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27-1-2016

 

Derrida, Della grammatologia, pag. 278: (Rousseau) sposta e deforma in un certo modo il segno supplemento cioè l’unità tra il significante e significato così come si articola tra i nomi e fa giocare i significati nel registro del più o del meno, vediamo come, ma questi spostamenti, queste deformazioni sono regolate dall’unità contraddittoria o essa stessa supplementare di un desiderio, come nel sogno così come Freud analizza, gli incompatibili sono simultaneamente ammessi quando si tratta di soddisfare un desiderio a dispetto del principio di identità o del terzo escluso cioè del tempo logico della coscienza (il che non è propriamente se ci pensate bene, perché il principio di non contraddizione o principio primo non scompare nel sogno, non può scomparire, se il sogno deve costruire un qualche cosa, per quanto squinternato e sregolato sia, comunque deve essere qualcosa che è riconoscibile come avente un senso, che magari non si trova, non si intende subito però è qualche cosa che comunque mostra degli elementi che per funzionare nel sogno devono essere quelli che sono, cioè se io sogno una certa cosa x, x è quella cosa e non la sua contraria. Il sogno si avvale di elementi che intervengono: immagini, suoni eccetera che lungo il sogno hanno una certa funzione proprio perché sono quello che sono e non altro, se fossero altro avrebbero un’altra funzione e sarebbe un altro sogno, se è quel sogno con quegli elementi vuole dire che sono quelli che sono, quindi dire che nel sogno non funziona il principio di non contraddizione non è proprio così esatto. Evidentemente Derrida parla del principio di non contraddizione nell’accezione comune del termine e cioè di una palese contraddizione in termini di qualche cosa, mentre se si pone il principio primo così come lo pone Severino allora effettivamente non può togliersi perché se si toglie è un altro sogno, quindi posto il principio primo strutturalmente e non come accidente)

Intervento: il sogno è qualche cosa che rappresenta qualche cos’altro perché la questione del principio di identità funziona comunque perché quella cosa lì è quella lì, in quanto rappresenta qualche cos’altro, forse perché Freud diceva che nel sogno coabitano tranquillamente gli opposti.

È questo che ha ingannato molti sovrapponendo il principio di non contraddizione con l’ossimoro, che sono due cose diverse. Scambiando il principio di non contraddizione con l’ossimoro allora siccome l’ossimoro è una figura retorica non logica c’è l’idea che i contrari possano coesistere, per esempio “ghiaccio bollente” è un ossimoro cioè i due termini sono antonimi, cioè contrari, ma è appunto una figura retorica la quale per funzionare necessita del principio primo comunque, cioè se io dico “ghiaccio bollente” occorre che il “ghiaccio” sia ghiaccio e non una macchina da scrivere, per esempio) Servendosi di una parola diversa da sogno e inaugurando una concettualità che non sia più quella della metafisica della presenza o della coscienza bisognerebbe dunque definire uno spazio in cui questa contraddizione “regolata” sia stata possibile o possa essere descritta (qui forse si accorge che c’è qualche questione connessa con questa contraddizione) Se la supplementarietà è un processo necessariamente indefinito (perché questa supplementarietà non termina, se terminasse allora il significante avrebbe davvero il suo significato preciso, ma siccome c’è un differimento continuo questo non si verifica) pag. 318: dato questo allora la scrittura è il supplemento per eccellenza poiché segna il punto in cui il supplemento si da come supplemento di supplemento, segno di segno (cioè il segno non è il segno di qualcosa ma, come abbiamo visto in varie occasioni, è segno di un segno, da qui la semiosi infinita, se fosse segno di qualcosa si chiuderebbe lì la questione “questo significa questo” cioè questo significante ha questo significato, ma non è così dice Derrida) facendo le veci di una parola già significante, essa sposta il luogo proprio della frase l’unica volta in cui la frase viene pronunciata hic et nunc da un soggetto insostituibile e in cambio debilita la voce essa segna il luogo del raddoppiamento iniziale (tutto questo comporta che il luogo ideale in cui pronuncio la frase qui e adesso, questo luogo di fatto non è reperibile, non c’è origine, non c’è l’origine cioè non è possibile situare quel punto in cui la parola è iniziata e ha voluto dire questa cosa, questa origine non si ritrova perché per dire quello che ho voluto dire originariamente continuo ad aggiungere altre cose all’infinito, per questo dice che il segno è segno di un segno e non di qualche cosa, anche l’origine è già segno di un altro segno che sembrerebbe strano perché se è l’origine come fa essere segno di un segno? Ma è perché questa origine è già inserita all’interno di un sistema linguistico, qualunque origine io voglia immaginare o pensare comunque nel momento in cui la immagino, la penso, la definisco, la determino è già all’interno di un sistema di segni quindi è già segno di un segno comunque)

