INDIETRO

 

 

27-4-2016

 

Le cose che stiamo leggendo ci introducono alla questione che ci importa di più, che è la questione della logica, nel modo in cui la pone Heidegger ovviamente. La logica non è necessariamente uno strumento per stabilire la verità imperiale, come è sempre stato, per stabilire chi ha ragione e chi ha torto. Quando diciamo “verità” subito pensiamo a tutto ciò che questo comporta, mentre il greco antico pensava ἀλήθεια, pensava ciò che si disvela, ciò che cessa di essere nel velato e appare, quindi nulla che possa consentire alla logica moderna di pensarsi) Quando interpretiamo ciò che viene prima e ciò che si fa avanti come pre-supposto ecco che la logica ci ha già sopraffatto (qui si riferisce alla logica moderna) e ci ha già accecato con una forza tale che non può essere mai contrastata con gli stessi mezzi che hanno prodotto l’accecamento, ma la logica intesa come istanza in grado di decidere dell’essenza dell’essere non è solo in se stessa problematica e basata su una competenza infondata (parla dei logici) piuttosto questa istanza, vale a dire la relazione tra positivo e negativo (vero/falso - 1/0) non la troviamo assolutamente mai nel pensiero iniziale (ecco, non c’era una cosa del genere) costringiamo φύσις e κρπτεσθαι (che sapete sono il sorgere delle cose e il nascondimento) a sottostare a una relazione del tutto estranea se facciamo, dell’accordo interpretato come punto di congiunzione in cui entrambi gli elementi sono uniti nell’essenza, il fulcro del rapporto tra il positivo e il negativo. (cioè dice non è possibile pensando come pensava il greco alla φύσις se a κρπτεσθαι (che la logica moderna penserebbe 1/0: φύσις 1, crÚptesqai 0), non è possibile porli in questi termini detta in modo molto banale) d’altro canto nel dire dei pensatori iniziali ricorre manifestamente il termine “φύσις” certamente dobbiamo anche riflettere e meravigliarci del fatto che nella φύσις, nel sorgere (parla di φύσις sempre come sorgere, non di natura, che non c’entra assolutamente niente) è pensata e mantenuta vicina a la ἀλήθεια in questo sorgere, questa parola è vicina all’ἀλήθεια, in essa si mostra però anche l’alfa privativa, il fatto che nel sorgere domina originariamente il rapporto col nascondere e con il nascondimento. Sulla via di tale riflessione ci troviamo di fronte a un enigma che nessuna “logica”, che nessuna “dialettica” che è lo strumento più potente della logica, finora hanno risolto perché non lo possono risolvere in quanto non sono capaci di guardare in faccia questo enigma, l’enigma è il seguente: la φύσις indica in primo luogo il sorgere differenziandolo dal tramontare ossia la φύσις il suo rapporto col κρπτεσθαι, ossia la φύσις nel suo rapporto col κρπτεσθαι, poi indica l’essenza unica dell’accordo di φύσις e κρπτεσθαι (l’enigma è il seguente: differenzia il sorgere e tramontare, φύσις da κρπτεσθαι, e al tempo stesso li rapporta l’uno all’altro, sono differenti ma si presuppongono reciprocamente. Questo era anche l’enigma per De Saussure: come è possibile individuare, delimitare, determinare il significante se per determinare il significante ho bisogno del significato? Come posso delimitare, determinare il significato se per farlo devo dirlo, cioè devo usare un’altra cosa che è il significante? Capite che c’è questo differire, come diceva Derrida, questo differimento che è anche differenza, questo differimento continuo dall’uno all’altro, e questo è l’enigma di De Saussure, che di fatto non ha risolto. Rimane l’enigma della linguistica, del segno, irrisolvibile posto in questo modo, irrisolvibile così come non è irrisolvibile la metafisica, come dire che il significante risulterà sempre un mistero perché non saprò mai che cos’è perché per saperlo ho bisogno del significato, la stessa cosa per il significato, non saprò mai che cos’è veramente perché ho bisogno del significante se no il significato non è niente) Che cosa vuol dire questo duplice significato della φύσις? (duplice nel senso che da una parte differenzia però al tempo stesso è anche in armonia, lo diceva prima, con il κρπτεσθαι: il sorgere con il nascondimento) anche in questo caso davanti a noi che non siamo ancora sfuggiti al potere della metafisica perciò della logica (il fatto che la logica sia metafisica su questo Heidegger non ha alcun dubbio e a mio parere non ha tutti i torti) si trova uno schema precostituito che ci fa comprendere “logicamente” questo enigma e così lo annulla, il sorgere il tramontare hanno tra di loro un legame φλει in greco, essi stessi sono i membri della relazione, i correlati (i termini sono il sorgere e il tramontare) sono in relazione, la φύσις è nello stesso tempo il nome di uno dei due membri della relazione e il termine che