INDIETRO

 

 

27 aprile 2022

 

Platone Gorgia

 

Questa sera siamo con Platone e il dialogo è Gorgia. Come sapete, Gorgia era di Lentini, era un eleate, un sofista, un retore. Qui Platone non fa ancora grosse differenze tra sofistica e retorica, che lui mette grosso modo alla pari. Tra l’altro, se andiamo a vedere bene, non è che ci sia tutta quella differenza. In questo scritto Platone riprende la critica che muove nei confronti della retorica e, quindi, della sofistica, e ci mostra qual è il gioco che fa. Platone deve dimostrare che l’ente non solo è dominabile ma deve essere dominato. Tutte le operazioni che compie sono operazioni volte a mostrare che l’ente deve essere dominato, e l’accusa che rivolge agli eleati è che non si premurano di fare questo, cioè non lo dominano. Non dominando l’ente lasciano che l’ente sia, che si muova, che faccia, che dica, che racconti. Ma da questi dialoghi, che sono specifici sulla questione, emerge quanto vi stavo dicendo, e cioè la necessità, che Platone vuole quasi imporre, di creare, diciamola così, l’ente dominabile e dominato. Anche in questo dialogo, il Gorgia, Platone insiste sulle stesse cose su cui insisteva nei dialoghi precedenti – Parmenide, Eutidemo, Protagora, ecc. –, vale a dire, sul fatto che soltanto la dialettica illude di potere dominare l’ente. Ma per poterlo dominare deve sapere che cos’è, se non so che cos’è non posso dominare nulla. L’idea portante di Platone, come è noto, è quella del bene, tant’è che a un certo punto lui dice che la retorica non punta al bene. La retorica per Platone è una lusinga, cioè un qualche cosa che serve a persuadere attraverso blandizie, attraverso stratagemmi, in definitiva, attraverso inganni, senza mostrare come stanno veramente le cose. Perché è questo il suo obiettivo: se so che cos’è l’ente allora so come stanno veramente le cose. In che modo qui Socrate articola il suo discorso? Sempre alla stessa maniera, e cioè muove da un’analogia. A un certo punto lui, dialogando prima con Gorgia, poi con Polo e poi con Callicle, fa un’analogia che fa molto spesso quando discute intorno al piacere: i sofisti, per bocca di Platone, sostenevano che il piacere e il bene sono la stessa cosa; per Platone no. E da dove muove questa sua critica? Da un’analogia: così come il medico, per guarire deve, per es., amputare oppure dare da bere cose orrende per un bene superiore, allo stesso modo la dialettica opera in questa direzione, e cioè non si occupa di lusingare qualcuno, così come il medico non si preoccupa di dare al paziente qualcosa che gli faccia piacere ma qualcosa che gli farà bene, quindi, per un bene superiore. 454D. SOCRATE – Ed esiste anche una scienza falsa ed una vera? GORGIA – No, assolutamente. Dice no, assolutamente, non esiste una scienza falsa. Scienza sempre nell’accezione greca di sapere. Sta dicendo che non esiste un sapere falso: se so, so il vero. Che è esattamente l’opposto di quello che dicevano gli eleati quando parlavano del δοξάζειν, del sapere come credere di sapere; quindi, nulla di certo. Qui, invece, la scienza, il sapere è necessariamente vero. Perché per Platone il sapere è vero? Perché il sapere è un sapere dell’ente, è cioè un sapere che è legato a ciò che realmente è. Tant’è che a un certo punto fa un discorso in cui sostiene che è preferibile patire ingiustizia piuttosto che farla, cosa che scandalizza i presenti: ma come? Anche i bambini sanno che è meglio infliggere ingiustizia piuttosto che subirla. No, dice Socrate, perché l’uomo giusto, retto, temperante, è l’uomo che conosce, che sa le cose. E qui riprende un discorso che ha già fatto: non basta possedere dei beni se non si sa come utilizzarli al meglio; quindi, la cosa importante non è tanto il bene per se stesso, perché se io possiedo una tonnellata