Intervento: ma poi parla dell’archi-traccia come originaria …

Questo è un altro discorso, l’originarietà dell’archi traccia dice che l’archi-traccia è la condizione del segno in quanto il segno essendo definito dal significante e significato e la barra non potrebbe darsi se non ci fosse la barra, se non ci fosse cioè la differenza tra significante e significato non ci sarebbe segno perché il significante a questo punto non sarebbe più segno di niente, perché ci sia segno, perché una cosa rinvii a un'altra occorre questa differenza ed è questo che induce Derrida a dire che la differenza è originaria, cioè l’ “archè”, il principio, la causa di tutto) pag. 320: E quindi come per esempio in Malebranche il concetto stesso di esperienza a rimanere dipendente dall’idea di peccato originale /…/ La nozione di esperienza proprio mentre la si dovrebbe usare per distruggere la metafisica e la speculazione (in che modo l’esperienza potrebbe distruggere la metafisica? Perché l’esperienza è pragmatica, non mediata dal segno, l’immediatamente evidente, la semplice presenza non mediata quindi fuori dal segno, quindi fuori dal linguaggio) (l’esperienza) continua ad essere in questo o quel punto del suo funzionamento fondamentalmente inscritta nell’ontoteologia (cioè l’esperienza anche se la si pensa come il coglimento del semplice presente non sfugge all’ontoteologia, a un discorso sull’essere che però rinvia a un dio cioè rinvia al significato ultimo, al significato quello decisivo, perché l’idea è sempre questa dice: l’esperienza dovrebbe allontanarsi dalla metafisica ma non ci riesce perché l’esperienza dice Derrida continua a essere all’interno di un sistema teologico, teologico qui dove c’è un dio che garantisce, che garantisce dell’esperienza perché se no l’esperienza potrebbe essere esperienza di niente, deve essere garantita da qualche cosa, l’ultimo elemento di garanzia finale è dio oppure il significato ultimo) l’esperienza è sempre in rapporto ad una pienezza sia essa la semplicità sensibile o la presenza infinita di dio. Perfino in Hegel e in Husserl si potrebbe far apparire per questa stessa ragione la complicità tra un certo sensismo e una certa teologia, l’idea ontoteologica di sensibilità o di esperienza, l’opposizione tra la passività e l’attività costituiscono la profonda omogeneità nascosta sotto la diversità dei sistemi metafisici (l’idea dell’esperienza nel senso della percezione immediata della cosa “immediata” cioè non mediata dal segno, comporta un’opposizione tra la passività come ricezione pura e semplice del dato di fatto e l’attività del processo) l’assenza e il segno vengono sempre a farvi un’incisione apparente (l’assenza di quello che l’esperienza vorrebbe invece presente, che all’interno del segno si manifesta assente, che si manifesta assente perché nel momento in cui qualche cosa si dà rinvia immediatamente a un’altra cosa, in questo senso, mentre si offre, mentre si manifesta si sottrae, si sottrae indicando un altro elemento cioè differendo, spostandosi su un altro elemento) Sono pensati come gli accidenti e non come la presenza desiderata (il fatto che questa presenza sia differita, spostata continuamente viene posto dalla metafisica dell’esperienza, diciamola così, come un accidente, qualcosa che può capitare, un malaugurato incidente che non dovrebbe succedere, perché dice “il segno è sempre il segno della caduta, l’assenza ha sempre rapporto con la lontananza di dio” per cui l’assenza è sempre stata condannata come il segno della caduta di qualche cosa, della perdita di qualche cosa, in definitiva come una maledizione, un accidente nefasto che è il modo in cui è stata pensata spessissimo la scrittura, la scrittura che inganna la parola parlata, perché la sposta, perché la fa diventare qualche cosa di fisso, di immobile che non ha più a che fare con la parola viva. Dunque il segno produce un’assenza all’interno della presenza, una parola è presente mentre la dico, ma mentre la dico questa parola differisce, nel senso che si sposta su un’altra parola immediatamente, il significante si sposta verso il significato inesorabilmente e questo differimento è appunto, dicevamo l’altra volta, la morte oppure il segno della caduta, cioè comunque sempre qualcosa di negativo mentre per Derrida è strutturale una cosa del genere, però sta dicendo