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27 marzo 2019

 

La struttura originaria di E. Severino

 

Siamo a un punto in cui si tratta di cogliere l’aspetto che a noi più interessa in ciò che dice Severino: l’apparire della volontà di potenza. Dicevo la volta scorsa che la formulazione forse più corretta della volontà di potenza è questa: la volontà che un significato possa determinarsi in quanto quel significato. Se pensate bene, non è così lontano da ciò che dice Severino rispetto al fatto che un significato è la totalità dei significati, cioè viene determinato dalla totalità dei significati. Quindi, per determinare un significato occorre avere la totalità dei significati in modo da poterli togliere. Questo ci porta a un’altra considerazione, e cioè il fatto che per potere affermare l’intero occorre porre il significato e tutto ciò che questo significato non è; l’intero è l’originario. Il problema per Severino è che per potere stabilire tutto ciò che questo significato non è occorre sapere che cos’è questo “non è”, perché se non riesco a toglierlo questo permane a fianco del significato come sua negazione e, quindi, diventa contraddittorio, perché questo significato è quel significato ma anche no. Ma per potere togliere tutti gli altri significati è necessario che io sappia di che cosa sono fatti, che è esattamente il discorso che fa rispetto alle costanti: devo conoscere tutte le costanti per conoscere un significato. Però, a Severino sfugge qui un dettaglio, che poi tanto dettaglio non è, e cioè queste costanti, che servono a determinare il significato e anche a determinare tutti i significati che devo togliere, queste costanti a loro volta sono affermazioni che vengono poste; quindi, ciascuna di queste costanti in quanto tale è un significato; d’altra parte, non potrebbe non esserlo, se non lo fosse sarebbe nulla. Essendo un significato per potere determinarsi deve a sua volta potere stabilire tutte le sue costanti, ciascuna delle quali è un significato, e così via. Questo rende le cose più complicate di quanto le pensa Severino, gli è sfuggito questo dettaglio, e cioè queste costanti di cui parla sono significati e, soprattutto, gli è sfuggito il fatto che, proprio in quanto significati, sono determinati, ciascuna di queste costanti a sua volta da altre costanti. Come risolvere questo problema? Non ha una soluzione, perché sarebbe come dire che ciascun elemento vale di per sé senza nessun altro elemento, ma ciascun elemento, cioè ciascun significato, vale per quello che è in relazione ad altri significati, cioè devo potere stabilire che una certa cosa è quella che è in relazione ad altri significati. Certo, Severino direbbe in relazione a ciò che quella cosa non è, ma devo sapere che cosa quella cosa non è per sapere che cos’è: per esempio, devo sapere che questo posacenere non è una penna a sfera. Ecco, allora, che il tentativo di Severino di affermare l’intero, cioè l’originario, è il tentativo di affermare qualcosa che è, sì, conchiuso in sé, però, alla fine è come se non avesse più bisogno di rinvii perché – è questa l’idea – tutti i rinvii sono già presenti. Si pone, però, a questo punto il problema di cui dicevo prima. Questi rinvii sono già tutti presenti, sì, certo, ma perché siano presenti occorre che tutte le loro costanti siano altrettanto presenti. Sappiamo che ciascuna costante è un significato, il quale è determinato da altre costanti. Il problema, quindi, non ha una soluzione perché è la struttura del linguaggio a funzionare così e non c’è una soluzione alla struttura del linguaggio; in questo caso la soluzione sarebbe cancellare il linguaggio, soluzione che non andrebbe senza conseguenze. A questo punto la volontà di potenza nel testo di Severino si manifesta come la volontà di avere a disposizione il significato insieme a tutti gli altri presenti. Se riesco a fare questo ho l’intero, effettivamente, perché non c’è più nulla che l’oltrepassi. Lui la pone così: è come se questo intero, a un certo punto, comprendesse tutti i possibili rinvii e, quindi, non avesse più rinvii, perché sono già tutti lì. È questa l’idea di intero che in qualche modo ha Severino, anche se non la formula in questi termini, è l’idea che sia possibile avere a disposizione tutti i