d’oro, dice Socrate, ma non so cosa farmene, perché non so nemmeno cosa sia, non mi è di nessun vantaggio; quindi, devo sapere. È sempre lì che va a parare: il sapere, la conoscenza come il bene supremo. Ma questa conoscenza, che lui arriva a porre come il bene, non può essere ingannevole perché è conoscenza dell’ente così com’è. Per lui la conoscenza, la scienza, è questo: un sapere dell’ente. Se so com’è l’ente non posso ingannarmi; posso ingannare altri facendo una serie di operazioni, ma io non posso ingannarmi se conosco veramente l’ente. Non potendo ingannarmi, è chiaro che a questo punto sarò un uomo giusto, che conosce la verità, conosce come stanno le cose. Che cosa accade nel fare ingiustizia a qualcuno? Bisogna sempre tenere conto di ciò che dice Platone, e cioè che ci si può ingannare solo per ignoranza, perché non conosco il vero ente, non so come stanno veramente le cose; solo così mi inganno e, quindi, posso anche fare ingiustizia. Se commetto ingiustizia vuol dire che sono una persona ignorante; se sono ignorante non so come agire bene, cioè non so come muovermi, non so come ottenere il bene perché non lo conosco, non so che cos’è, non so qual è il vero ente. E, quindi, ecco che il patire l’ingiustizia non è così grave – certo, è una cosa sgradevole, questo lo sapeva anche Socrate e, infatti, poi la subisce – ma non è così grave come il commetterla, perché il commetterla vuol dire non avere conoscenza, non sapere, e se una persona non sa è infelice, infelice perché non sa qual è il bene, non sa dove andare. Infatti, lui insiste con gli altri personaggi, Gorgia, Polo e Callicle, che ciò di cui si sta discutendo è la cosa più importante di tutte, perché è quella che dice come si deve vivere, e per vivere in modo retto occorre sapere come stanno le cose, occorre cioè dominare l’ente. 467A. Infatti, se mi lascerai inconfutato, resterà vero che i retori, così come i tiranni, i quali fanno nelle Città ciò che loro pare, non avranno acquistato in questo alcun bene, se veramente il potere – come tu affermi – è un bene, e il fare ciò che pare, senza intendimenti – come tu stesso ammetti – è un male. Se mi lasci inconfutato allora è vero. La dialettica si basa su questo: se giungo a una conclusione, che ritengo vera, ed è vera se non contraddice le premesse da cui parte – questo fino a Kant: il vero per Kant è ciò che non è autocontraddittorio – allora, non solo è vero ma esiste, è reale. E questo ci ha portati fino ad Anselmo, alla prova dell’esistenza di Dio: dimostro una certa cosa e se la dimostrazione è corretta, allora non è solo vera ma corrisponde alla realtà, al come stanno le cose. Qui Socrate dice che l’ingiustizia è il più grande dei mali; Polo allora gli porta alcuni esempi di personaggi, tra cui Pericle, Temistocle, ecc., personaggi che sono stati grandiosi per la Grecia, pur avendo ottenuto il potere non sempre correttamente, quindi, commettendo ingiustizia. Che cosa obietta Socrate? Obietta che lui non si cura delle testimonianze che gli si portano, anche perché di testimonianze se ne possono portare altre, ma vuole essere confutato dal suo interlocutore: non mi interessano le testimonianze che mi porti, io voglio che tu mi dimostri che io sto dicendo il falso. Basandosi soprattutto su una idea portante che qui dice: 473C. …la verità non si confuta mai. Questo racchiude un po’ tutto il pensiero di Platone: la verità non si confuta mai. Naturalmente, prima bisogna stabilirla. Come la stabiliamo? La stabiliamo nel modo di Socrate, e cioè si parte dall’analogia: così come il medico deve amputare, deve fare del male per un bene superiore, così l’anima deve essere indirizzata, non attraverso le blandizie, ecc., ma attraverso il rigore del ragionamento. Cosa che è abbastanza discutibile. Intanto, si può semplicemente