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27 gennaio 2021

 

L’attualismo di G. Gentile.

 

Siamo al Capitolo VII, Le categorie e la categoria, Paragrafo 3. Critica della soluzione kantiana. Il logo concreto che è l’essere vivo, con la cui vita si comincia a vedere la necessità di spiegare tutte le sostanze organiche elaborate nel vivo laboratorio dell’organismo, per dire com’è fatto, si pone sulla tavola di marmo, e gli si caccia nel petto il coltello, e si squarta e taglia e ritaglia, facendone fuggir via tutta la vita che si cercava, e non lasciando altra vita che quella di chi taglia ed osserva e non riconosce come realtà se non ciò che è osservabile perché tagliabile: spietato vivente, non disposto a rispettare altra vita che quella che non conosce, e perciò non può sopprimere. Qui Gentile lo dice in modo un po’ folkloristico, però ha reso bene l’idea. C’è dunque il pensiero, e non c’è la realtà, né il pensiero reale; e il mondo sfuma nell’ombra di un sogno. Con la categoria-funzione si pensa egualmente la realtà presupposta ancora al pensiero che la pensa, negandola come quella realtà, soggettivandola, fenomenizzandola, e riducendola quindi a indizio o rappresentazione tutta nostra di quella realtà, verso cui il pensiero tuttavia si orienta, e che resta perciò ancora un desiderio. Il pensiero è produzione del soggetto, ancorché con materiali da esso ricevuti, ma la cui essenza gli sfugge del tutto: e perciò è ancora pensiero, non realtà. E rimane sì il pensiero, ma un pensiero esso stesso, inafferrabile come le ombre; poiché pensarlo, conoscerlo è intuirlo e assoggettarlo alle categorie, e quindi fenomenizzarlo, anch’esso. Con la categoria-funzione si resta pertanto nella cerchia invalicabile di un pensiero irreale e di una realtà impensabile. La categoria-funzione. Ne parlava prima a proposito di Platone e che, rispetto alla categoria-predicato, pone sì due elementi, ma separati, mentre la categoria-predicato ne pone uno. Paragrafo 5. Critica della soluzione hegeliana. Ma la posizione del problema, appena Hegel dalla Fenomenologia passa alla Logica, è infida e sdrucciolevole: e sulla china del pensiero, su cui da principio quivi si colloca, il filosofo è tratto a scendere fino alla più rigida ricostruzione del logo astratto, non come astratto (che ha la sua ragion d’essere) sì come concreto. È la critica che aveva già fatto ad Hegel di porre il concreto come un astratto, cioè come pensiero pensato. L’Io, da ricostruire, si ricostruisce perché divenire. Questo divenire è la sintesi a priori, da cui trasse origine la categoria-funzione. Ora questo divenire, per essere quella vera sintesi a priori, di cui si ha bisogno se si vuol restituire al pensiero la sua realtà e alla realtà la sua idealità, si potrà bensì analizzare e ricostruire per l’analisi, ma in che modo? Non certo ripetendo l’errore di fare l’analisi antecedente alla sintesi, e quindi meramente verbale e logicamente impossibile. Il divenire è sintesi di essere e non-essere. Ora basta idealmente presupporre questa dualità di tesi e antitesi alla sintesi perché la sintesi non sia più a priori. Questo era il problema della sintesi a priori, e si ricade qui nella separazione tra tesi e antitesi e la sintesi come un ulteriore elemento, anziché essere la relazione i due. Ed è ciò che fa Hegel, determinando il principio dell’idea logica, ossia dell’autocoscienza nell’essere, il quale si nega e perciò diviene. Ma prima di negarsi è:… Questo è il punto: prima di negarsi è qualche cosa …ed è proprio essere, non divenire, non pensiero, non autocoscienza. Donde, come vedemmo, le difficoltà sempre incontrate sulla soglia stessa della dialettica hegeliana; le quali Hegel stesso e i suoi seguaci tentarono superare, negando l’apriorità pur presupposta dell’essere, e sforzandosi di sostituirvi l’apriorità del divenire. Questo è il nucleo della critica di Gentile a