rinvii. È possibile questo? Qui ci si imbatte nel suo problema: formalmente sì, perché posso dirlo, posso pensarlo; ma concretamente no, concretamente mi ritrovo in ciò che dicevo prima, cioè nel fatto che ciascun significato si disperde in una quantità praticamente infinita di costanti in quanto, come abbiamo visto, ogni costante è necessariamente un significato. Da qui la sua ricerca in questo capitolo che stiamo leggendo su Γa, che sarebbe il fenomeno che teniamo fermo rispetto alla necessità che questo fenomeno, ciò che appare, sia incontraddittorio, cioè mettiamo da parte la L-immediatezza, l’incontraddittorietà. Vale a dire, questo fenomeno ci appare così com’è ma ci appare formalmente, non concretamente. Per Severino, perché possa essere concreto, occorre che sia anche incontraddittorio. Perché questo? Se io non posso aggiungere tutte le sue costanti, cioè tutti gli altri significati, per poi toglierli, allora vuole dire che a fianco di questo significato rimane un altro significato. Ecco allora la contraddizione, per cui, dice Severino, io pongo il fenomeno ma di fatto non lo posso porre, cioè, ciò che pongo non è ciò che dico di volere porre, perché se questo fenomeno non è incontraddittorio, se cioè non ha tolto tutto ciò che non è allora non è quello che io dico che è, è un’altra cosa: pongo il fenomeno ma, in realtà, sto ponendo un’altra cosa, non quello che dico di porre. Questa è la forma del principio di non contraddizione, che interviene sempre in Severino: il volere progettare di porre un qualche cosa che, di fatto, non è ciò che dico di porre, è un’altra cosa; che, seguendo Severino, è ciò che parlando accade ininterrottamente: dice delle cose ma è come se si trovasse sempre a porre, a progettare qualche cosa che non è quella che voleva porre. Da qui la necessità, che è la volontà di potenza, che il significato possa determinarsi in quanto quel significato, cosa che non riesce a fare; non riuscendolo a fare, rimane autocontraddittorio, cioè, afferma di sé di essere posto ma, in realtà, non è posto per niente: in definitiva, affermo qualcosa che, in realtà, non affermo. Questo ci mostra di più e forse anche meglio il funzionamento della volontà di potenza e di come sia, di fatto, il funzionamento stesso del linguaggio. Dicevamo giustamente che la volontà di potenza è il linguaggio, non è una componente del linguaggio, qualcosa che si aggiunge. No, è il linguaggio, nel modo in cui funziona, nel modo in cui si articola, si svolge. È un altro modo per intendere che non è possibile uscire dalla volontà di potenza, perché non è possibile uscire dal linguaggio. In questo modo è ancora più evidente il fatto che la volontà di potenza, cioè il linguaggio, si articola, come vi dicevo, nella necessità di reperire il significato in quanto quel significato, che per Severino vorrebbe dire quel significato e tutti i significati che questo significato non è, cioè tutte le sue costanti: da una parte quelle che rendono il significato quello che è; dall’altro, tutti quei significati che non sono quel significato, per poterli togliere. Questo perché se uno solo di questi significati, che devo togliere, permanesse invece come posto, allora ciò che affermo non sarebbe quello che affermo, perché ciò che affermo è quello che affermo alla condizione che siano presenti tutte le costanti e che tutti i significati, che questo significato non è, siano tolti. Capite che a questo punto è difficile affermare qualche cosa con certezza. Veniamo, dunque, al famoso Γa, Il fenomeno, ciò che appare: se non è immediatamente incontraddittorio questo fenomeno che appare non è quel fenomeno che appare - questa è una conclusione inevitabile – ma è un’altra cosa. Si possono a questo punto considerare tutte le implicazioni di una cosa del genere, una delle quali è il non potere affermare nulla immaginando di affermare ciò che si vuole affermare: ciò che sto affermando non è ciò che voglio affermare, e non può esserlo. Potrebbe esserlo a quella condizione di cui parla Severino, ma abbiamo visto che questa condizione non è realizzabile. Non è realizzabile perché tutte le costanti, che sono significati, sono a loro volta fatte di altre costanti, e così via. Quindi, non potrò mai chiudere il cerchio, progettare l’intero. Posso