dire che quello che accade nel corpo non si vede perché dovrebbe accadere anche allo spirito, chi l’ha detto che c’è questa correlazione così stretta? Forse c’è, forse no, non lo sappiamo. Quindi, dire che la verità non si confuta mai comporta il partire da un’idea di verità assolutamente incerta, traballante, tutt’altro da quella certezza dell’έπιστήμη, una certezza assoluta, certificata, stabilita, verificata. La verità cui si riferisce Platone è la verità che si ottiene attraverso l’argomentazione, cioè attraverso i discorsi. È chiaro che Platone non aveva le idee molto chiare sul funzionamento del linguaggio, perché dire che si raggiunge la verità attraverso il dialogo, quindi, attraverso le parole… e, infatti, dice che se mi lasci inconfutato, resterà vero che… Infatti, se vi ricordate, nel testo di Heidegger, a un certo punto Platone si accorge che l’ente, quindi, il vero, stanno nel λόγος, fino ad arrivare verso le ultime posizioni dove parla del πρός τί, cioè dell’in vista di, qualcosa che è ciò che è sempre in vista di qualche cos’altro. Cosa che Platone non è che approfondisca un granché, neanche gli eleati, ma gli eleati quanto meno la accolgono. Platone no, perché se questo è quello che è per via di un’altra cosa, allora è quello che è a condizione di non essere quello che è, perché è quello che è in relazione ad altro. Ecco perché lo stabilire la verità si raggiunge con il dialogo, con le parole, con il discorso. È come se dovesse eliminare ciò che stesso che lui ha rilevato, e cioè che il λέγειν è λέγειν τί, il dire è necessariamente dire qualcosa. Quindi, c’è il dire e il qualcosa che il dire dice, due cose inseparabili ma distinte: il dire non è ciò che il dire dice. Il problema di Platone è di trovare un qualche cosa che gli consenta di illudere lui stesso, e molto più degli eleati, che l’ente sia conoscibile. Lo stesso Gorgia diceva che nulla è, se qualcosa fosse non sarebbe conoscibile, se fosse conoscibile non sarebbe comunicabile. Già avevamo posto la questione in termini problematici: se dico che nulla è, vuol dire che già è qualcosa. Ma, al di là questo, Platone è costretto a mantenere separati il λέγειν dal τί, immaginando che il dire… Anche se poi lo critica, vedete che non è poi così lontano da Antistene, cioè, quando devo determinare, nominare qualcosa, posso solo dire il suo nome. Era questo che diceva Antistene, che appare come una banalità, una ingenuità, ma fino a un certo punto, ancora oggi si pensa così. Tutto ciò che questo λέγειν mette in movimento… La questione del movimento per Platone era importante, si accorge che il λόγος è movimento, se ne accorge ma non vuole prenderlo in considerazione, perché è movimento verso altro. Quello che danna l’anima a Platone, che non riesce in alcun modo ad addomesticare, è che per affermare devo negare: se voglio affermare A devo negarla, perché, affermando che A è A o A è B o qualunque cosa, dico un’altra cosa, anche se dico che A è A, comunque sia è un’altra A. Quindi, per affermare devo negare o, come dicevamo l’altra volta, per determinare posso farlo solo attraverso l’indeterminabile. E, pertanto, non c’è nessuna possibilità di dominare l’ente nel modo in cui voleva Platone. Che poi non riesce mai di fatto, i suoi dialoghi restano quasi sempre inconclusi, tranne rare eccezioni: non c’è una conclusione dove si afferma “è così”. È come se la conclusione fosse sempre rinviata a un altro momento più opportuno. Questo la dice lunga sulla volontà di potenza, perché dice che la volontà di potenza è necessaria: è necessario dominare l’ente, perché solo se lo domino lo conosco, solo attraverso la conoscenza posso giungere al bene, e il bene non è altro che la conoscenza dell’ente, del vero ente, ὅν ἀληθής. Tira sempre in ballo la conoscenza perché la conoscenza