Hegel, e cioè il fatto che Hegel, non cogliendo l’atto, l’attualismo in cui tesi, antitesi e sintesi avvengono, questo divenire lo presuppone, non lo fa sorgere dall’atto, ma è costretto a presupporlo da qualche parte. Paragrafo 6. Il problema delle categorie nella logica del concreto. più precisamente può dirsi che nella logica del concreto, che è l’unica logica in cui il pensiero pensa la verità, la categoria è autosintesi;… Non è più una sintesi come un risultato di qualche cosa ma è autosintesi, cioè si produce da sé. …e come tale è non solo funzione, come si volle dalla logica trascendentale, sì anche predicato, come si disse dalla vecchia logica analitica. La categoria-autosintesi è infatti l’unità della categoria-predicato e della categoria-funzione:… Questo è ciò che lui chiama autosintesi. …di quella come pensamento dell’astratto logo astratto, e di questa come pensamento dell’astratto logo concreto. Poiché a chi mi ha seguito fin qui dev’esser chiaro, che se il logo astratto è illegittimamente pensato soltanto se si pensa astrattamente, avulso dal concreto, con cui è congiunto invece da un nesso vitale, anche il logo concreto, che è il dialettismo del pensiero pensante, è astrattamente pensato, se non si vede in questo nesso, anche per lui vitale, col logo astratto. Se non si tiene conto, in pratica, che sia il logo astratto sia il logo concreto sono simultanei e che non c’è mai uno senza l’altro. Paragrafo 7. La categoria autosintesi come predicato La categoria autosintesi è il predicato, non certo del giudizio astratto, ma dell’autonoema; perché se per predicato s’intende il pensiero che rende pensabile ciò che si pensa, l’universale onde s’idealizza il dato del pensiero, e cioè il pensiero nella sua immediata posizione, solo predicato d’ogni pensiero che si pensi è l’Io pensante, non essendovi intelligibilità obbiettivamente chiara e luculenta, la quale abbia valore per chi non sia in condizione di vederla: e non essendovi perciò altra possibile proposizione evidente, e cioè logicamente vera, e quindi apprensibile come razionale, che quella proposizione la cui evidenza rampolli dalla soggettività individuale e determinata dell’Io a cui si rappresenta. Questa è l’unica verità a cui possiamo aggrapparci: che io sto pensando. Quale proposizione più evidente di questa, che «Dio è»? Nel logo astratto, astrattamente preso come concreto, nulla perciò di più conclusivo e stringente dell’argomento ontologico. Quello di Anselmo d’Aosta. Eppure, dixit insipiens in corde suo: Non est Deus. Dice l’ignorante, lo sciocco, in cuor suo, che Dio non esiste. L’evidenza della verità oggettiva non ha presa nella sua mente, cioè non vale, non è verità per lui. Il quale sarà sciocco quanto si voglia; ma è quello a cui l’argomento ontologico s’indirizza: è l’uomo non persuaso che l’uomo convinto d’una sua verità si propone di persuadere. E se lo propone, come abbiamo visto, non per un capriccio qualunque, sì per un’esigenza irresistibilmente imperativa del pensiero che preme con la sua universalità sui limiti che cerca, anzi pone, e che deve superare, sotto pena di smarrire la propria universalità e cessare così di esser pensiero. È la definizione precisa della volontà di potenza, il motivo per cui non c’è possibilità di arrestare la volontà di potenza, perché ciascuna affermazione si pone come universale e come tale deve essere accolta. Paragrafo 9. Il problema della molteplicità delle categorie. Il mondo, come noi lo vediamo, cogli occhi del corpo o della mente, è un mondo risultante da un processo: quel mondo empirico, che convien trascendere per pensarlo assolutamente, poiché un mondo che è risultato da un processo è un che d’immediato e quindi, in via assoluta, impensabile, finché non si risolva nel processo da cui risulta. Pensare il mondo nel suo processo, come quel principio che in esso si svolge ed attua, è pensarlo trascendentalmente. Sta