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27-2-2008

 

Heidegger ha sempre lamentato che la filosofia ha cercato sì l’essere, cosa che fa anche lui naturalmente, ma ha scambiato l’essere con l’ente e cioè ha cercato in ciascuna cosa che è ciò che vi è di più proprio cioè l’essere, ciò che permane, ciò che sussiste sub specie æternitate, ora dunque il percorso che a lui interessa deve portarlo all’essere, ma non più sotto forma di ente, perché lui critica questa posizione? È la posizione della filosofia tradizionale, la posizione teoretica, quella che considera un aggeggio, ossia un ente, e attraverso il pensiero cerca di giungere a ciò che vi è di più proprio, l’essere, che per esempio per Platone erano le idee, per Aristotele la sostanza, l’ousia, per i cristiani l’essere supremo cioè dio. L’essere è stato ricercato di volta in volta nella totalità degli enti oppure nell’essere supremo appunto dio oppure con Aristotele nella sostanza, però tutti questi modi di pensare hanno per Heidegger un intoppo e cioè che appunto anziché occuparsi dell’essere cioè del più proprio continuano a occuparsi di enti, le idee sono enti, la sostanza è un ente non è l’essere delle cose e allora incomincia a interrogare l’essere ma come, e dove? Dove troviamo l’essere? Visto che gli altri a suo parere hanno fallito, cioè il pensiero teoretico, la metafisica stessa ha fallito perché la metafisica è sì un discorso sull’essere ma un discorso sgangherato sull’essere perché continua a occuparsi di enti anziché di essere, per questo lui vuole fondare l’ontologia cioè il discorso sull’essere, e allora ecco la genialata di Heidegger: di fronte alla domanda dove cercare l’essere e poi anche in che modo risponde che occorre cercarlo là dove questo essere è cercato ma chi lo cerca? L’uomo, l’uomo che è sì un ente al pari di qualunque altro certo però ha una caratteristica, che è l’unico che si interroga sull’essere tutti gli altri no, è l’unico ente che ha questa possibilità. Per Heidegger solo gli umani esistono, le altre cose a suo avviso non esistono, sono enti ma non hanno l’esistenza perché l’esistenza è data dal fatto di pensare qualche cosa e in effetti l’uomo ha questa virtù, pensa, ma pensando pensa necessariamente qualcosa e questo non è marginale dice lui, come dire che il pensiero è sempre pensiero per qualcosa e cioè è una sorta di movimento, è un tendere verso, da qui l’intenzione, intenzione verso qualcosa, tendere in qualcosa letteralmente. In questa intenzione come dicevo c’è un movimento verso qualche cosa e questo movimento ha degli effetti perché gli umani a suo avviso sono caratterizzati dal fatto di trovarsi nel mondo, gli umani sono nel mondo naturalmente ma come sono in questo mondo? Il termine tedesco che lui usa è dasein che significa letteralmente essere qui, esser-ci. Essere qui, l’esser-ci, essendo nel mondo gli uomini si trovano ad avere a che fare con il mondo, il loro pensiero in realtà è sempre un pensiero verso qualche cosa di utile, verso qualche cosa che serve a qualche cos’altro, questo è ciò che definisce l’uomo cioè l’esistenza, cioè l’esserci sono o l’essere per il mondo significa sempre essere per qualche cosa, pensare significa pensare qualche cosa ma a questo punto, adesso io taglio tutta una serie di cose naturalmente, a questo punto il pensiero più proprio, ciò che è più proprio dell’uomo è il fatto che parli, che sia un essere parlante e il linguaggio non è affatto un mezzo per definire il mondo, per descriverlo, ma è ciò in cui l’essere si manifesta. Ora a questo punto l’essere per Heidegger non è altro che questo essere continuamente proiettato o progettato, sempre in avanti, sempre verso un destino un qualche cosa che è sempre per essere ma che non è mai compiutamente definito, un essere per qualche cosa che non è mai qui in questo momento, ma l’essere umano, il suo essere proprio è quello di essere per qualche cosa che sarà, l’essere per, qualcosa che ancora non è ma che sarà e cioè essere nella possibilità, lì avviene la decisione, si decide per qualcosa che sarà in futuro e che ancora non è, e l’essere è ciò che è vero, è la verità, quindi la verità si manifesta in un continuo svelarsi per velarsi nuovamente esattamente come fa l’essere al cui seguito viaggia anzi, è la stessa cosa direi, tant’è che per verità non utilizza il termine latino di veritas ma quello greco di alhqeia che è composto da un alfa privativo e da un verbo lanqanw che significa nascondere, quindi non nascosto, ciò che affiora, che si manifesta nel momento in cui per esempio, accade una decisione autentica cioè fatta per sé