che la metafisica della presenza o dell’esperienza ha sempre considerato il segno come un problema, come un ostacolo, come un qualche cosa che impedisce a ciò che è immediatamente presente di apparirmi per quello che è, questa è la sua bellezza) Pag. 332: Il movimento della rappresentazione supplementare si avvicina all’origine allontanandosene (la rappresentazione supplementare è questa rappresentazione che non rappresenta la cosa, cioè non la mostra per quella che è ma la ri-presenta, ripresentandola la ripresenta attraverso un differimento, attraverso un medium, il segno per esempio, quindi cercando l’origine o volendo mantenere quella che si suppone essere l’origine della parola viva, quella che si sta dicendo in questo instante hic et nunc, cercando questo, più la cerco e più mi allontano perché nel cercarla dico altre parole, faccio altri giri e raggiri e più cerco di individuarla più aggiungo altre parole, quindi più voglio avvicinarmi all’origine e più me ne allontano. Se io dicessi a Simona “definiscimi una certa parola” lei la definisce però io potrei essere insoddisfatto della sua definizione allora dico a Simona “definiscila meglio” e questo definiscila meglio è indefinito perché posso sempre, qualunque cosa dica, posso sempre chiedere di definire meglio questa cosa e andiamo avanti all’infinito, questo movimento che dovrebbe arrivare all’origine invece non solo non ci arriva ma allontana sempre di più, differisce sempre di più) L’alienazione totale è la riappropriazione totale della presenza a sé, nell’idea di riappropriarsi della presenza totale a sé beh lì c’è l’alienazione totale. La scrittura alfabetica rappresentando un rappresentante (perché rappresenta la parola parlata che è già un rappresentante di qualche altra cosa) supplemento di supplemento aggrava la potenza della rappresentazione (cioè anziché azzerarla per arrivare alla cosa l’aumenta, l’implementa continuamente, è l’esempio che facevo prima “definisci meglio” “definisci meglio” “definisci meglio”) perdendo un po’ di più la presenza la restituisce un po’ meglio /…/ più puramente fonografica della scrittura del secondo stato essa è più adatta a cancellarsi davanti alla voce a lasciarla essere nell’ordine politico l’alienazione totale quella che, come dice il “Contract Social”, si opera senza riserva fa guadagnare l’equivalenza di ciò che si perde e più forza per conservare ciò che si ha /…/ Tutta la storia della metafisica vive nell’ingenuità della rappresentazione, (la metafisica è una ingenuità della rappresentazione nel senso che ingenuamente pensa che la rappresentazione riesca, sia possibile senza differimento) non ci si chiede cosa ne è della presenza e della rappresentazione nella presenza (dice che la metafisica non si fa questa domanda) criticando la rappresentazione come perdita della presenza (perché se io mi rappresento una cosa, la cosa non c’è perché la rappresento, quindi si ha a che fare con la rappresentazione non più con la cosa) aspettandosi da essa una riappropriazione della presenza facendone un accidente, un mezzo ci si pone nell’evidenza della distinzione tra presentazione e rappresentazione nell’effetto di questa scissione (continua a dire che in questo tentativo o questa idea che la rappresentazione ri-presenti la cosa stessa ecco, questo è il tentativo fallito della metafisica cioè l’idea che sia possibile arrivare alla cosa stessa nella sua presentazione immediata senza rappresentazione, ma, dice, tentando questa operazione ci si trova propriamente in questa scissione cioè tra rappresentazione e presentazione) si critica il segno ponendosi nell’evidenza nell’effetto della differenza tra significato e significante cioè senza pensare al movimento produttore dell’effetto di differenza cioè lo strano grafico della dif-ferenza (sarebbe la differance, cioè senza tenere conto che è proprio questo movimento, questa differenza che è ciò che produce il segno, l’idea metafisica è quella di bloccare il segno cioè di renderlo innocuo in modo che non ci sia più, come c’è nel segno, rappresentazione ma soltanto presentazione viva della cosa. Derrida dice: guardate che se non ci fosse questa scissura, questa differance tra significante e significato non ci sarebbe neppure il segno e quindi non ci sarebbe presenza, non solo, ma neanche presentazione di qualche cosa, nulla