dicendo che un qualche cosa ci appare come un risultato, e prendiamo quello, tralasciando il processo che ha consentito di giungere a quel risultato. Ma quel risultato “è” quel processo, non esiste senza il processo, e se io tolgo il risultato dal processo compio un’operazione che Hegel direbbe religiosa, cioè, separo i due elementi pensando così di potere dominare sia l’uno che l’altro. C’è una nota che ci interessa. Potrà ancora non essere affatto superfluo avvertire, che questa attuazione non è qui intesa in senso puramente gnoseologico, ma anche metafisico; e che però il trascendentale, di cui qui si parla, non è la kantiana condizione dell’esperienza, ma la condizione piuttosto del mondo dell’esperienza. E avvertire altresì, ciò che spero sarà chiaro dal seguente capitolo, che il mondo dell’esperienza dal punto di vista del logo concreto, che è il punto di vista assoluto, è bensì il mondo che si svela a se stesso nell’esperienza, ma non, come volgarmente si crede, un mondo che si sveli a un soggetto a lui opposto. Sta qui la questione. Non è un mondo che mi si oppone, perché io “sono” il mondo. Questa è anche la tesi di Heidegger: io sono il mondo, tutto ciò che mi circonda sono io. Ogni pensiero nella sua determinatezza è il pensiero in cui si pone l’Io, e che attua perciò l’attività autosintetica di questo. Io, essendo Io in quanto non-Io sono perciò sostanza e accidente, e pianta e sasso e tutto il resto, via via che determino, come lo determino, il mio pensare. Qui c’è un riferimento a Aristotele: sostanza e accidente. La sostanza è ciò che permane, l’accidente è ciò che varia. Per Gentile no, sostanza e accidente sono, potremmo dire, le due facce della stessa cosa: non c’è sostanza senza accidente. Come dire ancora che non c’è materia senza forma o forma senza materia, non le posso separare. È questo il punto su cui insiste Gentile: se tolgo la materia tolgo anche la forma, e viceversa. Quanto più differente il pensiero, nella sua immediatezza, dall’Io, tanto più in concreto, come mediazione del pensiero pensante, esso realizza della potenza autosintetica dell’Io, e perciò tanto più è adeguato all’essenza dell’Io: tanto più è identico con l’Io. Quanto più il pensiero appare distante dall’Io tanto più sono sempre io. La ragione dell’una o dell’altra determinazione del pensiero pensante in questo o quel pensiero non è da ricercare fuori della determinatezza dello stesso pensiero pensante. Questo è quello che ci dice continuamente Gentile: qualunque cosa io la trovo nel pensiero pensante, non la trovo fuori, non c’è niente fuori. Perché la sostanza è la categoria di Spinoza e la monade quella di Leibniz? Perché l’idea quella di Platone e la forma a priori quella di Kant? Mentre invece il denaro è la categoria dell’avaro e la donna trastullo di don Giovanni? Ognuno ha quasi la sua moneta, in cui scambia ogni forma di realtà; e quando Hegel si argomentò di raccogliere tutte le categorie in un sistema onde si potesse finalmente pensare unitariamente il mondo da tutti gli aspetti, per cui era apparso già tanti mondi diversi, e si volse ai filosofi e domandò ad essi con quali categorie essi avevano pensato si potesse appercepire il reale, si lasciò sfuggire che oltre il filosofo c’è quell’eterno insipiens; contro cui il filosofo continuerà sempre a polemizzare, e che ha anch’egli le sue categorie. Anche lo sciocco ha le sue categorie, ognuno ha le sue. Perché tante categorie? Perché ogni volta quella? Perché ognuna risolve un problema; e i problemi sono tanti pel fatto che risolverne uno è farne nascere un altro, e il pensiero ha perciò sempre un problema, e sempre quindi una nuova soluzione. Sempre quell’Io, che non è mai lui: e quindi sempre problema aperto,… Perché io sto pensando, quindi sono io che penso, ma questo io che penso è già un altro mentre lo penso. …sempre una soluzione, che non è mai la soluzione definitiva.