indica la relazione stessa, la φύσις è la relazione stessa uno dei membri della relazione, possiamo pertanto ricondurre l’enigma alla seguente domanda: come è possibile e da che cosa dipende che qualcosa possa e debba essere al tempo stesso sia la relazione che un membro, sia la relazione che un membro della stessa relazione, come è possibile? A questa domanda espressa in modo conforme allo schema della logica, potrebbe darci una risposta, a quella che è considerata la suprema istanza all’interno della logica che fa parte della metafisica, vale a dire, la dialettica, essa potrebbe farlo facendo riferimento al fatto che proprio il pensiero in quanto è un compiersi di atti dell’io pensante, vale a dire dell’io inteso come io penso, ha la caratteristica essenziale nell’ambito della relazione che si rappresenta un oggetto di essere sia questa relazione sia un componente della relazione stessa appunto l’io che in quanto si rappresenta qualcosa si relaziona all’oggetto (questo comporta la dialettica e cioè due termini si compongono nella sintesi, nell’elemento che li comprende entrambi, però li comprende entrambi ma non è questi. La sintesi fa parte della relazione e quindi è al tempo stesso un membro della relazione tra sintesi e tesi e antitesi, al tempo stesso è la relazione perché è ciò che mette insieme gli altri termini) /…/ Ma anche se non paragoniamo più come abbiamo tentato di fare in precedenza il rapporto che vi è tra φύσις e κρπτεσθαι, tra sorgere e tramontare, alla relazione logico tetico formale di positivo e negativo (“tetico” viene da tesi, il tetico è ciò che pone qualche cosa) il primato del sorgere sussiste ancora (quindi il primato della φύσις su κρπτεσθαι) esso risulta evidente se noi consideriamo il sorgere nel senso dell’aprirsi della radura luminosa Lichtung e lo pensiamo a partire da ciò che risulta propriamente determinato da questo sorgere, si tratta dell’ente stesso che si manifesta nel sorgere (il significante) poiché l’ente dipende da ciò che si manifesta e viene alla presenza, il sorgere ha il predominio (il significante, sta dicendo Heidegger, dipende dal significato, è il significato che lo fa sorgere, il significato potremmo intenderlo come appunto la Lichtung cioè quell’apertura, l’essere che consente al significante di apparire, o all’ente se preferite) Dal punto di vista dell’ente tutto dipende dall’essere nella luce del quale sorge e si dischiude l’essere (che sorge e si dischiude, è il divenire) l’ente può essere presente in quanto tale (tutto dipende dall’essere, l’ente può essere quello che è in base all’essere, il significante può essere quello che è se si apre un significato, è il significato che consente al significante di manifestarsi quindi di dirsi, che è un altro modo per dire che occorre già essere nel linguaggio per potere dire qualcosa) In questo modo il primato del sorgere viene a fondarsi sul primato dell’ente ecco allora che davanti a noi si pone il seguente interrogativo: perché tutto dipende dall’essente e non piuttosto dal non essente opposto dal nulla considerato uguale al non essente? (occorre porre qualche cosa perché ci sia qualcosa, per potere farne qualche cosa, perché qualche cosa possa avviarsi. Dal nulla non sorge nulla, occorre porre un elemento, affermarlo, dopo che si è affermato si può negarlo, ma occorre affermare qualcosa. “Perché l’essente e non piuttosto il nulla?” che secondo lui è la domanda fondamentale della metafisica, della filosofia “perché esiste qualcosa anziché nulla?”) Inoltre vale a dire a prescindere dal problema del primato tra l’essente e il non essente, l’essere non potrebbe dispiegare la propria essenza in modo che in generale si dia la possibilità di stabilire se l’ente sia oppure non sia? /…/ Pensiamo la φύσις in modo iniziale solo quando la pensiamo come accordo, come armonia (sempre tra φύσις se κρπτεσθαι, tra sorgere e nascondimento) che riconnette il sorgere al nascondere mettendolo al riparo e lasciandolo essere proprio come ciò che deriva essenzialmente da questo nascondere custodente, proprio per questo quindi chiamiamo il sorgere in modo più adeguato il “disvelare” (vedete, il sorgere, cioè la φύσις, qui si pone come ἀλήθεια, come la verità ma la verità in senso greco, che dire “verità” in senso greco sembra una contraddizione in termini ma non abbiamo altro modo per dirla. È lo stesso problema che incontrò Heidegger quando voleva uscire dalla metafisica, ché non abbiamo altre parole se non quelle della metafisica, anche Derrida se ne è accorto “continui a usare le parole della metafisica e come pensi di uscirne?” e allora che facciamo, inventiamo un’altra parola? Non è che andiamo molto lontani, Heidegger a un certo punto per uscire dalla metafisica barra