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27 febbraio 2019

 

La struttura originaria di E. Severino

 

La questione su cui sta riflettendo Severino è che non si può porre un significato senza porre la totalità dei significati. Questo è l’elemento centrale. Quindi, se non pongo un significato, rispetto all’intero, allora non pongo nessun significato. Lui la chiama la steresi posizionale, cioè la mancanza di un significato nella posizione, nel porre. Vale a dire, se non pongo un significato di questo semantema infinito, cioè della totalità dei significati, è come se non ponessi nessun significato. Questo significato, che pongo, posso porlo perché insieme pongo la totalità dei significati. A pag. 425. c) L’originario deve comunque essere l’intero. Ciò non significa che è autocontraddittorio che non lo sia, ma che, in quanto è L-immediatamente noto che non lo è… È incontraddittoriamente noto che non è autocontraddittorio. …è anche noto che l’originario è uno stare in contraddizione; onde esso si libera dalla contraddizione solo con quell’incremento che lo identifica all’intero. L’originario non è autocontraddittorio soltanto se c’è questo incremento che lo identifica all’intero. È lo stesso discorso che ha sempre fatto, e cioè pongo un elemento, ma se non pongo tutti gli altri, cioè questo incremento, allora non è l’intero. Questa biro non è l’intero; cosa manca perché sia l’intero, cioè il tutto? Manca tutto il resto. Non è infatti immediatamente contraddittorio che l’originario sia un essere in contraddizione. Dove questo essere in contraddizione, da parte dell’originario, non è determinato, … da ciò che l’originario è… Non è che l’originario sia di per sé in contraddizione. …ma dal suo non essere qualcosa (appunto: non essere manifestazione dell’assoluta materia semantica);… Cioè, del semantema infinito. …sì che la contraddizione in cui consiste l’originario è tolta non negando l’originario, ma realizzandolo assolutamente: realizzandolo come apertura della totalità concreta. Quindi, ponendolo come un tutto, aggiungendo tutto ciò che manca. Questa biro non è la totalità; perché possa essere la totalità debbo aggiungere tutto ciò che non è questa biro. d) Si osservi infine che la contraddizione originaria non può essere tolta col non porre più nulla (annullamento di ogni apertura posizionale); ché anzi, in questo modo, si rinuncia a toglierla: la contraddizione resta cioè eternamente lasciata a sé medesima; ovvero la contraddizione entra sì nel passato (e in questo senso non è più), ma come non tolta. Il meccanismo è sempre lo stesso, cioè, devo porre qualcosa, che è la negazione di ciò che pongo, e poi toglierla. A pag. 431, paragrafo 11, Posizione dell’intero e dialettica…il processo dialettico… Sappiamo cos’è il processo dialettico: pongo un elemento, ma questo elemento è posto insieme a ciò che questo elemento non è. Questi due elementi sono in una relazione e questa relazione, la sintesi, è questo nuovo elemento che è fatto di questi due astratti che diventano un concreto.  …il processo dialettico è visto nella sua realizzazione più ampia in quanto sia inteso come la dialettica che compete alla posizione astratta di una qualsiasi determinazione finita. Una posizione astratta: io pongo qualcosa, cioè, lo dico, lo enuncio, ma è astratto, come quando dico il tutto: l’ho posto, l’ho detto, però, astrattamente, non posso mettere qui il tutto concretamente. Porre un qualsiasi campo semantico finito (tale cioè che non sia l’assoluta materia semantica)… Campo semantico finito: una qualunque parola. Tenete conto che quando Severino parla di significato intende qualunque cosa, perché qualunque cosa è un significato; se non fosse un significato sarebbe niente. …senza porre il contesto semantico del campo… Senza porre il contesto, senza porre ciò che lo fa esistere. Significa intendere che un termine è il suo contraddittorio. Perché se non pongo anche tutto ciò che questa cosa non è e la tolgo, rimane quella cosa insieme a tutto ciò che questa cosa non è, rimane