Intervento: …

Sì, certo, se il problema lo si pone fuori accade questo, ovviamente; sennò, e questo lo aveva già detto, non c’è nessun problema, se mi pongo come Io, tenendo conto che Io e non-io sono lo stesso. Non c’è problema, perché i problemi sorgono nel momento in cui si instaura il discorso religioso, cioè nel momento in cui separo le due cose, per cui ciascuna deve rendere conto di sé ma come può rendere conto di sé a questo punto se non rendendo conto anche del suo contrario? Questa era la questione che poneva Hegel, mostrando che l’uno e l’altro sono lo stesso, ed è a questo punto che il problema scompare. Il problema consiste nel tenere separate le due cose. Essere e non-essere, per dirla all’antica: l’essere come si giustifica? Si giustifica con il non essere, naturalmente. Ma se li tengo separati ciascuno dei due è individuo, deve sostenersi da sé, ma non può farlo perché ciascuno dei due si sostiene sull’altro. È questo il genio di Hegel, poi ripreso anche da Gentile. Gentile aggiunge che entrambi si supportano ed esistono in quanto vicendevoli, ma nell’atto, non si possono porre fuori dell’atto o immaginare che possano esistere fuori dell’atto. Questo è il passo che compie Gentile rispetto a Hegel, ed è anche la base della critica che Gentile pone a Hegel, e cioè di avere pensato il concreto come un pensato e non come un pensante: sta qui la differenza fondamentale. Quindi, avendolo pensato come un pensato, Hegel ha posto il concreto come un astratto, cosa che Hegel non poteva non fare non giungendo a cogliere il pensante. Paragrafo 10. I momenti della categoria. Adoperando la terminologia della logica hegeliana, si può dire, che l’autosintesi distingua essa stessa nel suo processo tre momenti. Nel distinguere i quali non si corre perciò rischio di tornare a sovrapporre la logica dell’astratto al logo concreto, e tornare a soffocare l’anelito della sintesi a priori onde il pensiero, nella sua concretezza, tende a liberarsi dal peso di una realtà obbiettiva opposta a lui e indebellabile. La categoria (l’atto del pensiero, l’unico atto che ci sia) è una sola: ma essa, poiché non è un concetto come la categoria-predicato, e non è perciò immediata, è sintesi di sé come Io che si pone e di sé come Io che è posto (e quindi non-Io): sintesi di tesi e di antitesi. Paragrafo 11. Dialettizzamento. Il passaggio dal logo astratto al concreto, per cui si pensa mediante la categoria-autosintesi, è il dialettizzamento del concetto, in cui confluisce ogni pensiero pensato. Il concetto non dialettizzato non e intelligibile, perché affatto estraneo a quel logo dell’autosintesi, dov’è la concretezza attuale del pensiero. Qualunque cosa, se è pensabile, è tale perché dialettizzata, cioè perché posta in una dialettica, perché è un significante che ha un significato. Concetti pertanto assolutamente non dialettizzati non esistono, e soltanto li immagina miticamente quella filosofia, che, chiusa in una intuizione realistica del mondo, si culla ingenuamente nel supposto di poter concepire realisticamente perfino il pensiero. … Il dialettizzamento è la spiritualizzazione della realtà,… Cosa intende con spiritualizzazione della realtà? Accorgersi che la realtà è pensiero. …che cessa di essere semplice essere e diventa spirito; cessa di essere altro opposto al soggetto, e partecipa alla vita del soggetto; cessa di essere mistero e diventa pensiero; lascia il suo aspetto di nemico o anche solo di estraneo e prende la faccia di amico, di prossimo, di anima che è la stessa anima nostra. Un altro modo per dire che qualunque cosa io penso sono sempre io che sto pensando il mio pensiero. La natura non è più il concetto della natura, ma la natura stessa del nostro concetto in atto, vita del nostro spirito. Dio scende dal cielo e spira nel nostro cuore. I libri che ci siamo recati in mano si trasfigurano in un mondo luminoso pervaso, animato e sostanziato del nostro sentimento, delle nostre idee, del nostro Io. La moltitudine che ci opprime si eleva, si idealizza, si compenetra con la nostra persona, legge complessa e pur libera del nostro volere: noi stessi, che non siamo più circondati, stretti, oppressi, ma soli nella divina solitudine dello spirito infinito. La mole sterminata del mondo si muove sui suoi cardini e diventa tutta movimento; il quale non è opposto a quello onde noi stessi passiamo da noi a noi medesimi, sempre quelli e sempre diversi. Questo dialettizzamento è veramente amor Dei intellectualis, poiché per esso s’intende amando, attraendo a sé e immedesimando con sé quanto più violentemente dapprima repugni; e chi ama è colui che solo può amare, solo potendo intendere nella sua