l’essere, Sein barrato oppure lo scrive Seyn, per indicare che è l’essere che però sì, è l’essere, ma non lo è sempre. Comunque parole della metafisica non si esce da lì, l’idea mia è che non si esca dalla metafisica perché la struttura del linguaggio è metafisica, comunque) l’armonia congiunge e unisce il disvelamento e il nascondimento nel punto più semplice della sua essenza e in questo modo è l’elemento stesso che da l’avvio al dispiegarsi della φύσις (dice infatti) il sorgere nettamente distinto dal nascondersi è il disvelare (è l’ἀλήθεια, questa frase qui “nettamente distinto dal nascondersi” è come se tracciasse una barra, esattamente come fece De Saussure per indicare che è nettamente distinto lo svelarsi e il nascondersi) dunque l’armonia dominata completamente, dal favore della connessione dell’essenza connette il disvelare col nascondere, (l’armonia quindi è il rapporto tra significante e significato, la relazione tra i due è l’armonia, Greimas direbbe che è il terzo elemento fra i due, quell’elemento che fa dei due elementi due elementi in relazione fra loro) e viceversa e li afferra insieme (li fa stare insieme, ricordate Derrida quando diceva della differance? È perché c’è questa barra che c’è il segno, quindi c’è il significante e significato, questa era la sua opinione, il segno c’è per via della barra, c’è per via della differenza che è esattamente quello che sta dicendo Heidegger, ma d’altra parte Derrida si è formato con Heidegger quindi non sorprende più di tanto) così la φύσις in quanto armonia è un dispiegarsi che fa luce, che si diffonde in un ambito che non è illuminato, la φύσις pensata nella sua essenza relazionale e non come un correlato della relazione è l’accensione (il far luce su qualche cosa, è questa relazione che consente l’illuminarsi delle cose, che consente al segno di essere segno se vogliamo dirla tutta, ecco “l’accensione della luce” “il divampare della fiamma”) Dobbiamo pensare la φύσις come fiamma ovvero la fiamma a partire dalla modalità iniziale della φύσις (Adesso qui lui pone la questione dell’oggetto pag. 110) Se prendiamo direttamente in considerazione l’oggetto che appare in modo ordinato limitandolo in se stesso non ci accorgiamo affatto dell’unico ordinamento, quell’ultimo non si può tirar fuori a partire dall’oggetto che si presenta in modo ordinato /…/ dell’ordinamento originario Eraclito dice che non è stato fatto da qualcuno degli dei e da qualcuno degli uomini, la φύσις è al di sopra degli dei e degli uomini, ogni approccio metafisico sia che prenda le mosse da un dio come causa prima oppure dall’uomo come mezzo per oggettivare tutto, non coglie ciò che in questo detto viene dato a pensare, ammesso che l’approccio metafisico debba pensarlo, prima di ogni ente e ancor prima di ogni inizio di un ente da un altro ente dispiega la sua essenza l’essere stesso (quindi la questione dell’oggetto, da dove arriva l’oggetto? Per Heidegger non può neanche porsi la domanda se non si tiene conto dell’essere cioè della φύσις, che è il sorgere continuo delle cose) Esso non è una cosa prodotta (parla dell’essere) non ha un inizio determinato in un dato punto del tempo e non si da quindi una fine corrispondente del suo essere, l’unico κόσμος (sarebbe il cosmo in accezione greca, come ordinamento) pensato nel pensiero essenziale l’ordinamento iniziale è così diverso dal cosmo pensato in senso moderno o secondo una rappresentazione popolare che non abbiamo alcuna unità di misura sufficiente per valutare questa diversità, il cosmo che qui viene nominato non è un turbine di nebbia e di forze dal quale si sono sviluppati uomini e dei (si sta chiedendo da dove viene il linguaggio) il rifiuto di questa rappresentazione è necessario se è vero che ancora oggi essa indica il modo di intendere dei più, che però rimane implicitamente non detto e non pensato se nel secolo scorso la biologia ha caratterizzato dio come un “un vertebrato gassoso”si tratta in questo caso dell’affermazione meno seria di un modo di pensare che credo di poter spiegare attraverso una cosiddetta visione del mondo di tipo naturalistico biologica, spiegare quindi il mondo stesso l’essente e persino l’essere, e la stessa cosa vale anche se si spiega dio come un vertebrato gassoso oppure se seguendo la fisica più recente si crede che sia possibile spiegare l’essenza della libertà con l’aiuto della fisica atomica e col suo metodo statistico, il κόσμος pensato nel pensiero dei pensatori iniziali non ha nulla a che fare con una qualche cosmologia. (sta dicendo qui che occorre pensare l’essere in modo iniziale, la φύσις, cioè ciò che è il sorgere continuo, se non si pensa il sorgere nel senso del darsi continuamente del dire del linguaggio in modo iniziale, cosa vuole dire “in modo iniziale”? In modo problematico, come un qualche cosa che è sempre da interrogare, che è sempre da domandare, qualche cosa che continua a interrogare sempre, se non si pensa così allora si cercano risposte di tipo naturalistico, si cerca il significato delle cose nella natura, si cerca il significato delle cose nelle proprietà immaginate possedute dalle cose, ma la domanda iniziale che si pone intorno al significato è la domanda intorno all’essere, quindi intorno a che cosa? Vediamolo in modo più ampio nel pensiero di Heidegger: è il progetto, è il trovarsi nel progetto, ciò che dà l’avvio non soltanto all’essere, nel senso che il progetto è l’essere, ma ciò che consente al dire di dirsi, di farsi avanti, di apparire. Senza questo progetto, se non ci fosse il progetto, se non ci fosse nessun motivo di dire non si direbbe nulla. Ora qual è il progetto propriamente, il progetto gettato? Posta in questi termini la domanda è “da dove viene il linguaggio?” “da dove sorgono le parole?” “questo sorgere sorge da che cosa?”, sorge per Heidegger dal progetto, sorge per Nietzsche dalla volontà di potenza, perché il progetto che per Heidegger è l’essere, lo dicevo la volta scorsa, ciascuno si trova in un progetto, è questo progetto il significato delle cose che sta facendo. Facevo l’esempio del tizio che vuole inventare qualcosa per suoi motivi, Freud direbbe per delle sue fantasie, che è la stessa cosa, questo progetto non sono altro che le fantasie della persona all’interno delle quali la persona vuole o non vuole fare delle cose, questo è il significato delle cose. Questo significato è reso in modo più esplicito da Nietzsche attraverso la volontà di potenza, quindi è la volontà di potenza il significato, il progetto di ciascuno, ciò che ciascuno vuole fare. Quando Nietzsche parlava della volontà di potenza, del super potenziamento è questo il progetto, questo è sfuggito, sfuggito? Magari non è affatto d’accordo Heidegger con una cosa del genere a me non interessa ma interessa a me, il progetto è il super potenziamento, è questo il progetto, questo è ciò di cui gli umani vivono ed è questo il significato di ciò che fanno, è da lì che vengono le parole che ciascuno si trova a dire, è da lì che vengono, dalla volontà di potenza. Pensato heideggerianamente è il progetto è il Dasein da cui sorgono le cose, ed è interessante perché pone la questione che è abbastanza vicina a Freud. Per Freud da che cosa vengono le parole? Potremmo dire dall’inconscio, ma l’inconscio in quanto le fantasie che la persona non sa di avere, ma che tuttavia producono le cose che sta dicendo, i suoi racconti, tutto. Quindi da dove vengono le parole? Dal progetto risponderebbe Heidegger, Freud direbbe dalle fantasie inconsce, cioè dall’inconscio, Nietzsche che cosa dice invece? Dice che questo progetto è la volontà di potenza, cioè di superpotenziamento continuo, sappiamo che la persona non si può fermare in questo superpotenziamento ché se si ferma incomincia immediatamente il depotenziamento quindi deve compiere questa operazione all’infinito: questa è la volontà di potenza, è da lì che vengono le parole, tutto ciò che la persona dice, pensa, fa, immagina eccetera è mossa dalla volontà di potenza. Quindi da dove vengono le parole? Potremmo dirla così: dalla volontà di potenza. È da qui che si costruiscono le parole, i discorsi eccetera. Non è la risposta alla domanda da dove viene il linguaggio ovviamente, potrebbe anche esserlo tra virgolette, molte virgolette, perché non è così semplice, al di là del fatto che la domanda “da dove viene il linguaggio?” non ha nessun interesse. Ma tutto quello che si dice da dove viene? Heidegger sta dicendo che tutto quello che si dice viene dal progetto, cioè da quello che in quel momento si vuole fare, da ciò si spera, e autenticamente si vuol fare di sé. Nietzsche avrebbe aggiunto che ciò che ciascuno vuole fare di sé non è nient’altro che super potenziarsi, continuamente, potremmo aggiungere noi a questo punto, perché non si può non farlo, perché la struttura del linguaggio funziona in questo modo. La struttura del linguaggio dice che per costruire un’argomentazione ho bisogno di una premessa, di passaggi e una conclusione, quindi questa conclusione che interviene, se accolta come vera ovviamente e deve esserlo per potere essere utilizzata, dice qualche cosa in più rispetto al mondo, cioè dà un’altra descrizione, un’ulteriore descrizione delle cose, dice come stanno le cose, dicendo come stanno le cose consente di controllarle, consente di avere potere sulle cose. La conclusione di un’argomentazione è la manifestazione della volontà di potenza, perché dice: “le cose stanno così”. Provate a pensare un modo in cui questo non avviene, è possibile?