e immediatamente scompare. Un pensiero del genere ha avuto un certo successo perché in effetti mostra che la verità non può dirsi praticamente, non può essere detta, così come l’essere, l’essere non può essere definito è possibile soltanto reperirne il senso, naturalmente per reperire questo senso c’è tutto un procedimento che lui chiama analitica esistenziale cioè il modo di analizzare l’esistenza, l’uomo in definitiva, l’unica cosa che esiste per Heidegger, analizzando questo che cosa trova? Innanzitutto un problema, un problema che ha sempre pesato nella filosofia e cioè l’essere o la verità posto come qualche cosa di compiuto, di definito, di stabile, ciò che sussiste sempre e comunque e permane se stesso e in se stesso non può avere nulla a che fare con il tempo il quale invece è movimento e mutazione continua, infatti muove delle obiezione anche alla logica che cerca e definisce una verità come qualcosa di conchiuso in sé, di definito, per lui la verità non ha questa caratteristica in sé conchiusa anzi non può essere reperita in quanto tale se non in pochi momenti in cui affiora e si manifesta all’uomo che è in grado di ascoltare, il tempo dunque come interviene? Come passato, presente e futuro, il passato cioè il fatto dell’essere l’uomo da sempre destinato a ciò che sarà per lui, il pensare è sempre il pensare per qualcosa quindi essere sempre progettato o letteralmente proiettato in avanti, il presente è il momento della decisione, il futuro il per che cosa essere progettati, ecco che allora l’essere si temporalizza, il tempo torna a fare parte dell’essere così come lo era prima di Platone. Per lui la metafisica, anzi questo disporsi ad ascoltare l’essere è cessato con Platone quindi è cominciata la metafisica fino a Nietzsche e con lui si è conclusa, disporsi dunque ad ascoltare l’essere cosa significa? Significa trovarsi ad ascoltare quel progetto in cui ciascuno è continuamente progettato per qualche cosa che ancora non è ma che sarà. Ma c’è un limite a tutto questo, una finitudine, la vita non è eterna ma è terminata ad un certo punto quindi essendo la morte il termine è propriamente la morte che, anziché essere un elemento negativo, diventa un elemento positivo perché dando una finitudine a questo essere progettato quindi alla possibilità rende con questo ogni decisione una decisione autentica, sarebbe invece totalmente inautentica se la vita fosse infinita, se la vita è infinita allora ogni decisione può essere ripresa, può essere riveduta, se invece è finita allora no allora riprendendo Kierkegaard rileva una sorta di aut aut o una decisione o quell’altra, non posso prenderle entrambe perché il tempo è finito, scade ad un certo punto e quindi è soltanto perché esiste la morte che esiste una vita autentica, continua a ripetere Heidegger, e allora ciò che lui invoca è un essere per la morte ma non in senso distruttivo nel senso che se c’è la morte allora non vale più nulla, ma proprio perché c’è la morte allora le cose valgono cioè le cose, le decisioni che gli umani prendono hanno un valore e dunque ciascun atto; infatti lui sottolinea l’aspetto pratico a vantaggio di quello teoretico che secondo lui non mira a granché se non a considerare degli altri enti, di scarso interesse perché ciò che interessa è la verità cioè l’essere, dopo il fallimento dunque della metafisica e dopo essere giunto alla conclusione che l’essere non è definibile perché per potere essere definito occorre un genere che lo comprenda, che lo distingua da altri e invece l’essere è il genere per eccellenza e quindi non è distinguibile da altri, ché li comprende tutti necessariamente, dunque considerato l’impossibilità di definire l’essere lo reperisce nella prassi, nel quotidiano, nel decidere, nell’accorgersi, quindi nel prestare orecchio al fatto che ciascuno esiste proprio in quanto decide continuamente e non può non farlo, il mondo esiste come spazio della sua decisione non esiste altrimenti, anzi lui non si cura affatto di vedere se esiste un mondo al di fuori della coscienza, la coscienza non è altro che la comprensione del mondo e cioè propriamente il comprendere di essere proiettati verso qualcosa che ancora non è e che sarà ma al momento in cui sarà allora qualcosa si sarà perduto perché non è mai fermo è in continuo movimento quindi perde continuamente qualcosa, si nullifica al momento stesso in cui esiste, in cui l’essere si dà al tempo stesso si nullifica, per questo scompare e si ri-vela letteralmente cioè si vela di nuovo. Se qualcosa diviene al tempo stesso scompare perché non è più ciò che era e non è ancora ciò che sarà…

