si svolge in una analisi è qualche cosa di molto simile, è un percorso grosso modo fatto in questa maniera, uno inizia a parlare ed espone le cose che crede, ciò di cui è fatto, ciò di cui vive, ecco allora è come se la domanda si ponesse in questi termini: come sai queste cose? Da dove vengono? Come sai che è proprio così? Non è possibile rispondere a queste domande, cioè ci si trova di fronte ad un certo punto ad una sorta di, più che infondatezza di vacuità di tutto ciò a cui si crede in linea di massima, come dire: mi trovo di fronte al mio discorso, che è sostenuto da queste cose, queste cose le posso sostenere? No, in nessun modo e allora? Che cosa faccio a questo punto cioè quale via prende il discorso? O si arresta di fronte all’impossibilità di affermare alcunché, un po’ come si diceva tempo fa accadde a Wittgenstein, quando chiuse il “Tractatus” con la famosa proposizione: ciò di cui non si può parlare si deve tacere. Poi in effetti non ha taciuto perché ha scritto ancora moltissimo, ma aveva incontrato qualche cosa che gli impediva di proseguire, e in effetti anche questa struttura che andiamo mano a mano inventando può condurre a questo cioè ad un arresto, a un blocco totale perché non c’è più nulla che valga, nulla su cui appoggiarsi, nulla che funzioni come referente, nulla da cui muovere con una buona certezza, ma tutto sembra muoversi, sembra inattendibile, e allora ci si trova a dire per niente, nel senso che ci si scontra, più che incontrare, con la considerazione che l’unico fine del linguaggio, l’unica che può trarsene è che il linguaggio prosegue unicamente per proseguire, non è possibile garantire nessun altra finalità. Non è possibile in questa accezione, è chiaro però che uno può dare tutte le finalità che ritiene più opportune ma rimangono arbitrarie e allora io posso affermare che parlo per la maggior gloria di dio, per comunicare o per qualunque altra cosa, va sempre bene, però di fatto nulla di queste affermazioni è sostenibile. Potrebbe anche non avere nessuna importanza il fatto che non sia sostenibile, però il discorso è fatto in modo tale per cui ciascuno quando afferma qualcosa l’afferma perché la ritiene vera, come si diceva tempo fa. Per questo provate a domandare a una persona che afferma qualunque cosa se la cosa che ha detta la ritiene vera oppure pensa che sia la più colossale fesseria di questo mondo, sicuramente esclude che sia la seconda ipotesi, sarà sicuramente più propenso per la prima. Come dire che la questione centrale in tutto ciò è che ciascuno parlando dà per acquisito, per implicito è che ciò che afferma sia vero o comunque muova da elementi veri. Se non fosse sicuro o abbastanza sicuro di questo non sosterrebbe ciò che sostiene. E perché no? Perché non può sostenere una qualunque cosa che gli passa per la mente come fanno i matti? Perché si dice che il discorso deve procedere lungo una certa logica, per cui se c’è questo allora questo implica quest’altro e quindi quest’altro segue necessariamente. Già dicevano gli antichi ex falso quodlibet, da una premessa falsa può trarsi qualunque affermazione, per questo occorre che la premessa sia vera e questo è un modo di pensare che non solo è molto diffuso ma sembra ineliminabile, pensare che le proprie affermazioni procedano da assiomi, da postulati che siano veri. Perché dovrebbe essere così? Quali virtù ha una posizione che segue una corretta procedura logica, che muove da assiomi veri, quale migliore legittimità ha di porsi rispetto a una qualunque fandonia? È una bella questione, c’è l’eventualità che rispondere a questa domanda non sia così semplice, e comporti a questo punto porsi delle domande che generalmente ciascuno non si pone mentre parla, ma fa male. Perché fa male? Fa quello che gli pare ma come dire? Non considerando questo aspetto continua a costruire proposizioni immaginando che procedendo lungo una certa via inesorabilmente giungerà a stabilire il “come stanno le cose” cioè la realtà delle cose. Prendete un qualunque manuale di logica, vi illustra e vi mostra come si prosegue un ragionamento logico, voi apprendete questi meccanismi e costruite un ragionamento perfettamente logico, coerente ecc. ma a questo punto cosa avete? Avete eseguite le regole di un gioco che può essere più o meno divertente, più o meno noioso, ma oltre a questo cosa è stato compiuto? Nulla? C’è questa eventualità, che non si sia fatto nient’altro che questo, cioè ci si è attenuti rigorosamente a delle regole di un gioco il quale prevede un certo andamento e consente di giungere ad una certa conclusione ma questa conclusione non dice nulla all’infuori del certificare la corretta esecuzione delle regole del gioco in cui è inserita, e qui generalmente si arresta il pensiero perché si trova di fronte a una sorta di abisso dove non c’è, non si reperisce la possibilità di potere affermare una qualche cosa che sia necessariamente vera, la verità che cercavano già gli antichi, quella sub specie et æternitate, che è sempre necessariamente vera. E allora ecco l’escamotage del relativismo, cioè questa cosa è relativa a me, per esempio, che lo penso cioè è vera per me. Che cosa sto dicendo con questo, che una certa cosa è vera per me? Sto enunciando un mio criterio di verità, ora a questo punto sorge un problema perché che cosa devo intendere a questo