27 marzo 2024
Aristotele Fisica
Una delle cose interessanti in Aristotele è che tendenzialmente non pone le questioni come ipostasi ma le interroga, e le interroga, verrebbe quasi da dire, oltre misura. Quando ci si domanda qualche cosa, generalmente accade di accontentarsi di una risposta che sul momento si ritiene soddisfacente; se non la si ritiene soddisfacente, si continua a interrogare, e cosa succede quando si continua a interrogare? Soprattutto succede che ci si accorga che non c’è la risposta, che la risposta è rinviata all’infinito. Ed è quello che Aristotele ha trovato, soprattutto nell’Organon e negli Analitici secondi, scontrandosi con questo interrogare oltre misura, oltre quel punto in cui generalmente altri erano giunti e fermati. Non ci si può interrogare all’infinito, e c’è un motivo, perché sennò ci si accorge che non c’è nessuna risposta possibile, e questo è seccante. Eppure, è ciò che è necessario affrontare e che molto spesso Aristotele affronta, cioè, va avanti con l’interrogazione fino al punto in cui si accorge che o, come avviene nell’Organon, la risposta appare impossibile, perché rinviata all’infinito, oppure ci si accorge che l’unica risposta che si può dare è quella che viene dalla δόξα, dall’opinione. È in questo senso che dicevo che Aristotele non pone mai delle ipostasi. Ipostasi: ipo – stasis; ipo è sotto, stasis e stare. È la stessa cosa di ύποκείμενον, di sostanza, di soggetto, soggiacenza, tutte parole che convergono nella stessa direzione. L’ipostasi è quell’affermazione che viene posta in modo tale da evitare che venga interrogata. Per fare questo è necessario che tale ipostasi abbia una garanzia che va al di là dell’umano, che lo trascende, ci vuole una garanzia almeno divina, cioè, di un dio che tutto sa.
Intervento: …
Sì, certo, se si può si va oltre dio. Non ricordo più chi diceva che nemmeno Dio può autocontraddirsi. Quindi, Dio ha un limite, quello della logica, logica che è stata inventata dagli umani; quindi, gli umani hanno inventato qualche cosa che costituisce un limite allo stesso Dio. Sulla logica ci sarebbe molto altro da dire, ma l’idea è quella, e cioè di avere potere su Dio. In fondo, la logica ha sempre puntato e continua a puntare su questo, ignorando totalmente tutto il discorso di Hegel. Ecco, quindi, un aspetto dell’interesse per Aristotele: non smette di interrogare, assumendosi tutti i rischi che questo comporta. Come abbiamo visto soprattutto negli Analitici secondi, il rischio che si incontra è quello di imbattersi nell’impossibilità di rispondere a qualunque domanda, nell’impossibilità di determinare con certezza qualunque cosa. Per un motivo molto semplice, poi, in fondo, ma questa semplicità la si intende solo se si comprende il funzionamento del linguaggio. L’impossibilità non è altro che la simultaneità di ciò che è posto e di ciò che si oppone a ciò che pongo. Per esempio, vedo Cesare, è qui davanti a me, ma io posso distinguere, determinare Cesare perché non è tutte quelle cose che lo circondano; se non potessi distinguerlo da tutte le cose che lo circondano, non potrei vedere nemmeno Cesare e, quindi, Cesare c’è perché lo distinguo, perché non è il mondo che lo circonda; quindi, Cesare è quello che è a condizione che ci sia presente ciò che lui non è. Ecco, dunque, la questione: la sostanza, l’ούσία, termine che viene da εἰμί, io sono, prima persona del verbo essere in greco e che significa anche presenza, ciò che è presente, ciò che appare. Ciò che appare, per apparire così come appare, occorre che abbia in sé ciò che gli si oppone, il contrasto. Esattamente come i colori: perché appare il rosso? Perché si distingue da tutti gli altri colori; se tutto fosse rosso, non distinguerei nulla. Pertanto, Cesare è Cesare per via del fatto incorpora in sé il non essere ciò che non è Cesare, che però è necessario perché Cesare sia Cesare. Ecco perché la questione del linguaggio è per un verso semplice: questo impossibile è la coappartenenza – vedremo poi che ci arriva anche Aristotele, con δύναμις e ἐνέργεια. Questa coappartenenza Eraclito l’aveva posta con il suo ἒν πάντα εἰναι; poi, l’unico che l’ha ripresa è stato Hegel, l’unico a farlo. Quindi, l’impossibile non è altro che la parola in atto, la parola che agisce; è quello l’impossibile perché quella parola, per essere quella parola, deve portarsi appresso necessariamente quello che quella parola non è; non è che lo mette da parte, no, è in quella parola tutto ciò che quella parola non è, perché altrimenti la parola non sarebbe, né quella né nessun’altra. Detto questo, proseguiamo la lettura. 204a, 10. Non è possibile, intanto, che l’infinito sia separabile dalle cose sensibili e che esso sia infinito come cosa in sé. Adesso valuta tutte le possibilità. Se, infatti, l’infinito non è né grandezza né numero, ma è, tuttavia, sostanza e non accidente, esso sarà indivisibile (giacché il divisibile è o grandezza o numero); ma se è indivisibile, non è infinito, se non alla stessa guisa che la voce è invisibile. Già qui l’infinito comporta un problema, di cui Aristotele si accorgerà più avanti, quando dirà che l’infinito è solo potenziale, ma nel senso che è solo pensabile, che non esiste in natura perché, se esistesse come infinito in atto – diverso dall’infinito attuale –, cioè, se fosse qualche cosa, questa cosa avrebbe una forma e, quindi, sarebbe una cosa finita. 204a, 20. È chiaro, poi, che non si può ammettere che l’infinito esista come un essere in atto o come sostanza e principio: difatti, qualsiasi parte desunta da esso sarebbe infinita, se esso fosse divisibile in parti (invero, ciò che è all’infinito, è infinito esso stesso, se pur l’infinito è sostanza e non è in relazione a un sostrato); sicché esso o è indivisibile o è divisibile all’infinito. Ma che la medesima cosa sia molti infiniti, è impossibile (ché anzi, come una parte di aria è aria, così una parte di infinito è infinito, se l’infinito è sostanza e principio). Ma è impossibile che ciò che è in entelechia sia infinito: difatti è necessario che esso sia una quantità. 204b, 10. Non è possibile che l’infinito sia né composto né semplice. In quanto composto, non ci sarà il corpo infinito, se gli elementi sono limitati per numero. Difatti, è necessario che questi siano più di uno, e che i contrari siano sempre uguali, e che uno di essi non sia infinito: se, infatti, la potenza che è in uno qualsivoglia dei due corpi, è superata da quell’altro… 205a, 29. Se, invece, le cose sono infinite e semplici, anche i luoghi saranno infiniti e saranno infiniti gli elementi. Ma se questo è impossibile e se i luoghi sono finiti, è necessario che anche il tutto sia finito: difatti, è impossibile non far coincidere il luogo e il corpo… Ogni corpo occupa un luogo. …giacché il luogo nella sua interezza non è più grande di quanto possa essere il corpo (nello stesso tempo neanche il corpo sarà infinito) né il corpo è più grande del luogo; difatti, nel primo caso vi sarà qualche vuoto, nel secondo caso il corpo non sarà naturalmente in nessun luogo. E per questa ragione nessuno dei fisiologi ha posto l’uno e infinito come fuoco o come terra, bensì o come acqua e come aria o come il loro intermedio, perché il luogo della prima coppia era chiaramente determinato, la seconda coppia, invece, propende egualmente verso l’alto e verso il basso. Anassagora, invece, tratta in maniera assurda del permanere dell’infinito. Egli afferma che l’infinito si sostiene da se stesso, e ciò avviene perché esso è in sé (niente altro, infatti, lo contiene), quasi che una cosa sia per natura solo là dove essa è. Ma questo non è vero: infatti, qualcosa potrebbe essere in un luogo per violenza, e non solo per natura. Aristotele vuole attaccare a tutti i costi Anassagora, però, dice, costrettovi. Costretto da chi? Da nessuno. E, pertanto, se pure inconfutabilmente il tutto non si muove (ciò, infatti, si sostiene da sé ed è in sé, è necessariamente immobile), si dovrà pur