Intervento: il funzionamento del linguaggio…

Si, il funzionamento del linguaggio, ora in effetti per molti è stata posta la questione in questi termini oltre avere posto lui stesso l’accento sul linguaggio che definisce come la dimora dell’essere, l’essere emerge, sorge dal linguaggio, usando le sue metafore è come un bosco dove c’è l’ombra e quindi non si vede ma a un certo punto ci sono delle radure, queste radure sono illuminate e qui qualche cosa dell’essere appare. La questione del linguaggio è stata ripresa dopo Heidegger da molti come prioritario fra tutte le possibili attività umane anzi, come quella dove effettivamente il più autentico affiora, ha l’occasione di darsi, di comparire, di darsi all’ascolto, tuttavia la questione del linguaggio pur essendo avviata da Heidegger rimane sempre un mezzo per rilevare l’essere, anche se ne è la dimora rimane un mezzo. L’idea è quella di reperire l’essere, qualche cosa che sia assolutamente proprio di qualunque cosa, anche se l’essere è posto come ciò che si svela rivelandosi rimane il fatto che questa posizione continua a connotare qualche cosa che appartiene alla struttura del linguaggio, ovviamente ciò che è mancato a lui come a infiniti altri è accorgersi che è attraverso il linguaggio che può pensare che l’essere sia quello che lui immagina che sia e che il linguaggio non è uno strumento per intendere qualche cos’altro che linguaggio non è, ché se questo qualche cos’altro linguaggio non fosse non sarebbe mai conoscibile e allora la sua tesi intorno all’essere o quella di Platone o quella di Anassimandro o quella di Aristotele o di Leibniz o di Spinoza varrebbero al pari allo stesso modo e questo sarebbe totalmente inevitabile, sarebbero dei racconti, delle fiabe intorno a qualche cosa che di fatto non c’è né potrà mai esserci. Tuttavia ha avuto un merito Heidegger, quello di avere posto l’accento fra i primi sulla priorità, sulla portata del linguaggio. Non a caso decide di chiamare la sua operazione non più filosofia, ma la chiama pensiero, proprio perché la filosofia è iniziata da millenni da un pensare metafisico. Pensare l’essere quindi la verità non più come qualcosa di stabile, di fermo come la metafisica ha sempre pensato appunto da Platone fino a Nietzsche ma come qualcosa di semovente, certo dispone le cose altrimenti e da qui tutto il pensare ermeneutico, cioè non più la definizione ma l’interpretazione, si sposta dal definire qualcosa, letteralmente de-finire, quindi conchiudere letteralmente, sono sinonimi, non più dunque definire ma interpretare cioè dare un senso o più propriamente come direbbe lui lasciare che il senso dell’essere si manifesti, ma come si manifesta? Su questo è abbastanza vago ovviamente perché se non lo fosse definirebbe il modo di manifestarsi dell’essere e questo gli riesce particolarmente difficile visto che l’essere si manifesta nel momento in cui si nasconde, come se andasse contro ogni possibile definizione ma si manifesta a suo parere perlopiù non soltanto come pensare l’essere, perché quando l’uomo pensa l’essere è anche l’essere che pensa se stesso perché l’uomo lui l’ha definito come l’essere che pensa, ma anche e soprattutto nella poesia perché la poesia al pari del pensiero ontologico che riflette intorno all’essere e consente all’essere di riflettere se stesso inventa nuovi modi di aprire, di aprirsi all’essere, la poesia attraversa nuove forme, nuove figure, nuove immagini, nuove cose e quindi nuovi modi di aprirsi all’essere. L’essere quindi non è nient’altro che questo movimento del pensiero che pensa se stesso e pensando se stesso è l’essere stesso che pensa se stesso e quindi è lì che si manifesta, può provare una cosa del genere? Assolutamente no ovviamente però è un modo molto suggestivo che ha avuto un notevole successo anche in seguito al fatto che la metafisica come sapete è fallita, è fallito il tentativo di trovare la verità attraverso il pensare teoretico, dopo gli ultimi sconvolgimenti avvenuti dopo i primi del 900 con Gödel soprattutto, con Cantor