infinità,… Qui amare è da intendere nel senso di integrare, nell’accezione dell’Aufhebung. …che è la sua divina libertà; e chi è amato non è altri che lui stesso che ama: poiché tutto il suo amore, che è intendere, è relazione di sé con se stesso attraverso l’altro. Questione che anche Freud ha ripreso, indubbiamente; però, qui è detta in modo molto preciso: chi è amato non è altri che lui stesso che ama, poiché tutto il suo amore è relazione di sé con se stesso attraverso l’altro. È un altro modo ancora per dire che tutto ciò che vedo sono sempre io che penso: io che mi penso vedere. L’altro è primariamente il non-Io, attraverso il quale posso determinarmi come io. Questa è la base da cui poi si costruisce tutta quella cosa che chiamiamo realtà, il mondo esterno. Così la natura come natura non sarà mai spiritualizzabile: ma la natura come natura è natura astrattamente concepita. In concreto essa è lo spirito stesso;… Posso pensare la natura come natura soltanto astrattamente, ma se la penso nel concreto allora, come dice qui in modo molto bello, in concreto essa è lo spirito stesso. Cosa vuol dire pensare concretamente? Significa pensare che ciò che sto pensando non è altro, come sempre, io che sto pensando. …e il dialettizzamento perciò come concreta e attuale operazione che chi vuol pensare la verità deve compiere, il dialettizzamento che è un’esigenza della ragione, non è un tornare al punto d’origine da cui si sia partiti, poiché quel punto è veramente tale che non è dato allontanarsene, ma un passare da un grado all’altro del dialettismo inesauribile dello spirito che è posto e non è mai posto: e quindi torna sempre a dialettizzarsi: a negare se stesso come un certo dialettismo per realizzarsi come dialettismo. In questo processo dialettico che lui stesso aveva raffigurato come una sorta di spirale, dove non si torna mai indietro, perché quel punto di partenza in realtà, come dicevamo qualche tempo fa, non è mai esistito. Come posso dimostrare che sia esistito? In che modo, se ogni volta che lo penso lo sto pensando adesso? Se il dialettismo fosse una sintesi statica, non vi sarebbe luogo a dialettizzamento. Il quale sembrerà un ritorno appena il logo astratto, anziché vedersi nella concretezza dell’autosintesi, si fissi nell’astrattezza del concetto: e sarà essere identico a sé, esistente come tale: un essere che, sì, prescindendo dal nesso del logo astratto col concreto, sarà certamente agli antipodi dell’Io e del suo dialettismo. Al quale, per altro, non s’immaginerebbe mai in che modo si possa ritornare, se il logo astratto si mantiene nella sua astrattezza, che è come dire, nella sua ripugnanza al dialettismo. Se io tolgo di mezzo il dialettismo, mi ritrovo, come abbiamo detto tante volte, a fare i conti con il discorso religioso; e, quindi, c’è da una parte l’immanente e dall’altra il trascendente. È il discorso che facevo prima per cui ciascuno dei due dovrebbe in teoria sostenersi da sé; ma per sostenersi da sé deve andare all’opposto: per dire che io sono io occorre il non-io, rispetto al quale io posso dirmi io; da questo non c’è possibilità di uscita, direbbe Gentile. Capitolo VIII, L’autoconcetto. Paragrafo 1. Concetto e autoconcetto. Il concetto concreto, unità di logo astratto e logo concreto, è autoconcetto, prodotto dell’autosintesi. E nell’autoconcetto si converte ogni concetto in quanto attualmente pensato, sottratto perciò a quella sua condizione limite, a cui la logica dell’astratto guarda ma non perviene, e dialettizzato nell’atto del pensiero. Sicché la mente, orientata per sua natura verso l’astratto, crede di pensare per concetti, e pensa invece sempre per autoconcetto. Perché se non c’è l’autoconcetto non pensa. L’autoconcetto, come ha detto prima, è il prodotto dell’autosintesi, autosintesi, possiamo tornare a dire, tra essere e non-essere, tra immanente e trascendente, tra Io e non-Io. Concetto è il pensamento della verità oggettivamente considerata come indipendente dall’atto del pensarla. Potremmo dire: considerata indipendente dall’atto di parola. E nella logica dell’astratto, se un pensiero si attribuisce alla stessa verità oggettiva, affinché essa riesca pensabile e capace perciò di conferire un valore logico al pensiero che la pensi, questo pensiero stesso si costituisce come obbiettivo e proprio della cosa pensata, in quanto pensabile: ed è pertanto esso stesso un pensiero antecedente al pensiero che pensi la verità, e da questo pensiero perciò indipendente. Qui sta riponendo una cosa che aveva già posta rispetto al sillogismo. Se io pongo una verità oggettiva, la pongo come una verità pre-data, precostituita, che c’è già, quindi, indipendente