non tolta e, quindi, questo termine è contraddittorio perché comprende la sua negazione. Infatti, in relazione al teorema che ogni significato è costante di ogni altro significato… Ogni significato è costante di ogni altro significato. Cosa vuole dire che è costante? Vuol dire che la sua assenza comporta una contraddizione. Dire che una certa cosa è costante di un’altra cosa significa dire che se non pongo questa costante, quest’altra cosa non la posso porre perché si contraddice, perché non è quella cosa lì se non metto le sue costanti. …la posizione cioè di un finito, la quale non sia posizione de contesto – è un porre un piano semantico senza porre tutte le costanti di tale piano. Cosa vuole dire questo? Che pongo un piano semantico senza porre tutte le sue costanti. Quindi, di fatto, non lo pongo, ne pongo un pezzo, ma questo pezzo non è questo piano semantico. Il piano semantico è quello che è in virtù di tutte le sue costanti. Vedete che insiste sulla questione che per porre un significato, un campo semantico, devo porre le sue costanti, devo porre ciò di cui è fatto. A pag. 433, paragrafo 12, L’esito della posizione astratta dell’essere formale. Come corollario di quanto precede, è da affermare che l’esito della posizione astratta dell’essere formale… L’essere formale è l’enunciazione dell’essere, il suo porlo. Dico l’essere senza nessuna determinazione: l’essere è formale. Come posso concretizzarlo se non lo determino? …l’esito cioè della posizione che non pone altro che quel contenuto semantico assolutamente semplice che è il puro essere – è posizionalmente nullo. Se dico l’essere ma non dico l’essere qualcosa, ci sta dicendo, non pongo nemmeno l’essere, perché l’essere è essere di qualcosa. Porre soltanto il semplice significa non porre nulla. Se infatti non è posto altro che il semplice, segue che, in quanto il semantema infinito si distingue dall’essere formale anche in quanto quel semantema sia assunto nella sua valenza formale, il semantema infinito non può essere posto nemmeno come significato formale;… Porre il semplice significa non porre nulla. Dice così perché se io pongo l’essere semplicemente allora il semantema infinito, cioè tutta la totalità dei significati, che in questi casi viene posta nel suo significato formale… anzi, è sempre formale il semantema infinito, come posso porlo concretamente? Se pongo l’essere come significato semplice, senza una determinazione, non posso porre nemmeno il semantema infinito, nemmeno come significato formale – che tra l’altro è l’unico modo con cui posso porlo – perché non so a che cosa si riferisca questo essere. È come se fosse lì da solo, senza nessun aggancio, senza niente; non posso mettere lì un contesto per cui l’essere possa essere quello che è, perché anche se dico “essere” comunque dicendo quello dico un sacco di cose. Se tolgo tutte queste cose rimane l’essere e, quindi, rimane nulla. È la questione che abbiamo visto mille volte: se un significato, compreso l’essere ovviamente, se è posto senza tutti gli altri significati è nulla. …la non posizione di questa valenza formale implica che non sia posto nulla. Che cosa vale questa valenza formale di essere, posta in quel modo? Nulla. L’esito della posizione astratta del puro essere non è dunque, come vuole lo Hegel, la posizione del nulla, ma il non porre nulla. Questa posizione formale dell’essere è porre nulla; pertanto, non sto ponendo l’essere, praticamente; è questo che ci dice. Se lo tengo lì, isolato, non posso porre nemmeno il semantema infinito che lo fa esistere in quanto essere e, quindi, è niente. È come se ponessi un significato ma dicendo che questo significato non rinvia a niente. È la stessa cosa: se non rinvia a niente, anche lui è niente. A pag. 434. Si dovrà allora concludere che se un qualsiasi significato non è posto, non può essere posto nulla. Se un qualsiasi significato, uno qualsiasi, non è posto, allora non pongo niente. Se insieme a questo significato non è posto anche l’intero semantico dei significati, io non sto ponendo nulla. È