è la via di accesso, secondo Platone, all’ente; quindi, deve essere conoscenza vera dell’ente vero. Ma come determinarlo questo ente vero, e anche la stessa conoscenza? Ricordate come concludeva il dialogo, il Protagora, rispetto alla virtù: prima abbiamo detto che non è insegnabile, poi che è insegnabile, ma ancora non sappiamo che cosa sia la virtù, cioè, questo insegnabile e questo non insegnabile non sappiamo, di fatto, a che cosa si stia riferendo. Tuttavia Platone ha praticamente passato tutta la sua vita per mostrare, o meglio, come dicevo prima, per illudere che l’ente sia conoscibile. Come? Qui torniamo a questioni già dette in precedenza, ma è il caso di ricordarle: attraverso che cosa propriamente posso essere certo che l’ente sia quello e nient’altro? C’è un solo modo: la censura, cioè impedendo che qualcuno domandi ulteriormente. Una volta che ho stabilito una certa cosa, nessuno può andare oltre. È chiaro che la censura è una delle modalità della volontà di potenza, però è una modalità che lascia il tempo che trova, non dà mai la certezza. Certo, posso zittirlo, però quelle cose che ha da dire non le ho confutate, in nessun modo, e quindi rimangono perché ciò che non è confutato rimane, come ha detto prima in modo esplicito: se non mi confuti rimane vero questo. Platone dunque, ha detto che è preferibile l’uomo giusto, quello vero, corretto, virtuoso, ecc., che preferisce subire l’ingiustizia anziché farla, perché se la fa allora vuol dire che è ignorante, quindi, non ha conoscenza, quindi non può essere felice, perché per essere felici occorre avere la conoscenza per adoperare i propri beni nel modo migliore, i propri beni come il proprio pensiero, per esempio. Se io non ho la conoscenza mi muovo allo sbaraglio, di qua e di là, senza sapere niente e, quindi, non posso essere felice perché non raggiungo mai l’obiettivo. Callicle qui deride Socrate, gli chiede addirittura se stia scherzando o parlando sul serio. Callicle fa un discorso che sarebbe interessante leggere perché è un esempio tipico di discorso retorico, un discorso suasorio, retoricamente detto parenetico. 482C. Caro Socrate, tu conduci i tuoi discorsi con giovanile baldanza, e ti comporti veramente come un oratore popolare. E anche ora tu parli come un oratore popolare, perché Polo si è trovato vittima di quella situazione stessa, nella quale egli accusava Gorgia di essere venuto a trovarsi nei tuoi confronti. Infatti Polo diceva che Gorgia, alla domanda da te rivoltagli, se fosse in grado di insegnare la giustizia a chi fosse andato da lui per imparare la retorica senza sapere che cosa fosse la giustizia, si vergognò di dire di no e disse che gliela avrebbe insegnata, solo per conformarsi ad un certo costume degli uomini, i quali si sdegnerebbero si uno dicesse di no. Come dire: la giustizia non serve a niente alla retorica, però deve dire che è importante, perché sennò poi fa brutta figura. 482E. Ma la natura e la legge tra loro sono per lo più contrarie. Perciò quando uno per vergogna non ha il coraggio di dire le cose che pensa, si trova costretto a contraddirsi. E tu, ben conoscendo questa astuzia, te ne servi in modo subdolo nei ragionamenti, spostando la tua domanda sul piano della natura, se qualcuno parla secondo la legge, e viceversa spostandoti sul piano della legge, se l’altro si muove su quello della natura. Ed è questo, appunto, che hai poco fa circa la questione del fare e del ricevere ingiustizia: infatti, mentre Polo parlava di ciò che è più brutto secondo la legge, tu hai subito spostato il discorso sul piano della natura. Secondo natura, in effetti, è più brutto tutto ciò che è anche peggiore, quindi il patire ingiustizia; secondo la legge, invece, il fare ingiustizia; secondo la legge, invece, il fare ingiustizia. Infatti, non è