Intervento: è difficile, anzi impossibile non compiere questa operazione, occorre sapere quello che si sta facendo …

Esatto, questa è l’unica cosa che può farsi, cioè sapere cosa si sta facendo, che non si può non fare, perché non posso, quando concludo qualche cosa, cioè costruisco un’argomentazione, non posso non concluderla. Finché non la concludo è come se questa argomentazione rimanesse in sospeso, cioè non dice nulla, perché lo scopo di un’argomentazione è di fare qualcosa, di concludere qualcosa, di compiere qualcosa, quindi deve concludersi. Concludendosi afferma qualcosa sul mondo, cioè dice come stanno le cose, dicendo come stanno le cose consente di controllare il mondo e cioè soddisfa quella condizione di superpotenziamento di cui parlava Nietzsche. Ogni proposizione che conclude in modo vero soddisfa il superpotenziamento. Vedete che una cosa del genere non è possibile non farla, non posso, argomentando qualunque cosa voglia argomentare, qualunque cosa voglia pensare, dalla lista della spesa a una dichiarazione d’amore, alla dichiarazione di guerra, della terza guerra mondiale, in ogni caso questa cosa sarà costruita sempre allo stesso modo perché non ne abbiamo un altro: premessa, passaggi coerenti, cioè che non contraddicono la premessa, e conclusione. La conclusione dice qualche cosa, afferma qualche cosa sul mondo cioè dice “le cose stanno così” e cioè dà il suo contributo, piccolo o grande che sia, al superpotenziamento, cioè alla volontà di potenza. È possibile, tenendo conto di quello che dice Heidegger relativamente alla “verità” posta non come veritas imperiale, sarebbe possibile dunque pensare in termini di volontà di potenza utilizzando la verità come ἀλήθεια, pensata come Heidegger immagina che la pensassero gli antichi? No, non sarebbe possibile, quindi c’è l’eventualità che Heidegger avesse intravista la possibilità di un’uscita dalla metafisica, intravista però si è trovato di fronte uno sbarramento. Per uscire dalla metafisica era costretto a continuare a utilizzare i termini della metafisica, e d’altra parte il funzionamento del linguaggio, che lo ricaccia sempre indietro. Quindi dicevo sì, ha intravista la cosa però ne ha anche intravisti i limiti, e in effetti è vero, questo limite imposto dal linguaggio non è valicabile. L’unica possibilità per uscire dalla metafisica è di uscire dal linguaggio. Ma ci si scontra sempre contro un muro di gomma che ricaccia sempre indietro, perché non posso costruire argomentazioni se non in quella maniera e le parole non possono funzionare se non in quel modo. Ogni volta che qualche cosa appare, un significante, un ente, nel momento stesso in cui appare si dissolve, facendone apparire un altro. Un significante dicendosi si dissolve e lascia il posto, adesso la dico in modo molto semplice, lascia il posto al significato, nel momento in cui c’è il significato non c’è più il significante. Heidegger, ma ancora di più De Saussure, è tassativo su questo, c’è la barra, la barra non è valicabile, il significante non può oltrepassare la barra e mettersi al posto del significato, non lo può fare, se lo facesse il linguaggio cesserebbe all’istante e da quel momento anzi il linguaggio non sarebbe mai esistito. È un po’come diceva Sini: tutto il sistema solare sta viaggiando a folle velocità in rotta di collisione con la stella Vega, è solo questione di tempo, alcuni milioni di anni, dopo di che, quando sarà avvenuto l’impatto, da quel momento il pianeta con tutte le sue storie, i suoi racconti, le sue storie, da quel momento non è che non esisterà più, da quel momento non sarà mai esistito. Questa è la questione del segno, non sarà mai esistito perché non sarà più segno per qualcuno. Quindi vedete che il problema che si incontra rispetto al linguaggio è un problema che anche Heidegger ha incontrato, uscire dalla metafisica è uscire dal linguaggio, di questo nessuno in realtà si è accorto in modo così esplicito …