farlo, torno a dirlo, solo formalmente, posso dirlo, posso pensarlo, ma questo tutto come mi si manifesta? Questo Severino lo sa molto bene: mi si manifesta sempre e soltanto parzialmente; il concreto è sempre parziale, è sempre un qualche cosa che appare, ma ciò che appare è una parte dell’intero, perché la più parte non appare per nulla, mentre nel concreto occorre che appaia. Quando Severino faceva l’esempio “questa lampada che è sul tavolo”, ecco che mi appare “questa lampada che è sul tavolo”. È questo il concreto, che non è la lampada, che non è il tavolo, queste sono astrazioni; il concreto è il fatto che questa lampada è sul tavolo e mi appare in questo modo, come “questa lampada che è sul tavolo” e non in un altro modo. In questo caso ciò che viene tolto è il “non-questa lampada che è sul tavolo”; questo deve essere presente ma tolto, perché se permane allora “questa lampada che è sul tavolo” è anche “non-questa lampada che è sul tavolo” e, quindi, essendo una contraddizione, potremmo dire con Severino che è nulla. Nulla nel senso che non è utilizzabile. E qui affrontiamo un altro aspetto della questione, cioè della volontà di potenza, perché tutte queste operazioni, di cui vi stavo parlando, cioè che la volontà che un significato possa essere determinato in quanto quel significato, questo è il linguaggio stesso, ma perché è il linguaggio stesso? Perché questo è l’unico modo per potere utilizzare un termine: poterlo utilizzare per proseguire a parlare. Ma ciò che avviene, di fatto, è un’altra cosa, perché io continuo a parlare pur non avendo nessuna certezza che il significato che sto ponendo sia proprio quel significato. Non ho nessuna certezza che lo sia, anzi, posso a buon diritto presumere che non lo sia affatto; tuttavia, il linguaggio continua, non è che si arresta, che si blocca. Apparentemente, dovrebbe essere così ma non succede, sennò non parlerebbe più nessuno, anzi, nessuno avrebbe mai parlato. Dunque, che cosa accade? Accade che si mette in atto, si innesca la volontà di potenza, più propriamente ciò che Nietzsche chiamava superpotenziamento, e cioè, per usare le parole di Severino, la volontà di trovare attraverso un’analisi tutte quelle costanti che sono necessarie alla determinazione del significato, in un percorso infinito. Vi faccio un esempio molto semplice per intendere questa questione. Se qualcuno mi chiedesse che cosa intendo dire dicendo una certa cosa, io incomincerei a dirgli che cosa intendo dire dicendo altre cose rispetto a quelle dette prima. Supponiamo che questo tizio sia uno irritante, potrebbe di nuovo chiedermi che cosa intendo con quelle cose che ho detto per spiegare che cosa intendevo con ciò che avevo detto prima. E, allora, io che sono paziente, rispiego dicendo altre cose ancora e, ovviamente, possiamo andare avanti all’infinito. La necessità della volontà di potenza e, quindi, del linguaggio è di trovare tutte quelle costanti che rendono quel significato “quel” significato. In un processo ovviamente infinito, perché ogni volta sarà un altro significato che avrà, come dicevamo prima, altre costanti, altri significati, e così via. Quindi, l’utilizzo di un significato comporta la necessità che questo significato si rivolga ad altri significati per potersi stabilire, i quali occorre che si rivolgano ad altri significati. Il che è un altro modo per pensare ciò che diceva Peirce rispetto al segno: il segno necessita di un altro segno per essere segno, in un rinvio infinito. Ecco perché il tentativo di Severino è fallimentare, cioè non può in nessun modo giungere, se non formalmente, cosa che a lui non basta ovviamente, giungere alla fine della catena, cioè alla comprensione totale dei rinvii, dove tutti i rinvii sono tutti presenti. Allora, sì, sarebbe possibile l’intero, perché sarebbe tutto qui. Sì, certo, formalmente sì, concretamente no, concretamente ho di fronte un immediato che è qualcosa di immediatamente presente che è, sì, l’essere ma non essere in quanto intero, perché questo va sempre oltre, oltrepassa l’essere immanente, ciò che è immediatamente presente. Questo oltrepassamento svela un qualche cosa di interessante. Oltrepassamento che è necessario, lo dice Severino stesso, quando progetto l’intero: il progettare l’intero è già un progettare