cosa degna di un uomo subire questo, ossia subire ingiustizia, ma è cosa degna di uno schiavo qualunque, per il quale meglio essere morto che vivere, dal momento che, quando è vittima di ingiustizia e viene offeso, non è capace di portare soccorso a se stesso, né ad alcun altro di cui abbia cura. Ma io credo che quelli che hanno stabilito le leggi siano stati gli uomini deboli e la massa. Qui ci sarebbe un’altra questione interessante: Socrate pone la legge al di sopra di tutto, ma non si chiede mai che cosa sia, da dove arrivi, chi l’ha stabilita. Bismarck diceva che le leggi sono come le salsicce, non bisogna mai domandarsi come vengono fatte. E, invece, Socrate, come direbbe Heidegger, non problematizza mai la questione della legge. Per lui la legge è il bene stabilito, ma non si domanda da chi e perché. Ma continua Callicle. Dunque, a proprio favore i deboli pongono le leggi, cantano lodi e levano biasimi. E per spaventare coloro che sono più forti e capaci di avere sopravvento, in modo che non abbiano più di loro, dicono che è brutto e ingiusto avere sopravvento sugli altri, e che questo appunto è il commettere ingiustizia: il cercare di avere più degli altri. E io credo che essi amino ottenere l’uguaglianza, perché sono più deboli. Callicle sostiene il diritto del più forte, che ha maggiori possibilità, maggiore abilità, maggiore intelligenza e, quindi, è quello cui spetta di diritto il potere. E accusa Socrate – la stessa accusa per il quale poi Socrate verrà ucciso – di plasmare i giovani, gli uomini in generale, secondo un modello di incapacità, di debolezza, anziché di forza e di fermezza. Cosa risponde Socrate? 487E. SOCRATE - E di quale prova mi avvalgo? Te lo dirò. So, o Callicle, che tu, Tisandro di Afidna, Androne di Andozione e Nausicide di Colarge, tutti e quattro vi siete dedicati alla sapienza insieme; e ho sentito che una volta avete tenuto consiglio per stabilire fino a quale limite si dovesse coltivare la sapienza e so che prevalse fra voi questa opinione, ossia che non bisogna dedicarsi alla filosofia con troppa acribia; anzi, vi esortavate l’un l’altro ad essere cauti,… Callicle diceva: sì, la filosofia va bene quando ci si forma da ragazzi, ecc., ma da adulti occorre fare; cioè, era più rivolto alla πρᾶξις, all’agire. La filosofia non serve, è la retorica che persuade, che muove le persone, per far fare loro quello che è opportuno che facciano; naturalmente, mosse da quello forte, da quello che sa, il quale, conoscendo la retorica, muove le persone nella direzione giusta. 487D. SOCRATE – Ed è proprio la ricerca più bella di tutte, o Callicle, quella che concerne queste cose a proposito delle quali mi hai criticato: quale debba essere l’uomo, di che cosa debba occuparsi e fino a che punto, sia quando è vecchio, sia quando è giovane. Infatti, se faccio qualcosa in modo non retto nella mia vita, sappi che in ciò non erro volontariamente, ma erro per mia ignoranza. Questa è la tesi fondamentale di Socrate e di Platone. /…/ Riprendiamo, dunque, da capo. Che cosa affermate che sia la giustizia, quella secondo natura, e tu e Pindaro? Che il più forte si approprii con violenza delle cose dei più deboli e che il migliore domini sui peggiori e che chi vale di più abbia più di chi vale meno? /…/ Ma il migliore e il più potente sono la medesima cosa? Chiaramente no. Socrate porta nuovi esempi – sempre esempi, sempre induzioni – e dice: se degli schiavi sono più forti di te, allora, essendo più forti, sono migliori di te. Ovviamente, Callicle deve negare una cosa del genere, non può dire che gli schiavi sono migliori di lui. Quindi, si tratta di capire che cosa significhi qui “migliore”. 