Intervento: perché si vorrebbe uscire dalla metafisica? Una volta che sai come funziona …

Il motivo per cui Heidegger e altri insieme con lui hanno tentato l’uscita dalla metafisica è questo: la metafisica tenta, cerca di dare il significato ultimo delle cose, facendo questo la metafisica sbarra l’accesso alla parola, sbarra l’accesso a intendere ciò che la parola autentica sta dicendo. La metafisica limita la parola, vuole limitarla perché vuole compiere quell’operazione che tentava Husserl rispetto alla percezione trascendentale, la percezione diretta della cosa senza intermediari, e cioè senza il segno, ma se tolgo il segno tolgo la parola stessa perché è il segno che la presenta ripresentandola, vi ricordate di Derrida? Ma lo stesso Husserl si accorge che non è possibile perché con qualunque cosa voglia rapportarmi lo faccio sempre attraverso un medium, questo medium è il linguaggio, è inevitabile. Allora se non c’è uscita dal linguaggio, allora non c’è uscita dalla metafisica, e quindi l’unica cosa possibile è sapere che cosa si sta facendo e tenerne conto in ciò che si fa, sapendo che non posso, per pensare qualunque cosa, non costruire un’argomentazione e se la costruirò sarò costretto a costruirla in quella maniera, non c’è verso, dovrò concludere, e la conclusione nella quale affermerò qualche cosa, questo qualcosa che affermerò a modo suo vorrà dire qualcosa del mondo, vorrà dire come stanno le cose, posso sapere che non è così, ma la proposizione costruisce quella cosa, costruisce una conclusione vera, ma cosa vuole dire che è vera? Che dice come stanno le cose ovviamente, e quindi non possiamo fare altro. L’idea di volere uscire dalla metafisica comporta scontrarsi con il linguaggio, perché uscire dalla metafisica è uscire dal linguaggio. Questo è l’intoppo invalicabile. Gli umani hanno sempre cercato di controllare, di dominare, e per “metafisica” μετά τα Φυσικά, se noi la leggiamo adesso tenendo conto delle cose che ci ha illustrate Heidegger, se teniamo conto di questo allora “metafisica” è “al di là della φύσις”, che non è più “al di là della natura”, perché φύσις, ci ha illustrato Heidegger in modo abbastanza esaustivo, non c’entra niente con la natura, la φύσις è il sorgere. Allora la meta-fisica cerca qualche cosa che è al di là del sorgere delle parole, e cioè qualche cosa che è il significato ultimo delle parole, l’essere, ma non come lo pone Heidegger, ma quell’essere che deve dare l’assoluta essenza alle cose, il significato definito, stabile e imperituro, fino alla fine dei tempi.

Intervento: …

Sta dicendo che il linguaggio è religioso, e in effetti è così, non cattolico o protestante eccetera ma la struttura del linguaggio è quella che muovendo da un elemento giunge alla conclusione, e la conclusione dice come stanno le cose, cioè qual è il significato delle cose. Se si suppone che questo significato che raggiunge, questo dire come stanno le cose sia effettivamente l’essere delle cose allora sì, è religioso ovviamente, e questo rende anche conto del successo delle religioni tra l’altro, che garantisce le cose, se no non sono garantite da nulla, si perdono, si dissolvono continuamente, invece dio dall’alto le stabilizza.