da me che la penso, indipendente dal linguaggio. Naturalmente, si tratterebbe a questo punto di sostenerne tale indipendenza. Autoconcetto invece è il pensamento della verità che si costituisce nell’atto stesso del pensiero che pensa. Quindi, l’autoconcetto non è altro che il concetto che pensa se stesso, si accorge che lui stesso è pensiero. Anche qui c’è un pensiero intrinseco alla verità, e la verità che perciò pensa se stessa. Ma laddove nel concetto, oltre a quello, rimane un altro pensiero, al quale convien passare, e che è poi il solo pensiero che il filosofo, ossia l’uomo che pensa e si propone la domanda: quid est veritas? effettivamente conosca;… L’uomo si pone la domanda: che cos’è la verità? O poniamo il concetto o poniamo l’autoconcetto. Se poniamo il concetto allora il pensiero che non sa di essere pensiero di sé e cerca il suo fondamento altrove, in una verità obiettiva; l’autoconcetto no, la verità ce l’ha lì mentre pensa, perché l’unica verità è che sto pensando questa cosa. …nell’autoconcetto il pensiero è uno solo: che è quello della verità, ma è in una quello stesso del filosofo, dell’uomo. Dell’uomo che ha ritrovato se stesso, e si è avveduto che egli non è alla periferia della verità, destinato a girarle sempre intorno senza attingerla mai,… Questa era la questione che poneva già Hegel nella Prefazione alla Fenomenologia dello spirito, cioè, o la verità c’è già, e allora devo accorgermi che sono già nella verità, oppure devo cercarla, ma non la troverò mai perché se la pongo come qualcosa che è fuori, devo raggiungerla; quindi, intanto non sono nella verità perché ancora non l’ho raggiunta, e poi, in che modo compirò questi passi che mi portano alla verità? È il famoso discorso di Aristotele circa il terzo uomo: ci sono io e l’uomo che vedo, ma l’uomo che vedo ha bisogno di una rappresentazione che stia a metà, e così via. E con questa desolante concezione dell’uomo, condannato, appena si svegli il dubbio, a precipitare nello scetticismo e a sentirsi sequestrato da quel mondo, in cui è la verità ossia il nutrimento indispensabile alla sua vita di essere pensante, l’umanità ha durato millennii a risolvere il mondo in concetti, e a irrigidirlo così in una realtà affatto trascendente tutto l’essere in cui è la sua vita e il suo travaglio: trascendente la sua natura di essere che pensa, e non può non pensare anche se per disperazione si risolvesse di sopprimere in sé il pensiero: poiché questa soppressione sarebbe sempre pensare. È la critica che aveva già fatto allo scetticismo. Lo scetticismo va bene a condizione che non cominci a pensare a se stesso, perché si troverebbe di fronte a problemi insolubili; ma finché non pensa a se stesso è perfetto, non c’è problema. Nota 1. L’antica osservazione che l’errore di ritenere il diametro del sole non più lungo d’un braccio, non consiste nella sensazione ma nel giudizio (non in quel giudizio che è la sensazione stessa, ma nel giudizio che si fa sopra quel giudizio), perché se invece di dire che il sole è largo un braccio, si dicesse che si vede largo un braccio, non si commetterebbe nessun errore, è un oscuro presentimento del valore logico d’ogni giudizio, compreso quello immediato del senso, come giudizio autonoetico. Questo oscuro presentimento del valore logico d’ogni giudizio è l’oscuro presentimento che qualunque valore logico io dia alle cose è un mio pensiero, e cioè non è l’attribuzione di una verità a un qualche cosa che è fuori dal mio pensiero. È questo che sta dicendo Gentile e che in qualche modo si è sempre avvertito. Ma quando dall’astratto si passi al concreto e il gnoseologo della scienza non guardi da lungi e dall’esterno il concetto o la legge scientifica (che, come sappiamo, non è la miglior condizione per intendere questo pensare scientifico), ma vi s’accosti, e se l’appropri, può darsi che il preteso generale, che non è né particolare, né universale, gli diventi infatti quello che il pensiero è sempre attualmente: né particolare, né universale, ma l’unità dei due, l’individuale: quella individualità, a cui il concetto propriamente si riferisce, anzi che esprime e realizza se esso non si prende nell’astrattezza del pensiero pensato, ma nel concreto del pensiero pensante, dove ogni pensiero è pensiero… Paragrafo 3. La negatività dell’autoconcetto. Così chi conosce non ha fatto, ma fa;… Sta dicendo che la conoscenza è sempre qualcosa in fieri, che non è mai compiuta, ma fa. …e quel che ha fatto, bisogna che lo disfaccia. Che se ne disfi immediatamente perché non è quella cosa lì che voleva. Senza di che il suo conoscere non sarebbe fare. E quel che fa propriamente non può essere il fatto