sempre indicare per quale motivo esso per natura non si muove. L’infinito non può muoversi, dove va? Occupa tutto… 205b, 15. Nello stesso tempo risulterà che anche qualsiasi parte dovrebbe permanere; come, infatti, l’infinito, sostenendosi, permane in se stesso, così anche qualsivoglia sua parte rimarrà in se stessa, giacché omogenei sono i luoghi dell’intero e della parte. Se è infinito non può andare in giro dove gli pare; ci dovrebbe essere un altro luogo che è fuori dell’infinito, ma non può essere… 206a. …se è impossibile che un luogo sia infinito e se ogni corpo è in un luogo, è impossibile che vi sia un qualche corpo infinito. Il corpo ha una forma e la forma ha una delimitazione e, quindi, è naturalmente finito. Inoltre, il “dove” è nel luogo, e ciò che è in un luogo è un “dove”. Se, intanto, è impossibile che l’infinito sia una quantità – ché quantità sarà, ad esempio, un qualcosa di determinato, come un bicubito o un tricubito: queste cose, difatti, indicano la quantità -, è impossibile pur anche che esso sia ciò che è in un luogo, in quanto esso, in tal caso, sarebbe un “dove”; ma il “dove” è in su o in giù o in qualsiasi altra delle sei dimensioni, ciascuna delle quali è un limite. Che, dunque, un copro infinito non è in atto, è chiaro da queste dimostrazioni. Perché, se è in atto, vuol dire che è finito. Qui atto è ἐνέργεια, che è il mettersi in atto della potenza, mentre έντελέχειᾳ è la coappartenenza di potenza e atto. ‘Eνέργεια è l’agire della potenza. Aristotele si inventa questa nozione di έντελέχειᾳ perché si accorge che non può esistere la potenza senza l’atto e viceversa. Invece, tutti, dopo Aristotele, hanno separate le due cose, Hegel le unisce, le pone come coappartenenti. Ma perché Hegel? Perché Hegel è partito da Eraclito. 206a, 10. Ma, d’altra parte, è chiaro che, se nella maniera più assoluta si nega un infinito, molte cose impossibili ne vengon fuori. Del tempo, infatti, vi sarà un principio e una fine, e le grandezze non saranno divisibili in grandezze, e il numero non sarà infinito. Ma poiché è evidente, dopo le precedenti distinzioni, che non si può accettare pienamente né l’una né l’altra soluzione, vi è, allora, bisogno di una mediazione, dalla quale risulterò chiaro che in un senso l’infinito è, in un altro non è. Si dice che l’essere è o in potenza o in entelechia, mentre l’infinito è da una parte per aggiunzione, dall’altra per detrazione. Si è, poi, detto che la grandezza, in quanto sia in atto, non è infinita, ma lo è per divisione, giacché non è difficile togliere via le linee indivisibili: rimane, allora, da dire che l’infinito è in potenza. Ma, in questo caso, non si deve assumere l’espressione “ciò che è in potenza” nel senso con cui si dice, ad esempio, “questa cosa è in potenza una statua, quindi, sarà una statua”, ché in tal caso si ammetterebbe qualcosa di infinito che sarà, poi, in atto;… Su questo insiste continuamente: non c’è qualcosa, un quid, che sia infinito: l’infinito lo possiamo solo pensare, è una nostra creazione. 206a, 25. …è chiaro, infatti, che in un modo l’infinito s’intende nel tempo, in un altro modo rispetto alle umane generazioni e in un altro ancora rispetto alla divisione delle grandezze. Così è, infatti, l’infinito in universale, perché si pone come sempre diverso, mentre ciò che si assume da esso è sempre finito, benché ci sia sempre, poi, altro ed altro ancora. Se lo colgo, lo colgo come finito, non c’è via di mezzo, non posso coglierlo in quanto infinito: l’ᾂπειρον è impensabile. 