punto con verità, io ho detto la mia, va bene, ma che cos’è allora? Si riduce inesorabilmente alla mia opinione: io penso che sia così. Il che va bene, però tutto ciò rimane assolutamente arbitrario, per quanto io voglia invece stabilire la necessità di ciò che sto dicendo perché più ciò che dico riesco a renderlo necessario più è vero, necessario è ciò che non può non essere, ciò che non può non essere altrimenti che così, ma troppi intoppi sorgono prima di arrivare a questa meta, troppi e tali da impedirmi di arrivarci a meno che io non creda di esserci arrivato, semplicemente. Perché una psicanalisi si occupa di tutto questo? Perché una persona che racconta, che parla, che descrive, utilizza un sistema per giungere alla conclusione a cui giunge, e questo sistema è fatto in questo modo, cioè ha un andamento logico o più o meno logico, in ogni caso, a cui cerca disperatamente di attenersi cioè è fatto così, funziona in questo modo e questo andamento, che è ritenuto logico, coerente, deve confermare per esempio le cose che si credono, io credo questo, perché questo ha fatto così, quest’altro si è mosso cosà, quella cosa è fatta in un certo modo e quindi è necessariamente così e invece no, non è così semplice, il problema è che se rilevo che se le cose non stanno affatto così né in un altro modo e che qualunque altro modo posso confutarlo altrettanto facilmente, di nuovo mi trovo in una, chiamiamola nebulosa, per usare un termine mutuato da De Saussure, una nebulosa dove nulla ha maggiore diritto più di qualunque altra cosa a stabilirsi e cioè mi trovo preso nel discorso senza sapere dove vado, né perché e né sapere a cosa serve ovviamente, anche perché se volessi stabilire a cosa serve mi troverei prima o poi preso negli stessi inghippi in cui mi sono trovato nel cercare un criterio di verità per esempio. Dunque il discorso prosegue, prosegue comunque, è inarrestabile, ma allora a questo punto uno potrebbe prendere una qualunque direzione, abbiamo detto che tutto sommato varrebbe quanto qualunque altra, perché abbiamo preso questa anziché una qualunque altra per esempio? Per un motivo molto semplice: ci è parsa più interessante, con interessante intendo qualche cosa che offra maggiori possibilità di giocare. Faccio un esempio opposto così per semplificare, prendete una religione, una religione non consente di giocare molto perché si arresta ad un certo punto, e impone una fede, una credenza, una superstizione a seconda dei casi, dove si dice che è così e basta e lì ovviamente il discorso si arresta, allo stesso modo tutte le superstizioni, le credenze che qualunque persona può trovarsi ad avere arrestano il discorso ad un certo punto, su ciò che si ritiene essere la realtà delle cose, le cose stanno così e non ci posso fare niente, è un limite. Dunque costruire un gioco che non dovesse essere né migliore né peggiore di qualunque altro ma semplicemente consentisse di giocare di più, anche se apparentemente invece potrebbe sembrare non consentire affatto di giocare perché immediatamente arresta la possibilità di agganciarsi a qualcosa di vero, di reale ecc... e invece no, e invece consente di proseguire all’infinito costruendo altre proposizioni che non essendo limitate da nessuna costrizione, da nessuna credenza, possono costruirne infinite altre. Ciò che si incontra potremmo chiamarla una libertà estrema per darle un nome, ma è soprattutto un modo differente di pensare, dove qualunque elemento che intervenga nel discorso non può non essere considerato come l’elemento facente parte di un gioco che si sta giocando qualunque esso sia. E cosa comporta questo? Che se è un gioco lo gioco ovviamente, ma non posso credere che le cose stiano così, così come non credo che se il fante si mangia un cavaliere, si mangia un pedone, allora qualcuno si è divorato... non lo credo ma perché non lo credo? Perché è un gioco, si usa una sorta di metafora, di allegoria, tutta una serie di figure retoriche che consentono di muoversi senza credere che tutto ciò che si sta facendo sia altro da un gioco. Se so che è un gioco anche quello che sto facendo in questo momento non mi passa neanche per la mente di credere che io stia dicendo come stanno le cose, ma come si diceva tempo fa è come se mostrassi le regole di un altro gioco, un gioco nuovo e che potrebbe essere divertente, nient’altro che questo. Poi può avere degli effetti, può avere degli effetti nel senso che in molti casi lo stare male se sostenuto da cose che sono credute vere necessariamente, questo ovviamente si dissolve, si dissolve nel momento in cui non è più credibile che le cose stiano così, ma questo è un aspetto. Tutto il discorso occidentale anche quello più attento, quello più sofisticato, si è sempre trattenuto al di qua di queste considerazioni supponendo, non a torto, che proseguendo lungo questa via tutte le più grandi, le più notevoli e più importanti istituzioni si dissolverebbero e, dicevo, forse non a torto perché la buona parte di queste istituzioni sono sostenute da ciò in cui si crede, se uno cessasse di credere non sarebbe più sostenibile che per esempio un governo si occupi del bene del cittadino. Ecco ma questo appena per così dare un eco all’intervento di Sandro della volta scorsa, per riprendere alcuni aspetti. Forse Sandro vuole aggiungere qualche elemento?