l’oltrepassamento perché, per potere stabilire l’intero, devo aggiungere continuamente cose e, aggiungendo continuamente cose, mi distolgo, cosa che spaventa di più Severino. E, infatti, a pag. 493 dice In quanto la totalità dell’immediato include il ricordo… Qui inserisce un elemento curioso: il ricordo. È un elemento che nella struttura assolutamente rigorosa, logica, potente, di Severino, il ricordo è invece qualcosa di evanescente, di sfuggente, di impalpabile. Ci si sorprende del fatto che inserisca il ricordo. In quanto la totalità dell’immediato include il ricordo di totalità dell’immediato affette da steresi posizionale relativamente a una certa quantità di determinazioni appartenenti all’immediato, resta confermato che essa include campi posizionali nei quali l’apertura originaria del filosofare era uno stare in contraddizione. Dice che la totalità dell’immediato include il ricordo di totalità dell’immediato affette da steresi posizionali. Significa semplicemente che c’è il ricordo del fatto che non tutte le costanti erano presenti relativamente a una certa quantità di determinazioni. …l’apertura originaria del filosofare… Il filosofare come lo intende lui, e cioè come il riflettere su queste questioni. …è uno stare in contraddizione. Perché c’è il ricordo, dice, nell’intero di determinazioni che non sono state determinate. Il ricordo. Torno a dire che è curioso che inserisca questo termine. E così pure, quando include il progetto di totalità dell’immediato affette da steresi posizionali relativamente a una certa quanti di determinazioni appartenenti all’immediato, essa progetta che l’apertura originaria del filosofare si troverà in contraddizione. Il progetto, l’idea, la supposizione di una totalità dell’immediato in cui però mancano delle posizioni, tutto questo suppone che l’apertura originaria del filosofare sia in contraddizione. È un’idea. Io penso la totalità dell’immediato, però ho il ricordo di non possedere tutte le determinazioni necessarie perché questo sia l’intero. Come dire che in questo caso è ovvio che ciò che si progetta sarà contraddittorio, perché se non ho tutte le costanti è contraddittorio. Per quanto riguarda il suo essersi trovata in contraddizione, la struttura originaria si è già liberata dalla contraddizione ponendo appunto quella quantità di determinazioni che nelle passate individuazioni dell’originario non erano state poste. Prima vi dicevo che nell’intero è necessario che tutte le costanti siano poste. La contraddizione scompare quando sono tutte presenti, e cioè quelle che prima non erano state poste. Se, per esempio, io mi riferisco a qualcosa che è immediatamente presente, un concreto, è chiaro che non sono presenti tutte le determinazioni; molte sono assenti: tutto ciò che appartiene all’intero, cioè tutto ciò che, per esempio, l’intero non è ma che deve esserci per potere essere tolto, tutto questo non è presente. Così come nell’esempio “questa lampada che è sul tavolo”, il “non-questa lampada che è sul tavolo” non è presente in “questa lampada che è sul tavolo”, non c’è, però devo poterlo pensare per poterlo togliere perché “questa lampada che è sul tavolo” sia il concreto. Per quanto riguarda il suo potersi trovare in contraddizione, la struttura originaria deve, per evitare la contraddizione, non lasciare che alcunché del suo contenuto attuale si disperda, deve cioè impedire l’annullamento posizionale di un settore o di un momento qualsiasi del suo contenuto. Qui è molto chiaro qual è il progetto: non deve assolutamente permettere che il contenuto si disperda. Che cosa vuol dire che si disperda? Vuol dire che un momento di questo contenuto si annulla, non c’è più, perché deve essere tutto qui. Ogni relazione, ogni connessione deve essere presente. Ciò non significa che non sia possibile che la struttura originaria venga a trovarsi in contraddizione: la possibilità di trovarsi in contraddizione le appartiene di fatto; così come le appartiene di fatto il suo essersi trovata in contraddizione. Perché è sempre un progetto; il progetto chiaramente comporta l’aggiunta di nuovi elementi, che non sappiamo se sono determinati da tutte le loro costanti; c’è l’eventualità che non lo siano. Quindi, dire che la struttura originaria è contraddittoria è