una cosa che poi servirà per intendere, per elaborare la questione dell’eterno, ciò che nega il divenire. Lo nega in quanto un elemento è il tutto, e se è il tutto non può contenere la sua assenza, come avviene nel divenire: qualcosa che viene dal nulla… Non può venire dal nulla, perché questo nulla, da cui dovrebbe provenire, comporta che prima questa cosa non c’è e poi c’è. È come dire che l’essere mantiene vicino a sé il non essere, senza toglierlo. Ma se tolgo il non essere, allora questo elemento diventa eterno, perché a questo punto non c’è più il passaggio dal non essere all’essere, perché questo non essere è stato tolto. Sta tutta qui la questione di Severino intorno al divenire. Il non essere, nel divenire, permane a fianco dell’essere, come qualcosa da cui l’essere procede, per cui deve tenerlo lì. Se, invece, lo tolgo, allora l’essere diventa eterno, perché non c’è un momento in cui non c’è; all’essere ho messo vicino il non non essere e poi l’ho tolto, per cui rimane l’essere e basta. Parmenide, tanto per dirne uno, ma uno appropriato, essendo lui che ha posto per primo la cosa. conclusione doppiamente aporetica, perché da un lato è immediatamente presente una molteplicità di orizzonti posizionali passati non includenti una certa quantità semantica – ossia l’essere immediatamente presente è presente come sviluppo, incremento –… Sta riprendendo quello che diceva prima: se un  qualsiasi significato non è posto, non è posto nulla. Però, dice, è immediatamente presente una molteplicità di orizzonti posizionali passati, e quindi non ci sono più. Se non ci sono più vuole dire che allora la cosa che è presente adesso, se deve tenere conto degli orizzonti posizionali passati, vuole dire che viene da questi orizzonti, ché non li ho tolti, sono lì, a fianco. Che è ciò che mostra l’esperienza, peraltro: l’esperienza mi dice che le cose divengono, perché basta che sposti una mano che tutto il mondo è divenuto un’altra cosa. C’è tutto il mondo, con la mia mano messa così, e poi c’è tutto il mondo con la mia mano messa cosà: il mondo è cambiato, non è più quello di prima. Questa è l’esperienza che mi dice che le cose cambiano. …dall’altro lato si viene a escludere la disequazione tra significato originario e assoluta materia semantica (perché se questa non fosse posta non potrebbe essere posto nemmeno l’originario), mentre, sopra, tale disequazione era stata data come L-immediatamente affermata. Dice che da una parte c’è il vedere che ci sono modificazioni passate che permangono, dall’altra, dice, si viene in questo modo a escludere questa disequazione immediata tra l’immediato presente e l’assoluta materia semantica, il semantema infinito. Questo non è più nell’esperienza ma, lo dirà adesso, è nel logo, nella ragione. In altri termini, si produce una situazione aporetica, perché viene rilevata un’opposizione tra logo e esperienza: il logo, rappresentato qui dal principio dialettico dell’implicazione posizionale tra un significato e le sue costanti;… Tra un significato e tutte le cose che questo significato comporta. Sta dicendo semplicemente che c’è questa disequazione tra il fatto che una parola, per potere dirsi, necessita di tutte le altre parole e che, quindi, questa parola è quella che è in quanto tutte le altre le ho tolte (questo dice il logo), ma al tempo stesso questa cosa, che è quella che è, per esperienza vedo che muta nel tempo per via di passati orizzonti semantici, che non sono più presenti ma che sono stati, in qualche modo sono ancora lì, a fianco. (L’esperienza del divenire è esperienza della variazione del contenuto:… È il contenuto, cioè il significato, ciò che una certa cosa vuole dire, che nel divenire muta. Un’immagina cambia, ma cambia il contenuto, non la forma, cambia ciò che per me significa quella cosa. …sono immediatamente presenti campi posizionali passati che non includono una certa quantità semantica, e che sono passati appunto per il sopraggiungere di questa quantità. Questa è l’esperienza del divenire, che è un’esperienza di variazione