etc. dove furono dati dei notevoli scossoni al pensiero metafisico per eccellenza, cioè quello matematico, cioè quello più sicuro, quello più affidabile e allora si è abbandonata la speranza di trovare la verità attraverso la semplice considerazione delle cose, degli enti, uno riflette su un ente e trova che cosa nell’ente c’è di più proprio ma questo non serve a niente perché qualunque altra specificazione si trova sarà un altro ente non sarà mai l’essere, uno potrebbe: chiedere perché no? Tuttavia dicevo è un pensiero suggestivo perché dopo questo fallimento mostra un’altra possibilità di intendere l’essere, come dire da questa strada si è fallito e non c’è modo di venirne fuori, proviamone un’altra, consideriamo l’essere a questo punto non solo come qualcosa da reperire ma ciò stesso che sta reperendo cioè l’uomo che in quanto è qui adesso, calato nel mondo che utilizza continuamente, è lui stesso questo stesso essere che sta cercando. Naturalmente sarebbe possibile sia compiere un percorso che ci conduca a dire che Heidegger ha anticipato tutto ciò che stiamo dicendo oppure al contrario affermare che tutto ciò che Heidegger ha affermato va esattamente contro a tutto ciò che noi abbiamo stabilito, si possono fare entrambe le cose, in effetti possiamo piegare le cose che dice Heidegger e volgerle a ciò che noi vogliamo, qualunque interprete di Heidegger dopo tutto farà la stessa cosa e lui stesso invita a fare la stessa cosa, in fondo l’ermeneutica fa questo, e che non è possibile porsi di fronte al testo, mettiamo, come un soggetto e un oggetto perché entrambi coesistono, entrambi sono in un certo senso la stessa cosa perché io che mi pongo di fronte a qualche cosa al momento in cui mi pongo di fronte io sono quello stesso progetto che si pone di fronte con la stessa intenzione di leggere il testo per esempio, non ci sono più io e il testo ma è l’intenzione che fa esistere questo testo in quanto ricercato, per esempio, e dunque possiamo con lo stesso Heidegger piegare tutto ciò dice nel modo in cui vogliamo perché io che sto parlando di Heidegger io sono quella intenzione che sta cercando in Heidegger qualche cosa e quindi essendo intenzione io sono qui in questo momento con il mio progetto, sono progettato, sono proiettato in questa cosa e io e questa cosa coesistiamo insieme e esistiamo simultaneamente. Ora naturalmente questo ci autorizza a far dire ad Heidegger tutto ciò che vogliamo perché nel momento in cui ci disponiamo a leggere Heidegger possiamo compiere esattamente quell’operazione che lui ci invita a fare con il suo testo e quindi ecco l’operazione che si può fare a questo punto è questa. Lui ha colto che l’essere non è altro che essere parlante ed essendo essere parlante non può esistere al di fuori del linguaggio che lo fa esistere che è esattamente ciò che noi stiamo stabilendo da tempo e quindi diciamo la stessa cosa oppure contrariamente continua a immaginare che il linguaggio sia quello strumento che consente all’essere di manifestarsi non accorgendosi che il fatto che l’essere si manifesti oppure o no è qualche cosa che il suo linguaggio gli consente di pensare, ché senza linguaggio lui non si sarebbe potuto mai porre una cosa del genere, ché senza linguaggio l’essere non solo non esisterebbe ma non sarebbe mai esistito. Ma la suggestione di cui vi parlavo prima sta in questo, nell’apertura, il trovarsi dell’essere sempre aperto verso altre possibilità e questa apertura è data dal fatto che c’è una finitudine: la morte. Essere per la morte è rendersi conto autenticamente che qualunque decisione io prenda, di questa decisione sono assolutamente responsabile, per questo si oppone al conformismo a quello che lui chiama il “si” impersonale il “si dice” “si fa” “si pensa” anziché io penso, io faccio. È un richiamo forte quello che fa all’esserci cioè all’essere qui e adesso mentre sto parlando e assumermi la responsabilità di quello che sto facendo non nascondendomi dietro a un “si “ impersonale “si fa così”, no, io adesso qui faccio così…