206b, 3. L’infinito per aggiunzione è, poi, quasi la medesima cosa che l’infinito per divisione, giacché esso si produce nel finito per aggiunta, in modo contrario all’altro. Invero, nella misura che una grandezza si vede divisa all’infinito, nella stessa misura essa risulta aggiunta a quella finita. Difatti, se noi da una grandezza finita desumiamo una determinata grandezza e poi ne desumiamo ancora un’altra nella medesima proporzione, senza portar via la grandezza stessa dell’intero, non riusciremo a percorrere il finito;… Qui sembra stia definendo la teoria dei limiti. Non può mai prendere la grandezza come uno, perché l’uno è ciò a cui tende: si tende all’uno. 206b, 15. Anche per aggiunzione l’infinito è, così, pur sempre in potenza, e noi diciamo che, in un certo senso, lo è allo stesso modo che per divisione: sempre, infatti, si potrà assumere qualcosa al di fuori di esso, ma, non dui meno, esso non supererà ogni grandezza finita, come, invece, per divisione supera ogni grandezza finita e rimane sempre minore. 207a, 7. Infinito è, dunque, ciò al di fuori di cui, se si assume come quantità, è sempre possibile assumere qualche altra cosa. Ciò, invece, al di fuori di cui non c’è nulla, è perfetto ed intero. Se non c’è nulla da aggiungere, vuol dire che è chiuso, limitato, quindi, non è infinito. Viene da pensare a quella questione che pone Severino, quella del tutto, dell’intero. Lui pone l’obiettivo per cui il giorno in cui tutti gli astratti parteciperanno del concreto allora ci sarà il tutto, l’intero, quindi, qualcosa di limitato. C’è una contraddizione in termini perché lui dice che all’infinito tutti gli astratti parteciperanno del concreto: no, non c’è all’infinito; se il tutto è l’intero, vuol dire che è limitato, cioè, a un certo punto finisce. Ché noi così definiamo l’intero: ciò di cui non manca nulla, ad esempio l’uomo intero e lo scrigno. E come nel particolare, così è anche nel più autentico significato logico, cioè, l’intero è ciò al di fuori del quale non c’è nulla; ma ciò al di fuori di cui c’è qualcosa che ad esso manca, non è il tutto, qualunque cosa gli manchi. Invece l’intero e il perfetto sono o la medesima cosa e per tutto o qualcosa di simile per natura. Ma nessuna cosa che non abbia un fine è perfetta, e il fine è limite. 207a, 25. …è chiaro che l’infinito rientra nel concetto di parte più che in quello di intero: la parte, infatti, è la materia dell’intero, come il bronzo della statua bronzea, poiché, se si ammette che nelle cose sensibili il grande e il piccolo contengono il tutto, anche riguardo alle cose intelligibili essi dovrebbero contenere le intelligibili. Ma è assurdo e impossibile pensare che l’inconoscibile e l’indeterminabile possano contenere e definire. Se, cioè, è l’infinito a comprendere tutto… ma noi non comprendiamo l’infinito, non comprendiamo niente. 207a, 33. È, dunque, conforme a ragione l’opinione secondo cui l’infinito per aggiunzione non possa superare ogni grandezza, ma che lo possa, invece, per divisione (difatti, come la materia, così anche l’infinito è contenuto all’interno e la forma lo contiene). Sarebbe ciò che comunemente viene definito infinito attuale. Ed è anche conforme a ragione che nella serie numerata il più piccolo sia il termine, ma che, procedendo verso un numero maggiore, ogni quantità venga sempre superata, e che nelle grandezze, invece, accada il contrario: difatti, procedendo verso il più piccolo, ogni grandezza è superata; procedendo, invece, verso il più grande, non c’è una grandezza infinita. Qui sta descrivendo, anche se non lo fa in termini espliciti, l’infinito attuale e l’infinito potenziale. Poi, dice, che non è possibile andare al di sotto di un certo numero. In effetti, per i greci l’unità è indivisibile, non è possibile andare oltre l’uno: l’uno è il punto di partenza. E la ragione è che l’unità numerica è indivisibile, qualunque cosa essa sia, come l’uomo è un solo uomo e non già molti, mentre il numero è una pluralità di unità e una certa quantità: sicché, è necessario che esso abbia come fondamento l’indivisibile (infatti, il due e il tre sono paronimi, e così pure gli altri numeri); invece, procedendo verso il più, è possibile pensare l’infinito, perché infinite sono le dicotomie della grandezza. Sicché il numero è infinito in potenza, ma non in atto;… Il numero è infinito in potenza, lo possiamo pensare come infinito, ma non è infinito in atto. 207b, 15. Per le grandezze, invece, vale il contrario: infatti, il continuo si divide all’infinito, ma, procedendo verso il più grande, non c’è l’infinito. Quanto grande, infatti, si ammette che una cosa sia in potenza, altrettanto si deve ammettere che essa sia in atto. Qui dice che non si può andare avanti all’infinito perché ciò che ha un’esistenza in potenza deve averla anche in atto, ma in atto abbiamo visto che non può averla, in quanto non si può dire l’ultimo numero dell’infinito. 