come dire che la struttura originaria, proprio in quanto progetto, è necessariamente vincolata a ciò che aggiunge. Diciamo invece che alla struttura originaria appartiene essenzialmente il compito… La struttura originaria, cioè l’intero. Qui c’è proprio il suo progetto. …di salvaguardare la manifestazione dell’essere, o il dovere di impedirne la vanificazione. In queste due righe c’è tutto ciò che Severino pensa che la struttura originaria debba fare, cioè il suo compito. Poiché l’originario è la stessa manifestazione dell’essere, ciò che significa che all’originario compete essenzialmente il compito di salvare il suo contenuto dall’annullamento. Che l’originario sia preposto alla tutela dell’apparire dell’essere, significa cioè che il suo compito è di avere cura che nulla di sé vada perduto. Il compito è essenziale perché ciò cui esso deve assolvere è la liberazione o il premunirsi dalla contraddizione. Ecco il progetto di Severino, è tutto qui. Quindi, la struttura originaria non è altro che un’analisi dell’originario, dell’apparire dell’essere. Perché l’essere deve fare tutte queste cose? Sembra quasi antropomorfizzato. Deve fare tutte queste cose perché altrimenti non è quello che è, altrimenti l’essere non è l’essere, e le cose non sono. Se le cose appaiono è perché sono. Ciò che deve mantenere la struttura originaria, quindi l’originario, è l’incontraddittorio, cioè mantenere il fatto che se una cosa è è necessariamente. Dopo tutto torniamo a Parmenide: qualche cosa è necessariamente, se l’essere è allora il non essere non è. A pag. 496, paragrafo 18. Stando così le cose, se per “totalità dell’immediato” (= “originario” = “struttura originaria” ecc)… La totalità dell’immediato è la struttura originaria, ciò che appare immediatamente. Si capisce subito qui che la struttura originaria non può essere il Γa senza la L-immediatezza. Non può il fenomeno apparire se non apparire in quanto incontraddittorio; il fenomeno può apparire in quanto incontraddittorio. Perché? Perché l’essere si adopera perché sia eliminata la contraddizione. Eliminare la contraddizione significa che qualche cosa è necessariamente quello che è. Come avviene questo? Ponendo tutto ciò che questa cosa non è e togliendolo. … non si intende semplicemente – come invece avviene allorché l’originario si struttura come Γa – la totalità del F-immediato, ma si intende la totalità concreta dell’immediato, ossia l’orizzonte includente sia la totalità dell’essere F-immediato, sia la totalità dell’essere, non appartenente all’esperienza possibile, che è affermato L-immediatamente… Quindi, non si intende soltanto il fenomeno ma si intende anche ciò che non è frutto dell’esperienza possibile, dell’esperienza immediata: il fenomeno lo vedo ma la L-immediatezza, cioè la incontraddittorietà, non la vedo. Non la vedo ma è necessaria perché il fenomeno che mi appare sia quello lì. A pag. 499, Capitolo XII, Contraddittorietà intrinseca della negazione della presenza dell’essere. Vale a dire, se nego l’essere mi autocontraddico. Come vedete qui, intanto ha precisato bene qual è il progetto, e cioè l’essere deve necessariamente salvaguardare se stesso dal non essere. Come si salvaguarda? Affermandosi come F-immediatezza, cioè come fenomeno, ma anche come qualcosa che sfugge all’esperienza ma che, tuttavia, è necessario perché sia il concreto; vale a dire, che il fenomeno appare ma appare così come appare perché è incontraddittorio. È per questo che mi appare così come mi appare e non in un altro modo. Incontraddittorio, vale a dire che ha tolto tutto ciò che lo nega. Vi rileggo questa frase a pag. 494: l’originario è la stessa manifestazione dell’essere, ciò che significa che all’originario compete essenzialmente il compito di salvare il suo contenuto dall’annullamento. L’annullamento non è altro che la presenza di ciò che nega l’immediato. Se nego l’immediato allora faccio questa operazione: dico di porre una cosa che, di fatto, non sto ponendo, ne sto ponendo un’altra. È questo l’annullamento. In questo capitolo Severino ci ha raccontato questo: è necessario che il fenomeno comporti la incontraddittorietà, perché sennò si annulla, sennò è nulla. È nulla perché quella cosa lì ma anche non lo è, cioè il fenomeno di cui dico non è ciò di cui dico.