488E. SOCRATE – Ma allora i più non hanno, forse, questa convinzione, come poco fa tu dicevi, che è giusto che tutti abbiano eguaglianza e che è più brutto il fare che non il ricevere ingiustizia? È così o no? E bada di non lasciarti prendere anche tu dalla reticenza. Sono convinti o no, i più, che il giusto consista nell’avere uguaglianza e nel non avere più degli altri e che sia più brutto il fare ingiustizia che non il riceverla? Platone, in realtà, vuole fare ammettere a Callicle che è giusto così, e cioè che ciascuno abbia dei diritti e che il governo non debba essere una sorta di oligarchia ma una democrazia – tenendo presente che la democrazia di allora non è quella attuale. Ma non c’è una controargomentazione, non controbatte Callicle con un’argomentazione forte, non lo confuta, ma a un certo punto Socrate conclude e dice 489A. Allora, non solo per legge il fare ingiustizia è più brutto del riceverla e non solo per legge è giusta l’uguaglianza, ma anche per natura: sicché è probabile che tu, nei ragionamenti precedenti, non abbia detto il vero o che non mi abbia rimproverato giustamente, dicendo che la legge e la natura sono tra loro opposte, e che io, ben sapendo queste cose, nei ragionamenti mi avvalgo dell’astuzia di portare il discorso sul piano della legge se uno parla secondo la natura, e di portarlo sul paino della natura se uno parla secondo la legge. Dove vuole arrivare Socrate? A dire che il migliore è il più intelligente. Ma cosa vuol dire il più intelligente? Quello che ha maggiore e migliore conoscenza. Ma qual è la conoscenza, quella vera, se non la conoscenza dell’ente per come esso è? 490E. SOCRATE – Ma dimmi, finalmente: chi sono coloro che tu dici essere migliori? CALLICLE – Dico che sono i più validi. SOCRATE – Vedi, dunque, che anche tu dici solo parole e non dimostri nulla. Dice solo parole. Lui stesso, Socrate, invece, aveva detto che siccome erano giunti a una certa conclusione, e l’altro non l’aveva confutata, allora era vero. Ma erano parole anche quelle. Com’è che a un certo punto sono solo parole e, invece, prima erano considerate come cose? Non mi vuoi dire se migliori e più potenti tu intendi coloro che hanno più intelligenza, oppure altri? /…/ Spesso, dunque, uno solo che abbia intelligenza, secondo il tuo ragionamento, è più potente di moltissimi altri che non hanno intelligenza, e costui deve dominare e gli altri devono essere da lui dominati, e chi domina deve avere più di quelli che sono dominati. Mi pare che tu voglia dire questo – e non vado a caccia di parole! – se uno solo è più potente dei moltissimi! CALLICLE – È proprio questo che dico! Questo, infatti, credo sia il giusto secondo natura: che chi è migliore e più intelligente comandi ed abbia di più di quelli che sono inferiori. A questo punto Socrate piega la cosa verso un’altra questione. Dice quelli che sono i migliori devono avere di più. Ma, chiede, è l’avere tante cose che rende l’uomo felice? 492E. SOCRATE – Dunque, non è vero che quelli che non hanno bisogno di nulla sono felici! Prima diceva che se uno ha bisogno di nulla appare più felice di quello che è sempre preso da continue ricerche, ecc. Sì, certo, dice Callicle, se non ha bisogno di niente, è come una pietra. Questa è una tipica argomentazione retorica: fare immediatamente un controesempio, un paragone. CALLICLE – Infatti, le pietre e i morti, a questo modo, sarebbero i più felici. SOCRATE – Però anche come sostieni tu, la vita è terribile. E io non mi meraviglierei se Euripide… /…/ Anche noi, in realtà, forse siamo morti. Io ho già sentito dire, infatti, anche da sapienti, che noi, ora, siamo morti e che il corpo è per noi una tomba… /…/ E un uomo ingegnoso, un siculo o forse un italico, parlando per immagini, mutando di poco il suono del nome, chiamò “orcio” questa parte dell’anima. /…/ E, al contrario di quel che dici tu, costui, o Callicle, dimostra come di coloro che sono nell’Ade (così