207b,15. Per le grandezze, invece, vale il contrario: infatti, il continuo si divide all’infinito, ma, procedendo verso il più grande, non c’è l’infinito. Quanto grande, infatti, si ammette che una cosa sia in potenza, altrettanto si deve ammettere che essa sia in atto. Sicché non essendo infinita alcuna grandezza sensibile, non è possibile che ogni grandezza determinata venga superata: ché, allora, esisterebbe qualcosa di più grande del cielo. L’infinito non è, quindi, il medesimo nella grandezza e nel movimento e nel tempo, quasi che esso fosse solo una sola natura, bensì viene enunciato come ciò che è posteriore s i enuncia in base a ciò che è anteriore: ad esempio, si parla di movimento, perché viene alterata o accresciuta la grandezza sulla quale esso si esercita; il tempo, poi, è in ragione del movimento. Ci sta in fondo dicendo che spazio e tempo non sono divisibili: non posso in nessun modo considerare l’uno senza l’altro, si coappartengono.
Intervento: …
Di questa storia della separazione il colpevole è Platone. Poi, certo, c’è stato il neoplatonismo, ma il vero colpevole è lui, Platone: l’uno è il bene e i molti sono il male. Capite bene che c’è una certa differenza tra quello che dice Platone e quello che dice Eraclito, per il quale l’uno è i molti. 208a, 5. Ci resta solo da discutere brevemente su certi ragionamenti secondo i quali l’infinito sembra essere non solo in potenza, ma anche come cosa determinata:… Che è già un problema parlare di infinito in forma determinata: come lo determino? Se si pensa alla parola de-terminare nei confronti dell’infinito è una contraddizione in termini: o è terminato o è infinito. …e in realtà alcuni di essi non sono coerenti, altri offrono il destro a qualche altra fondata obiezione. Non è vero che, per impedire la cessazione del divenire, vi debba necessariamente essere un corpo sensibile infinito in atto: infatti, è possibile che la distruzione di una cosa particolare sia la generazione di un’altra, pur essendo il tutto limitato. Come accade. Tutti quelli che nascono vanno a rimpiazzare tutti quelli che muoiono, per cui grosso modo si rimane entro certi limiti. Inoltre, son cose divere il contatto e la limitazione. L’uno, infatti, è relativo a qualcosa ed è di qualcosa (infatti, tutto ciò che è in contatto, è nel contatto di qualcosa),… Ogni realtà che si tocca, tocca qualche cos’altro. …ed accade sempre a una cosa finita; la limitazione, invece, non è in relazione a qualcosa; né v’è contatto d’una cosa fortuita con un’altra fortuita. Sta parlando del continuo e del discreto. Tra l’altro, è una questione curiosa. Generalmente, continuo e discreto si oppongono, ma come so che il continuo è continuo, se non considero “discretamente” tutte le sue singole parti. Solo così so che è continuo, sennò non ho modo di percepirlo, di saperlo. 208a, 20. Il tempo e il movimento sono infiniti insieme con il pensiero, ma ciò non comporta la reale sussistenza di quello che viene desunto da essi. La grandezza, invece, non è infinita né per una riduzione né per un accrescimento che siano meramente pensati. Qui c’è una questione. Dice che la grandezza non può essere infinita. Ponendola come grandezza, in effetti, già la determino, la definisco. Non importa quanto grande, ma è una grandezza. È, in effetti, il problema dell’uno e dei molti: pongo la grandezza come uno, ma questa grandezza è fatta di tante cose. Certo, ma la grandezza è una e, se è una, è limitata, e questo anche se è illimitata. E qui si pone la