del contenuto, cioè, sono immediatamente presenti campi posizionali passati, sono presenti: io mi vedo come una volta, mi vedo come sono adesso. Il campo posizionale di me ventenne è passato, però, dice, è ancora lì, lo vedo; quindi, posso per esperienza cogliere questa variazione nel contenuto, tra me che fui e me che sono. Andiamo a pag. 444. Qui pone delle questioni interessanti. Parla del campo persintattico. Adesso dirà anche che cos’è per lui. Il teorema che afferma: “Ogni significato è costante di ogni altro significato” è dunque da intendere nel senso che di ogni significato si può dire che esso è per lo meno costante non sintattica di ogni altro significato. La costante sintattica è la costante che deve esserci necessariamente, perché se non ci fosse non ci sarebbe neanche ciò di cui è costante. Non sintattica vuol dire che non necessariamente, se manca questa costante, non posso porre quel significato. Il semantema infinito è invece costante di ogni significato, come costante sintattica di ogni significato. Il semantema infinito è la costante, quello che non può non esserci. Lo ha detto prima: “Ogni significato è costante di ogni altro significato”. Quindi, il semantema infinito, che è ciò per cui ogni significato è quello che è – ogni significato è quello che è per via del fatto che tutti gli altri significati sono stati posti e tolti –, è la costante sintattica di ogni significato, cioè non può non esserci. I significati che valgono come costanti sintattiche di ogni significato possono essere chiamati “costanti sintattiche illimitate” o “costanti persintattiche”;… La costante persintattica è quella che deve esserci necessariamente. …mentre i significati che valgono come costanti sintattiche di uno solo o di qualche significato possono essere chiamati “costanti sintattiche limitate” o, semplicemente, costanti sintattiche. Distingue tra una posizione universale dove, se io parlo dell’intero, è necessario che ci sia un campo persintattico, e cioè che ci siano delle costanti senza le quali io non posso porre l’intero. Se, invece, parlo di altre cose, non universali, allora, sì, posso porre un qualche cosa senza porre tutte e sue costanti. Naturalmente, posso porre qualcosa senza porre le sue costanti ma, comunque, ci deve essere sempre un modo di porre la questione in termini universali. Il discorso di Severino non transige: se non posso tutte le costanti, non posso porre neanche quel significato. segue, da quanto si è detto, che tutti quei significati che valgono come costanti sintattiche di ogni significato, sono tali che la loro non posizione implica l’annullamento posizionale di ogni orizzonte semantico. Se non ci sono non c’è neanche il significato che io voglio porre. È un discorso che non potrebbe farsi rispetto alle varianti: una variante può anche non esserci, però sappiamo che Severino riconduce le varianti a delle costanti. …da un lato tutti i significati che valgono come costanti sintattiche del semantema infinito sono costanti persintattiche… Devono esserci necessariamente. …dall’altro lato vi sono significati – come ad es. “essere” (essere formale) – che si fanno affermare per se stessi (o anche per se stessi) come costanti persintattiche. Ad es.: ogni significato o determinazione (compreso il significato “nulla”) è; ossia di ogni positivo si predica necessariamente l’essere; è immediatamente autocontraddittorio che una qualsiasi positività semantica non sia. E l’“essere” determina, in modo preminente, la forma di ogni significato: nel senso che ogni forma semantica si realizza come una certa determinazione dell’essere. A pag. 446. Chiamando “campo persintattico” l’organismo semantico costituito da tutte le costanti persintattiche, diremo dunque che l’apertura – posizione, presenza – di un qualsiasi orizzonte semantico è, essenzialmente, apertura del campo persintattico. Cioè: pongo necessariamente la presenza di tutti gli altri significati. In qualsiasi modo possa variare il contenuto presente, qualsiasi la metabasis… La μετάβασις in retorica