- Intervento: questione della finalità, falso scopo, gioco e lavoro...

Bisognerebbe porre questa obiezione a Mathieu, un giocatore di poker, un professionista che gioca a poker per fare quattrini, in quel caso qual è il falso scopo?..

- Interventi:…

C’è questo aspetto che è importante, affermare per esempio che nel gioco c’è un falso scopo è un’affermazione che rischia di essere confutabile, nel senso che lui stabilisce che è così, ma perché dovrebbe essere così? Affrontare una questione in termini radicali come li stiamo ponendo è ciò che ci costringe ciascuna volta ad interrogare qualunque affermazione stiamo facendo, come sappiamo che è proprio così? Posso anche dire tranquillamente che in un qualunque gioco esiste un falso scopo, in questo caso sapendo benissimo che ciò che sto dicendo costruisce, sta costruendo, un discorso con delle regole precise una delle quali è lo stabilire che ciascun gioco ha un falso scopo, come dire che pongo questa proposizione a questo punto come una regola del gioco che sto facendo in ciò che dico, non come un principio o una verità ovviamente. Questo è un aspetto importante perché è questo che ci consente di procedere senza appoggiarci a nulla...

- Intervento: il gioco non ha finalità...

Come definirebbe Lei la nozione di gioco? Potrebbe essere interessante provarsi a definirlo...

- Intervento vari

Direi che rispetto a ciò che ho detto prima il gioco può essere anche questo e cioè una sequenza di proposizioni in cui l’unica finalità è quella di proseguire sé stessa, non ha nessun altro fine, nessun altro scopo se non quello di proseguire...

- Intervento vari

Certo, tutto ciò che ha questo fine e cioè di proseguire e nessun altro, questo potremo chiamarlo gioco, in questo senso ci aiuta questa direzione per intendere il gioco linguistico, intendere lo stesso andamento del discorso con nessun altro fine, nessun altra finalità se non quella di proseguire, di continuare a dire, non dire una certa cosa ma continuare a dire...