Intervento: non ho inteso bene l’aggancio con la morte cioè perché la morte dovrebbe rendere più autentico…

Diventa, come direbbe lui, possibilità dell’impossibilità di possibilità, cioè la possibilità della morte, la morte sarebbe l’impossibile, l’impossibile in quanto non c’è più nessuna decisione da prendere, quindi la morte come possibilità ma la morte è l’impossibilità di altre possibilità per definizione, tuttavia è possibile, è l’unica cosa che è sicura in un certo senso quindi la morte come possibilità non è altro che la possibilità dell’impossibile, del termine di ogni possibilità, ora terminando ogni possibilità cosa succede? Che le decisioni che vengono prese, vengono prese all’interno di un campo finito, se ha solo due possibilità la decisione che prende è importante se non c’è la possibilità di ritornare sulla propria idea ma se…

Intervento: in vista che l’impossibilità si verifichi…

Non esattamente, non è un vivere per la morte propriamente, l’essere per la morte significa che essendo il numero di possibilità finito perché c’è la morte allora ciascuna di queste possibilità deve essere vissuta con la piena responsabilità, deve essere vissuta in modo autentico mentre al contrario se non ci fosse una fine allora qualunque scelta, qualunque decisione potrebbe essere rinviata all’infinito oppure cambiata come si vuole, in fondo se dovesse decidere fra il sì e il no di una certa cosa e non avesse altre possibilità questa decisione diventerebbe autentica nel senso che a questo punto autenticamente decide, decide in quanto ne va del suo stesso essere, se invece potesse prendere decisioni all’infinito allora non ci sarebbe nessuna autenticità, la morte è l’ultima possibilità. Siccome l’uomo vive in quanto è verso un’apertura di possibilità la morte invece è la fine di ogni possibilità per questo è il suo riferimento ultimo, il progetto definitivo, l’essere proiettato verso questa fine è il massimo del progetto, qualunque progetto è inferiore a questo. Pensi all’uomo come l’essere progettato sempre verso qualche altra cosa, come dicevamo prima si pensa qualche cosa quindi il pensiero è per qualche cosa, ora questo per qualche cosa comprende fra tutte le possibilità una che è la fine di tutte, come dire che è quella che da valore a tutte le precedenti perché è l’ultima e quindi non è propriamente un vivere per la morte ma questo essere per la morte è avere sempre presente che qualunque gesto, qualunque atto, qualunque decisione è autentica proprio perché è all’interno del numero finito di decisioni, acquista valore perché è all’interno di un numero finito di decisioni e quindi di possibilità, queste possibilità non sono infinite…

Intervento: quando si decide qualcosa muore…

Lui riprende da Kierkegaard la questione dell’angoscia, della paura, è l’angoscia di fronte alla finitudine, di fronte al fatto che ciascuna volta l’essere è come se “morisse” ma proprio nel suo divenire compare e poi scompare…

Intervento: il passato è quello che si è perso…

Il passato sì certo, ma è il futuro dominante, il passato è trovarsi già da sempre destinati a qualche cosa…

Intervento: ciò che muore determina la vita perché ciò che muore è ciò che ha determinato al decisione… le cose portate in una sospensione continua…

L’essere volge verso il niente, cioè letteralmente non ente, nulla, al momento in cui si sottrae poi essendo non ente è fatto di niente questa è una delle questioni che poi hanno portato al nichilismo…

Intervento: a questo punto bastava interrogare come uno esiste a questo punto… di lì poteva nascere un altro discorso praticamente…