è il cambiare discorso: qualcuno mi fa una domanda imbarazzante e allora cambio discorso… Lui lo sta usando in senso più ampio, come variazione di direzione. …in cui l’uomo possa avventurarsi, o qualsiasi il destino che gli è riservato, se qualcosa si manifesta vi è sempre lo stesso contenuto che si manifesta, spettacolo immutabile che accompagna le instabili apparizioni dell’essere. Questo è ciò che rimane sempre; e se c’è un significato allora ci sono tutti i significati. Ciò che a questo punto si tratta innanzitutto di chiarire è che se da un lato si deve dire che nessun orizzonte semantico è presente se non è presente il campo persintattico, dall’altro lato non si è attualmente in grado di determinare quali siano tutte le costanti persintattiche che appartengono al campo persintattico – o anche, per altro verso, sono immediatamente presenti aperture passate della struttura originaria, che non contengono la posizione di una o più costanti persintattiche. È il discorso che faceva prima rispetto al divenire; in qualche modo sta ripetendo la questione del divenire e dell’eterno. Se poi si tiene presente la natura semantica delle costanti in questione, è immediatamente presente che coscienza prefilosofica non riesce ai a sollevarsi alla posizione di tali costanti, sembrando così che questa posizione sia compito del sapere filosofico. Prendete il pensiero prefilosofico come la chiacchiera di cui parla Heidegger. Riprendendo qui una distinzione già operata, si dica dunque che la presenza di un significato è formalmente distinta dalla presenza della presenza di quel significato;… Lui dice: è presente un significato. Certo, se io parlo di qualche cosa, è chiaro che c’è un significato. Ma questo non significa che io sia consapevole della presenza di questo significato: lo uso, ma senza sapere che cosa sto facendo… che è il modo di parlare comune. Stante questa distinzione formale, segue che tutto ciò che si sa (tutto ciò che è presente, posto) non è necessariamente ciò che si sa di sapere; ossia non è autocontraddittorio affermare che ciò che si sa di sapere costituisca un orizzonte meno ampio di ciò che si sa. Orbene: se ogni orizzonte posizionale è necessariamente posizione del campo persintattico, non ogni orizzonte posizionale è posizione della posizione di quel campo. Sta dicendo che è vero che ogni significato comporta la presenza di tutti i significati, ma non è così automatico che io me ne accorga, né che lo sappia. Quest’ultimo sta sempre dinanzi – e quindi proprio esso è l’immodificabile destino dell’uomo -, contenuto essenziale della presenza, chiarità o epifania essenziale: resta nascosto soltanto in quanto non ci si avvede di averlo sempre dinanzi, così come la luce è nascosta soltanto in quanto l’occhio si perde nei colori e, pure vedendo in ogni colore la luce, non le riserba alcuno sguardo. Vedete che qui parla della chiacchiera, di cui parlava Heidegger. Ciascuno parla ma non si rende conto né che sta parlando, soprattutto, né di che cosa sta dicendo o del perché sta dicendo quello che sta dicendo. E appunto in questa situazione si trova la coscienza comune o prefilosofica: di non porre o di non avvedersi mai della presenza del campo persintattico. Ciò che attira l’attenzione è la novità del contenuto: il cangiamento, la sorpresa, l’imprevisto hanno una presa che non concede alcun tempo al calmo sguardo sul permanente campo persintattico. La novità provoca l’appariscenza, e l’appariscente è appunto ciò che la coscienza comune sa di sapere… Ciò che appare, il si dice, il si fa, il si pensa, ecc. …il permanente, che pure è la stessa condizione della manifestazione dell’appariscente, non suscita invece interesse, e pur essendo costantemente saputo, non si sa di saperlo. Di una sorta di distrazione dell’uomo dal contenuto essenziale il sapere filosofico ha sempre parlato, da Platone allo Heidegger: ciò che invece ha fatto difetto, o è stato del tutto assente, è stato il processo dimostrativo, in base al quale si accertasse che ogni orizzonte posizionale è