del suo conoscere, se non fosse intanto il suo essere stesso, la sua soggettività. Perché se altro fosse l’oggetto e altro il soggetto del fare, qualche cosa pur ci sarebbe, almeno nel soggetto, qualche cosa che non sarebbe fare, ma fatto, e però non convertibile col vero. Anche qui sta dando un’indicazione: non considerare mai la propria conoscenza come un fatto. È una cosa abbastanza singolare, soprattutto rispetto al discorso scientifico: la conoscenza non è un fatto ma un fare, è ciò che sto facendo, ciò che sto dicendo, pensando. Paragrafo 4. Il vero mondo. La più massiccia difficoltà in cui urti questo concetto dell’autoconcetto, che è il nucleo di questa Logica, proviene dalla resistenza che oppone negli strati più profondi e più solidi del nostro pensiero disciplinato da una educazione più volte millenaria tutta fondata su una conforme filosofia ingenua del pensiero volgare, la concezione realistica del mondo. Questo è ciò di cui occorrerebbe sbarazzarsi: della concezione realistica del mondo. Se il mondo è quello dell’esperienza, come tutti vogliamo riconoscere, se questo mondo dell’esperienza è produzione dell’Io, ed espressione pertanto così dell’energia creatrice come della potenza conoscitiva – che nel pensiero sono tutt’uno – dello stesso Io, bisogna pure scrollare ogni idea, ogni fede, ogni modo di pensare che c’induca a cercare fuori dell’Io una qualche realtà, su cui esso possa puntare la propria attività metafisica o gnoseologica. Bisogna risolutamente, di buon grado, con virile coraggio e alacrità d’animo consapevole della grande responsabilità che l’uomo deve pure addossarsi, andare incontro a questa verità, nella quale tutte le altre poi son contenute, che il vero mondo siam noi: essere che è conoscere, conoscere che è essere: senza le vane paure che agghiacciano l’animo di ogni filosofo pigro, che ami starsene tranquillamente a godersi l’eredità degli avi, e non pensare! Paragrafo 5. Il sistema dell’autoconcetto. Ogni concetto è sistema, dicemmo a suo luogo: sistema infinito del pensiero attualmente pensato. Quindi, ogni concetto è inevitabilmente anche autoconcetto. Il sistema è totalità; e il pensiero non è mai frammentario, perché il frammento ha la sua condizione nel tutto, che lo trascende. E il pensiero né ha condizioni, che gli toglierebbero la libertà, e quindi la verità; né infatti può essere trasceso. Il linguaggio non posso trascenderlo, in nessun modo. Il pensiero non ha condizioni, né limiti presegnati. Esso e totalità e quindi sistema, ma come autoconcetto. Potremmo dire: come il linguaggio che sa di essere linguaggio. Ossia come sistema in fieri. Pensiamo sempre il tutto, e non lo pensiamo mai. Pensiamo sempre il tutto perché siamo nel tutto per potere pensare, ma non lo possiamo mai pensare perché, pensandolo, lo porremmo come un astratto, quindi, come qualcosa che è già fuori del concreto, come un frammento del concreto, potremmo dire. Perché questo tutto siam noi che ci pensiamo;… Il linguaggio non è altro che noi che stiamo parlando. Da qui la critica anche alla linguistica, che riprende anche dopo. La linguistica, invece, immagina un linguaggio non parlato, un linguaggio astratto, bloccato e chiuso in se stesso, che può essere quindi esaminato, ecc.; il che va anche bene, ma di sicuro non è il linguaggio. Dice bene qui Gentile: questo tutto siamo noi che ci pensiamo. …e pensandoci siam tutto: ma il nostro pensarci non si coniuga mai in tempo passato. Cioè, come pensato. Non è un processo che possa mai precipitare in un risultato. E se un maestro di un concetto è concepibile, se una scuola filosofica è possibile (anzi necessaria!), quello non è un maestro che sia un individuo particolare, che ha pensato già, ha scritto la sua parola ed è morto; egli è il maestro che è Io, l’unico Io immortale che non ha mai detto, ma dice la sua parola. Questa la scuola eterna, la cui eredità non è un concetto, né un sistema di concetti, ma l’autoconcetto con la sua inquieta, indefettibile negatività: la scuola del vero, ma del vero che si converte col fatto, e che nessuno scolaro troverà mai se non nel profondo di sé, là dove egli è quel medesimo Io che il maestro, che gli parla e lo invita a collaborare con lui all’opera comune. Qui ha riassunto la sua idea di pedagogia. È la posizione ideale, quella del maestro che “costringe” a pensare; perché la parola del maestro è parola che si sta facendo, anche quella è in fieri, non è mai una parola detta, ma è una parola che si sta dicendo. Il discente dovrebbe cogliere questo, che quella parola è una parola che si sta dicendo, e solo dicendosi dice la verità, cioè dice che è una parola che si sta dicendo.