- Interventi vari su gioco e lavoro

In effetti la questione, l’abbiamo detto anche la volta scorsa, riveste un aspetto importante che consiste nello stabilire che cosa si intende con una certa cosa, se per esempio il gioco lo intendo all’interno di questo gioco, lo intendo come un discorso il quale prosegue con l’unica finalità che è quella di proseguire se stesso, ora si può dire che anche il lavoro abbia questa prerogativa o possa avere questa prerogativa. Se io il lavoro lo intendo in questa accezione sì, nel senso che se io amplifico una definizione posso fare rientrare dentro una infinità di cose. Questa definizione che ho data, per quanto provvisoria si distingue da ciò che è normalmente inteso come lavoro e cioè qualcosa che è finalizzato a una qualche cosa ma in questa accezione anche il gioco degli scacchi è finalizzato per esempio al piacere di giocare con un amico, al piacere di vincere o al piacere di altre cose, per quanto riguarda invece il gioco linguistico la questione è più complessa perché prosegue comunque, io poi posso dire che questo mi fa piacere o mi fa dispiacere, ma il fatto che dica una cosa del genere già è all’interno di questo gioco che prosegue....

- Intervento: Definendo il gioco una sequenza di proposizioni che hanno il solo scopo di continuare il discorso abbiamo messo fuori gioco in qualche modo la nozione di piacere, perché a questo punto la parola non finisce, non c’è un termine che chiuda il gioco...

Perché no? Io posso reinserire la nozione di piacere dicendo che il piacere è la prosecuzione del discorso...

- Intervento: questo è il gioco che sto facendo io comunque, per esempio leggevo Il Motto di spirito di Freud, laddove parla del motto e dice del gioco di parola, secondo Freud è di lì che scaturisce il piacere, da come giocano le parole, da come ad un certo momento dal combinarsi di queste parole si abbia un certo effetto. Pare che Freud indichi a questo punto il piacere nel gioco di parola, quello che stiamo dicendo mi sembra al di là di un gioco di questo genere, dove indico che il piacere sta nel gioco di parola puro e semplice per cui quello sarebbe il fuori gioco, sarebbe il senza parola, quello appunto e basta. Definendo il gioco sequenza di proposizioni è come se andassimo al di là di questo famoso principio di piacere...

Sì tra l’altro c’era una questione che mi diceva prima Roberto che ha ascoltato Ferraris che parlava del linguaggio in termini di verbalizzazione, per cui tutto ciò che non è verbale non è nel linguaggio. È un modo di porre la questione in termini molto ingenui, certo io posso anche affermare che il linguaggio è soltanto ciò che è verbalizzato e prendere questo come regola per giocare un gioco, nessuno me lo proibisce. Solo che questa regola che io pongo è negabile, come si fa a negare una cosa? Si dice di no. Semplice. Dice: il linguaggio è soltanto ciò che è verbalizzato. Io dico che non è vero. Ecco che l’ho negato. Posso negarlo anche in modo più articolato, ovviamente. Il problema è che lui non può provare una cosa del genere, cioè è una sua opinione un “io penso che sia così”. Va bene, perché no?

- Intervento:...

Sì, noi possiamo fare di più, possiamo provare questa affermazione e poi confutarla, provare che è vera e poi provare che è falsa. Già, perché se io dico che il linguaggio è verbale, solo verbale, compio una affermazione che afferma che il linguaggio è una certa cosa... cambio cassetta ... il linguaggio è necessariamente verbale perché non esiste nessun linguaggio che non sia parlato: Esiste un linguaggio che non può essere parlato in nessun modo? Se non fosse parlato in nessun modo non ci sarebbe nessun elemento per potere dire che è un linguaggio perché non è parlato e quindi necessariamente è parlato....

- Intervento:...

Be qui naturalmente si intende linguaggio in accezione più ristretta e potremmo dirla così, è tutto ciò che consente agli umani di potersi dire tali. Io posso intendere con linguaggio qualunque cosa e il suo contrario, il linguaggio delle api, il linguaggio del cielo, il linguaggio delle stelle...

- Intervento:...

Quindi abbiamo provato che il linguaggio è necessariamente verbale e abbiamo provato che non può essere in nessun modo verbale. Ma perché possiamo fare questo? Perché non muoviamo dalla considerazione che il linguaggio sia un quid, il linguaggio è un lessema e quindi possiamo farne tutto ciò che vogliamo, se invece lo immagino un quid allora devo cercare di stabilire cosa è necessariamente, che cosa è esattamente e allora a questo punto offro il fianco a obiezioni e confutazioni di ogni sorta, come è sempre avvenuto. Qualunque affermazione ha trovato sempre qualcuno Per quanto abile sia qualcuno ad affermare qualcosa troverà sempre qualcuno più abile di lui che glielo confuta

- Intervento: su educazione, insegnamento e correzione

Vera... dipende da cosa intendiamo, io posso insegnarle a giocare il poker, le insegno un gioco però non è che ritenga questa cosa vera più di qualunque altra, è un gioco...