posizione dello stesso contenuto essenziale… Qualsiasi orizzonte posizionale è posizione del tutto. …che resta pertanto in ombra sin tanto che non si pervenga alla consapevolezza della presenza essenziale. Che cosa è essenziale? È sapere che il significato, ciò che sto dicendo, non soltanto ovviamente ha una sua forma ma c’è anche una forma della forma, di cui io devo accorgermi. Questa forma della forma è data dal fatto che questo significato è quello che è per via di tutti i significati che in questo momento non sono presenti ma che lo rendono quella cosa che è in questo momento. Il linguaggio comune – ossia ogni tipo di linguaggio non filosofico – è una delle forme principali della distrazione, perché ciò su cui verte il linguaggio comune, ciò di cui comunemente si parla, è sempre soltanto un aspetto – appunto quello più appariscente – di ciò che anche nella coscienza comune si manifesta. Per Severino la questione dell’uomo è posta in modo tale per cui, secondo lui, l’uomo non è dio, è molto di più, nel senso che ha in sé tutti gli strumenti possibili per accorgersi di questo. Può farlo, quando vuole; non lo fa, ma questo è un altro discorso, ma può farlo, non c’è nulla che glielo impedisca se non la chiacchiera, per i motivi che sappiamo. Appare dunque come, da un lato, si debba dire che ogni orizzonte posizionale sia posizione del campo persintattico, e come, dall’altro lato, quest’ultimo si manifesti in un processo: il processo, lo sviluppo non compete, come ormai è acquisito, alla posizione del campo persintattico, ma alla posizione della posizione di esso. Il campo persintattico non ha nessuno sviluppo ma è la posizione della posizione, cioè il porsi di questa posizione persintattica, il porsi di ciò che appare, dell’appariscente, questo appare come divenire. La struttura originaria – l’originaria apertura del filosofare – è appunto il luogo in cui la presenza del campo persintattico si fa presente… Solo qui si fa presente. …o in cui vien resa testimonianza al contenuto essenziale. Ma questa testimonianza è tale che, mentre ogni orizzonte posizionale che non sia la struttura originaria si lascia accanto come non tolta la sua negazione, ossia non è in grado di darsi fondamento… Perché per darsi fondamento l’essere ha bisogno di porre il non essere e poi di toglierlo. …e si realizza quindi come un arbitrario asserire… Qualunque cosa io asserisca, se non lo pongo come fondamento – nell’accezione appena detta - cioè se non pongo l’intero persintattico per toglierlo, se non faccio questo, ogni asserzione è arbitraria. Qualunque cosa io affermi lo affermo arbitrariamente perché può essere quello quanto il suo contrario, nulla mi impedisce di pensarlo. Soltanto nell’originario, nell’incontraddittorio, io posso affermare qualcosa che non sia arbitrario. Dice che la struttura originaria è l’apertura del fondamento, sì che l’orizzonte semantico – e quindi il campo persintattico – che qui si manifesta è necessariamente tenuto fermo di contro alla sua negazione; la testimonianza del campo persintattico ne è insieme la tutela. Ad esempio, ogni orizzonte posizionale è posizione del semantema infinito, ma solo nella struttura originaria è tolta la negazione dell’intero… Soltanto nella struttura originaria, nell’incontraddittorio, è tolta la negazione dell’intero. Se non tolgo la negazione dell’intero, allora questa cosa che dico è l’intero, cioè è quel significato che sto usando più tutti gli altri significati; ecco perché non posso affermarlo. A pag. 455, paragrafo 26, Note. a) Affermando che ogni orizzonte posizionale… L’orizzonte posizionale è il discorso, ciò che dico. …è apertura del campo persintattico, si viene a sostenere quella che è probabilmente l’unica forma corretta di “innatismo” o “apriorismo”. L’“apriori” può essere definito qui come quell’elemento semantico che è necessariamente posto con la posizione di un qualsiasi contenuto semantico – la novità non essendo d’altronde qui data dalla definizione come tale, ma dal modo col quale la definizione è stata ottenuta.