Andare verso qualche cosa sempre e comunque in effetti potrebbe per suggestione evocare il movimento stesso di qualunque significante che si muove verso un altro significante e che trae da un altro significante la propria direzione, questo per dirvi come gli umani da sempre, almeno alcuni non tutti ovviamente, si sono avvicinati alla questione in modo qualche volta anche interessante pur mancandola sempre e sistematicamente. Una delle idee di Heidegger è che all’interno delle parole ci fosse qualche cosa, la condizione del manifestarsi dell’essere per cui ecco, andare a cercare a scavare nelle parole, dividere, scindere le parole, trovare l’etimo al punto che è stato lui a introdurre l’idea che sia possibile reperire in ciò che la persona dice le cose che la persona non ha assolutamente voluto dire ma che tuttavia c’erano, c’erano perché comunque in ciò che diceva qualcosa dell’essere è affiorato a sua insaputa, così come è avvenuto nella storia sempre, la storia non è altro che un percorso di manifestarsi e nascondersi dell’essere continuo a seconda delle epoche e dei movimenti vari per cui giustifica il fatto che un critico d’arte faccia dire a un pittore cose che il pittore non ha mai neanche pensato di metterci, ma lo giustifica dicendo che comunque in ciò che ha fatto a insaputa dell’autore qualcosa dell’essere è affiorato, si è illuminato, e il critico può vedere cose che nemmeno l’artista ha visto in ciò che ha fatto, naturalmente tutto questo se si ammette e soprattutto si accoglie il fatto che l’essere abbia questa prerogativa se no, no. C’è qualche motivo per cui dovremmo accogliere le tesi di Heidegger sull’essere a parte eventuali suggestioni? Nessuno naturalmente, non più di quanto dovremmo accogliere quelle di Aristotele come sostanza, per esempio, o la mia cioè come elemento linguistico che è più sostenibile e più potente…

Intervento: la responsabilità dell’individuo si gioca in questa scelta però è…

Ma no, è l’uomo, sta all’uomo aprirsi all’essere cioè ascoltarlo, consentire all’essere di manifestarsi perché nel “si” impersonale…

Intervento: quindi è sempre consapevole…

Esattamente, o autentico come dice lui, oppure inautentico, se è inautentico allora c’è il conformismo cioè non compare mai, non c’è modo anche se si parte da lì, dal modo comune, quotidiano però poi ci deve essere questa riflessione sull’essere, mettersi in ascolto dell’essere…

Intervento: cosa ha a che fare questa distinzione fra autentico e in autentico - il conformismo - e ciò che c’è di specifico, di particolare di unico in ciascun individuo?

Il conformismo è adeguarsi al modo comune di pensare, lui fa un esempio piuttosto bizzarro di decisione autentica, per esempio quando nel Simposio Socrate, lui fa quello che fanno tutti, va lì mangia e beve ma ad un certo punto decide di andarsene, a me non pare ma lui l’ha posto come esempio di decisione autentica, cioè al contrario di tutti decide di andarsene via, compie una decisione che non è quella di tutti e si assume questa decisione…

Intervento: sul discorso del rivelarsi dell’essere?

Vuole dire accorgersi che si è comunque, che si vive, che si esiste per qualche cosa, per un progetto…

Intervento: è stato utilizzato dalla religione cattolica come dio che si rivela…

Heidegger viene anche da studi teologici, infatti la sua nozione di essere è molto vicina a quella di evento, qualcosa che avviene, avviene nel momento in cui io mi progetto, mi proietto verso ciò che ha da essere ciò che è da essere, porre l’essere come evento è esattamente ciò che ha fatto il cristianesimo, l’essere cioè dio, l’essere supremo è qualcosa che avviene, non più quindi come qualcosa di statico, immobile, fermo e identico a sé ma qualcosa che avviene e infatti lui riprende molte cose della teologia soprattutto della prima teologia dei padri della chiesa, soprattutto Paolo e infatti la posizione della chiesa cristiana è essere in attesa dell’evento e questo evento è il ritorno di Cristo. Ma sia come sia Heidegger pone la vita cristiana come la vita autentica perché proiettata, progettata direbbe lui verso un qualche cosa che ha da essere pur naturalmente non essendo affatto cristiano, l’essere non è altro che trovarsi presi in questa intenzione che ciò che da sempre io sono progettato ad essere…

Intervento: il progetto della predestinazione?

No, non si tratta di predestinazione, non ha a che fare con la predestinazione, questo destinato ad essere vuole dire che io da sempre sono per qualche cosa, ciò che io penso e se penso, penso per qualcosa, in questo senso non ha nulla a che fare con la predestinazione.

Ecco, grosso modo questo è il pensiero di Heidegger, giusto per darvi un’idea di come sia possibile andare anche molto vicini alla questione del linguaggio, così come abbiamo visto con Wittgenstein, con Austin e con altri ancora.