egli chiama l’invisibile) i più infelici siano i non iniziati e come siano costretti a portare nell’orci forato dell’acqua con un crivello esso pure forato. Qui lui si pone la questione del piacere, del bene come piacere, e allora il soddisfacimento del piacere sarebbe il bene, quello cui ciascuno aspira. Socrate gli obietta: sì, però questo soddisfare un bisogno va bene di per sé, ma la sete, per esempio, non è bella, è bella se puoi soddisfarla, sennò la sete di per sé non è nulla di piacevole. E, allora, costringe Callicle ad ammettere che ci sono cose piacevoli e spiacevoli simultaneamente, come la sete e il togliere la sete: la sete di per sé è spiacevole, il togliere la sete è piacevole. La questione, in effetti, verte sempre intorno a questo, al fatto che il piacere non è il bene, perché, dice Socrate, il piacere necessita di un male per essere piacere, cioè della sua assenza, come la sete, ecc. Il bene, invece, dice Socrate, è un’altra cosa, il bene viene dalla conoscenza. C’è poi una questione interessante. 500E. SOCRATE – E ora approva anche tu ciò che dissi a costoro, se ti pareva che allora dicessi il vero. E dicevo all’incirca questo: non imi pare che la culinaria sia un’arte ma una pratica… Si riferisce a quando accostava la culinaria alla retorica, come arte dell’inganno, perché il cuoco inganna il palato e dà piacere, mentre il medico non dà piacere ma somministra ciò che giova … mentre un’arte è la medicina; e dicevo che l’una, la medicina, indaga la natura di ciò cui essa rivolge la sua cura e la causa di ciò che fa ed è quindi in grado di rendere conto di ciascuna di queste cose; invece l’altra, quella che riguarda il piacere, e che al piacere rivolge tutta la sua cura, si dirige ad esso senza arte, senza prima indagare la natura del piacere né la causa di esso… Se riferito alla retorica e alla dialettica, la retorica non si cura prima di indagare l’ente …senza nulla calcolare, ma solamente conservando con la pratica e l’esperienza il ricordo di ciò che suole avvenire, così facendo procura i piaceri. Senza nulla calcolare. Qui, da qualche parte, parla anche della geometria, che secondo lui ha un’importanza determinante. Infatti, all’entrata del Liceo c’era una scritta, che diceva più o meno così: non entra chi non conosce la geometria. Ma perché il calcolo e la geometria? Perché il calcolo, questo lo diceva già nel Teeteto, rappresenta la dominabilità dell’ente, l’ordine. La geometria è l’ordine, l’ordine delle cose: se le cose sono ordinate, allora so dove sono, cioè, le controllo, le domino. E, infatti, lui si richiama al calcolo e alla geometria. 506E. SOCRATE – Dunque, un determinato ordine che è presente in ciascuno ed è peculiare di ciascuno è ciò che rende buono ciascuno degli esseri. Tutto questo, l’ordine, la temperanza, ecc., non è altro che il controllo delle cose. 507E. E i sapienti dicono o Callicle, che cielo, terra, dei e uomini sono tenuti insieme dalla comunanza, dall’amicizia, dalla temperanza e dalla giustizia: ed è proprio per tale ragione, o amico, che essi chiamano questo intero universo “cosmo”, ordine, e non, invece, disordine o dissolutezza. Ora, mi sembra che tu on ponga mente a queste cose, pur essendo tanto sapiente, e mi sembra che ti sia sfuggito che l’uguaglianza geometrica ha un grande potere fra gli dei e gli uomini. Tu credi invece che si debba perseguire l’eccesso: infatti trascuri la geometria! Poi, c’è un’altra critica alla retorica. Callicle aveva detto che attraverso la retorica la persona può salvarsi dalle accuse, ma Socrate ribatte che salva il corpo ma non salva l’anima. 