- Intervento: Come fare ad insegnare se non so che cos’è la verità?

Questione legittima. Si tratta di porre le condizioni perché un bimbetto che nasce e cresce si trovi inserito in un struttura combinata in un certo modo e nella quale occorre che si sappia muovere, se non vuole essere massacrato, e allora gli si insegna a muoversi in un certo modo, certo poi questo comporta altre questioni. Nella scuola dell’obbligo si tratta di insegnare soprattutto a credere certe cose, l’informazione è un pretesto perlopiù ad insegnare a pensare in un certo modo, a mantenere un certo status quo... (...) come diceva il vostro presidente Scalfaro, il crimine più grande è quello di mettere in discussione la verità, questa è una delle sue affermazioni. Per un verso non ha torto da questo punto di vista, perché in effetti sarebbe fortemente minacciata la verità...

- Intervento:...

Però anche questo aspetto nichilistico viene impedito, perché per i nichilisti nulla ha senso, nulla ha valore e allora verrebbe da chiedergli perché dovrebbe avere senso? Anche questa è una questione legittima...

- Intervento vari

Si accettano alcune regole per giocare un gioco così semplicemente e di fronte alla scelta di infiniti sensi due sono le cose che potrebbero farsi, primo domandarsi che cosa si intende con senso, dopo di che considerare che il senso lo si incontra in effetti, proprio il senso nell’accezione di direzione, in questo caso è la direzione che prende il mio discorso. Ora questo senso che incontro, questa direzione, non è né più vera né falsa di qualunque altra ma non ha da essere né vera né falsa, so che non è provabile, quando vado dal tabaccaio e chiedo un pacchetto di sigarette non è provabile che questo sia un pacchetto di sigarette, è una regola del gioco, io mi attengo a questa regola per ottenere questo risultato se no se mi mettessi lì a fare questioni sarei ancora lì da tabaccaio...

- Intervento: con il drogato per esempio, come faccio a distorglierlo dalla...

No al contrario, si trova a parlare con il prossimo in un altro modo, così ascoltando dei giochi che altri si trovano a fare, magari credendoci, può venire a sapere alcune cose interessanti rispetto ai luoghi comuni, alle credenze, alle superstizioni ecc., certo senza mai trovarsi nella necessità di dovere prendere partito per così dire, per una cosa o per l’altra perché a questo punto effettivamente non è sostenibile. Però può giocare, può giocare con molta maggiore libertà e incontrare del senso man mano che parla...

- Intervento:...

Ciascuno parlando si trova già preso in un gioco necessariamente, questo è un problema di comunicazione, così come è generalmente intesa, abbiamo detto anche che dipende da cosa si intenda con comunicazione, perché può stabilirsi che la comunicazione è necessaria oppure che è impossibile. Che cosa avviene esattamente? Ciascuno coglie gli elementi che entrano a far parte del gioco in cui si trova in quel momento e ovviamente non è il mio, anche se delle regole sono le stesse, per esempio due persone possono giocare a scacchi in modo diverso attenendosi però a delle stesse regole che consentono a entrambi di potere giocare il gioco degli scacchi, ché se uno vuole giocare a scacchi e si presenta con un mazzo di carte va male, non gioca quel gioco, però possono giocare in modo molto diverso giocando lo stesso gioco...

- Intervento:...

Sono accezioni differenti, nell’accezione comune avviene così il lavoro sia qualcosa di serio dal momento che il gioco consente di non esserlo, perché il lavoro mette in gioco aspetti che si considerano seri, come quello della propria sopravvivenza per esempio. Il testo di Matthieu parlava proprio di questo, attribuire al lavoro un carattere quasi sacrificale per cui si deve necessariamente soffrire, deve essere pesante e questo avviene in moltissimi casi, non sempre ovviamente, però mantiene questo modo di pensare la dicotomia fra il feriale e il festivo, tra ciò che è dovere e ciò che è piacere e questo è funzionale fino ad un certo punto a ciascuna istituzione, poi come dicevamo ciascuno può intendere il gioco come ritiene più opportuno e fare rientrare in questa parola qualunque cosa. Va bene, ci vediamo martedì prossimo.