questione della coappartenenza, e cioè la grandezza è infinita, ma allo stesso tempo finita. È infinita perché non la posso calcolare, è finita perché la posso pensare. Ma queste sono tutte questioni che Aristotele riprenderà più avanti. Siamo al Libro quarto. Similmente è necessario che il fisico abbia nozione, come già dell’infinito, così anche del luogo, se esso sia o non sia e in che modo sia e che cosa sia. Certo, parliamo dell’infinito, ma l’infinito dov’è, ha un luogo? È un problema perché, se ha un luogo, vuol dire che c’è un luogo che lo contiene, e se lo contiene vuol dire che non è infinito; oppure è infinito anche il luogo? Ma un luogo infinito è un luogo? Sono tutte questioni che interrogano Aristotele. Tutti, infatti, ammettono che gli enti sono in un “dove” (ché il non-ente non è in nessun luogo: dove sono infatti l’ircocervo e la sfinge?); del resto il più comune e fondamentale movimento, quello che si suol chiamare spostamento, è in relazione ad un luogo. Ma il concetto di luogo presenta molte aporie… In effetti, non è semplicissimo definire il termine “luogo”. In genere, si usano sinonimi, ma determinare con precisione che cosa debba intendersi con “luogo” non è semplicissimo. …difatti, il luogo non appare come una sola e medesima cosa a chi ne contempla insieme tutte le proprietà. Inoltre, presso gli altri filosofi noi non troviamo, a questo proposito, che il problema sia stato impostato e, tanto meno, felicemente risolto. Che il luogo, intanto, sembra risultar chiaro dallo spostamento reciproco dei corpi. Come vedete, lui parte sempre dall’esperienza, dalla δόξα, da ciò che comunemente si dice, si pensa, si fa. Difatti, dove ora è l’acqua, lì, quando essa se ne esce come da un vaso, è l’aria; e, in tale circostanza, un corpo diverso viene ad occupare quel medesimo luogo; e allora appare che il luogo è cosa diversa da tutto ciò che penetra e muta dentro di esso. È l’osservazione: svuoto una bottiglia e, alla fine, è vuota; no, non è vuota, c’è l’aria. 208b, 25. Inoltre, i sostenitori dell’esistenza del vuoto sostengono anche l’esistenza del luogo, giacché, secondo loro, il vuoto sarebbe un luogo privato di corpo. Pertanto, in virtù delle precedenti considerazioni, sarebbe lecito supporre che il luogo sia qualcosa che prescinde dai corpi, e che ogni corpo sensibile sia in un luogo; e si potrebbe dire che anche Esiodo abbia fatto bene a porre come prima cosa il Caos. Egli, invero, dice: “Nacque tra tutte le cose il Caos primiero; e, sol dopo, Gaia dall’ampio petto…”, quasi che sia necessario, anzitutto, l’esistenza di uno spazio per gli enti, per il fatto che egli crede, come i più, che tutte le cose sono in un “dove” e in un luogo. È la convinzione condivisa - si pensa così -, non c’è un motivo particolare. E, se così è, meravigliosa dovrebbe essere e anteriore a tutto la potenza del luogo: difatti, ciò che è indispensabile per l’esistenza delle altre cose e che esiste senza le altre, necessariamente è il primo:… Questo potrebbe essere il luogo: qualcosa che esiste prima di qualunque cosa e, quindi, principio di tutto. …ché il luogo non perisce, mentre le cose che sono in esso si distruggono. Eppure, se esso esiste, è difficile determinare che cosa esso sia, se una massa corporea o qualche altra natura. Bisogna, infatti, ricercare anzitutto il suo genere. Vedete come pensa Aristotele. La domanda “che cos’è il luogo” può apparire una domanda banalissima, quasi stupida, ma, intanto, rispondere a questa domanda non è così semplice. Però, immaginiamo che sia qualcosa che racchiude qualche altra cosa, ma se lo racchiude è prima di lui e, quindi, è principio; quindi, è come se fosse un principio primo, perché qualunque cosa, se è qualcosa, sta da qualche parte; e, se sta da qualche parte, è in un luogo; quindi, il luogo è principio primo. Questo è il modo di pensare di Aristotele. Poi, non arriva a dire che il luogo è principio primo, perché si accorge di altre cose, ma questa è la modalità.