513C. Tutti, infatti, provano piacere nell’udire discorsi consoni al proprio modo di sentire e di pensare e si sdegnano nell’udire quelli che non lo sono; a meno che tu, o amico carissimo, non la pensi diversamente. Naturalmente Socrate si ritiene l’unico in condizione di parlare correttamente di politica; la politica non come l’arte dell’inganno ma come quell’arte che deve rendere migliori. Come l’arte può rendere migliori? Quell’arte che consente, attraverso la dialettica, di giungere alla conoscenza dell’ente in quanto tale, quindi, alla conoscenza del bene. Perché la verità non è confutabile e, quindi, è quella, e quello è il bene, è l’Uno; mentre sappiamo che i molti sono il male. E conclude il dialogo così. 527B. E tra i tanti ragionamenti che si sono fatti, mentre tutti gli altri sono stati confutati questo solo resta saldo: che bisogna guardarsi dal commettere ingiustizia più che dal riceverla, che l’uomo deve preoccuparsi non di apparire ma di essere buono, e in privato e in pubblico. E se qualcuno commette qualche ingiustizia, lo si deve punire, e questo è il bene che viene secondo, dopo l’esser giusto, ossia il diventare giusto e scontare la pena subendo il castigo. Per Socrate il castigo è bene, perché il castigo raddrizza la persona, perché da infelice che era, per avere commesso ingiustizia a causa della sua ignoranza, viene corretto dalla sua ignoranza mostrandogli la corretta via. Alla fine dice 527E. Serviamoci, dunque, del ragionamento, che ora ci si è rivelato come vero, quale guida: esso infatti ci dimostra che questo è il più eccellente modo di vivere: esercitare la giustizia ed ogni altra virtù e così vivere e morire. Chi ce lo mostra? Il ragionamento, quindi, proposizioni, sequenze di proposizioni, nient’atro che questo. È un dialogo che non fa che confermare le tesi già esposte da Platone, e cioè quanto sia necessario dominare l’ente. Perché lui sta dicendo questo: dominare l’ente, conoscerlo, che è la stessa cosa, è il bene; dominare è bene. Lui non lo dice, non lo vuole dire, perché sembra quasi la tesi di Callicle che il più forte deve dominare. Ma lui vuole dominarlo attraverso il ragionamento, cioè attraverso l’inganno, anche lui, né più né meno di come facevano, secondo lui, i sofisti; con un inganno più pesante, perché Platone illude che non sia inganno ma sia vero, l’unica verità, mentre gli eleati sapevano che è un gioco di parole, nient’altro che questo. Quello che abbiamo letto, questi dialoghi di Platone, sono le basi del pensiero. Mercoledì prossimo leggeremo il Menone. Lo faremo per un motivo: nel Menone Platone descrive la sua teoria della reminiscenza. Tempo fa ebbi questa idea che questa teoria di Platone non fosse che una prima forma, rozza, di mito intorno al linguaggio, perché nel Menone mostrando che lo schiavo di Menone, pur non sapendo nulla di geometria, riesce invece a dimostrare il teorema di Pitagora, vuole dimostrare che lo schiavo di Menone sa già tutte queste cose. Ma come le sa? Da dove arriva questo sapere? Certo, se si intende la cosa così come la poneva lui, come nel mito, come la reminiscenza di idee che sono nell’Iperuranio, non si va molto lontano. Invece, inteso in quest’altro modo, allude al linguaggio. Lo schiavo di Menone può costruire tutta la dimostrazione perché è nel linguaggio, perché quando sa una cosa le sa necessariamente tutte. Se sa una cosa deve necessariamente saperle tutte per sapere quella cosa particolare. Quindi, sarà interessante leggerlo. Potrebbe essere il primo rozzo mito intorno al linguaggio, un modo per avvertire, potremmo quasi dire, l’intero, il concreto. In seguito, leggeremo la Retorica di Aristotele. Tutto ciò ci ha indirizzati sulla retorica, ma sulla retorica come volontà di potenza. Dopo tutto, le indicazioni che fornisce Platone vanno nella direzione della volontà di potenza. Lui dice che è necessario dominare l’ente, perché soltanto dominandolo io ho la conoscenza vera; soltanto dominandolo so come stanno esattamente le cose.