Intervento: …

Sì, è vero, anche se Gentile aveva un altro proponimento, lui non considera mai la volontà di potenza, se non molto marginalmente. C’era in lui l’idea che qualcuno possa accedere a questa verità, l’unica verità di cui sia possibile concretamente parlare è che sto pensando, cioè, che sto parlando. Ora, è ovvio che porre una tale verità è tutt’altro che semplice, ma in teoria sarebbe la condizione per andare oltre la volontà di potenza. Andare oltre, non nel senso di uscirne, perché non c’è uscita dalla volontà di potenza, ma piuttosto di non avere la necessità di rappresentarla – questo è possibile – sapendo che si sta mettendo in atto. Solo se so che la sto ponendo in atto, allora non ho bisogno di rappresentarla, di inscenarla, di metterla letteralmente in scena, di farne una rappresentazione teatrale. Parte quarta, La filosofia. Sarebbe entro certi limiti il corrispettivo della parte di Hegel sullo spirito assoluto, cioè la sintesi di pensiero pensante e pensiero pensato, di astratto e concreto. Capitolo I, Il mito dell’apodissi. L’apodissi è la dimostrazione. Compare già nella logica aristotelica. L’apodissi è tutto ciò che viene dedotto da una certa verità, per cui tutto ciò che si trae da una verità certa sarà altrettanto vero. Tant’è che spesso si è poi inteso con ragionamento apodittico come un ragionamento immediatamente evidente, perché non ha bisogno di essere dimostrato. Il che non è nell’origine dell’apodissi, che anzi è il risultato di una dimostrazione; però, se si considera che questa dimostrazione muova da una verità data, assoluta e assodata, allora ciò che ne segue sarà immediatamente evidente. Adesso Gentile ci dice che cosa intende con mito, che è interessante. Paragrafo 1. Il mito. Perché si abbia mito non occorre avere personificazione, come si dice, di idee astratte. Anzi, se per persona s’intende la persona vera e propria, realtà autrice di se stessa, volontà autocosciente, – quindi puro Io, – che dialetticamente attua se stessa e in se stessa il suo mondo, ogni idea che non sia miticamente concepita, dev’essere personificata. Ogni idea infatti è vera soltanto se dialettilizzata nella concretezza dell’Io. Qui ci sta dicendo una cosa importante. Si immagina che il mito sia la personificazione di un’idea: io ho un’idea della potenza e la personifico in Dio. Ma ci dice Gentile che invece occorre andarci cauti: La personificazione delle idee è mito, se la persona è intesa alla sua volta miticamente, come quella persona che vediamo innanzi a noi, persona tra persone e tra cose, e perciò, in certo modo, essa stessa cosa, o corpo, animato bensì, ma riflettente la propria particolarità, che è determinatezza spaziale e temporale, sull’anima che lo investe, e proiettante la propria corporeità sull’anima, anche quando esso venga meno e non ci sia. Come quando l’uomo volgare si sforza di rappresentarsi incorporea la divinità, e le nega bensì e mani e piedi, ma la oppone a sé abitatore della terra nei recessi dei cieli irraggiungibili, e la vuole bensì eterna, ma pur la colloca al principio dei tempi antiveggente il futuro in cui l’uomo viene intessendo la tenue trama della sua labile esistenza. La personificazione delle idee è perciò mito quando la persona, in cui si raffigura l’idea, è concepita non come persona, ma come cosa. Quindi, il mito per Gentile non è la personificazione dell’idea, perché l’idea appartiene sempre alla persona, l’idea è la persona stessa; ma se invece questa persona non è concepita come pensiero che pensa, quindi come pensiero pensante, e pongo questa persona come cosa, allora diventa mito. Quindi, il mito è immaginare la realtà: la realtà, così come viene pensata generalmente, è il mito. Ciò che non è mito, invece, è la idealizzazione, cioè il porre tutte queste cose in quanto pensiero.