potrebbe presentarsi perché senza segno nulla può essere detto, nulla può apparire, soltanto il segno consente alla cose di potere dirsi, di potere pensarsi, di significare qualcosa per qualcuno. Questo pensiero, questa ingenuità che lui riferisce alla metafisica della presenza alla esperienza, è quello che la metafisica immagina come uno stato di natura, ciò che è fuori dal linguaggio si manifesta per quello che è non più mediato dal linguaggio, non più mediato dal segno, uno stato di natura ideale, l’età dell’oro in cui le cose erano quelle che sono) ma la catastrofe che ha interrotto lo stato di natura (la “catastrofe” sarebbe l’irruzione del linguaggio) apre il movimento dell’allontanamento che riavvicina (è il movimento di prima, movimento che allontana da questa cosa che non c’è mai stata, e cioè l’origine della parola, la parola prima, quella autentica, quella che si diceva da sé, si allontana irrimediabilmente da questa, anche perché non c’è mai stata, ma l’avvicina nel senso che consente di cominciare a riflettere per esempio sulla questione, incominciando a porsi la domanda più interessante, più potente intorno a che cosa veramente si rappresenta e si presenta, che cosa appare? Appare la cosa? No, appare una sua ripresentazione, la cosa, diceva, non c’è mai stata, questa prima parola inaugurale, questa che ha avviato tutto, non c’è mai stata) questo movimento è necessario, il telos (il fine) dell’immagine è la sua propria impercettibilità, quando essa cessa l’immagine perfetta di essere altro dalla cosa ne rispetta e restituisce la presenza originaria. Un ciclo indefinito la sorgente rappresentata della rappresentazione, l’origine dell’immagine può a sua volta rappresentare i suoi rappresentanti, sostituire i suoi sostituti, supplire i suoi supplementi, la presenza che ripiegata ritorna a se stessa rappresenta se stessa sovrana e non è perciò ancora che un supplemento del supplemento (il fine dell’immagine nella metafisica sarebbe il mostrare, il tornare a presentare la cosa così com’è, ma l’immagine non è la cosa ovviamente, allora ne rispetta e ne restituisce la presenza originaria, ma “presenza originaria” nel senso dell’assenza dell’origine, l’immagine restituisce questo, non restituisce la cosa perché la sorgente rappresentata, ciò che voglio rappresentare, l’origine dell’immagine che è la cosa rappresenta i suoi rappresentanti cioè rappresenta tutte le sue sostituzioni, è la cosa a questo punto che rappresenta l’immagine che rappresenta la cosa, in un movimento indefinito dice lui. Se l’origine è prodotta da questo movimento è chiaro che tornando all’origine torna qualche cosa che non è affatto l’origine ma semplicemente è un altro segno che rinvia a un altro segno e così via all’infinito) pag. 352 (Il supplemento d’origine, qui fa un riassunto concentrato delle cose dette prima) nelle ultime pagine del capitolo dell’“Ecriture” la critica, la presentazione valutativa della scrittura e della sua storia dichiara l’esteriorità assoluta della scrittura ma descrive l’interiorità al linguaggio del principio di scrittura (cioè la scrittura è posta come qualcosa di esteriore a me, ricordate la differenza tra la scrittura che è lì e la mia parola? la voce quindi l’autocoscienza per così dire, cioè io mi sento mentre parlo questa è la voce autentica) il male del fuori (della scrittura) che viene dal di fuori ma che anche attira al di fuori come si dice parimenti o inversamente “la nostalgia del paese” è al centro della parola viva come suo principio di cancellazione e suo rapporto alla propria morte (sta dicendo che questo male che viene dal di fuori anche attira ciò che è dentro e lo porta fuori, portandolo fuori cosa fa? lo uccide, lo aliena, in che senso?

Abbiamo prima la scrittura, che è esterna, e poi c’è la parola interiore, quella che sto dicendo adesso in questo momento per esempio, mentre dico mi sento parlare, e questa voce che risuona in me non è esterna, è dentro di me, ma dicendosi questa voce comporta la scrittura come archi scrittura, e cioè come quella differenza tra significante e significato che determina il segno, quindi sta dicendo che le cose che dico internamente escono fuori in quanto si rivolgono ad altre parole che fanno parte del discorso che sto facendo, quindi la scrittura, che è esterna, diventa interna per poi riuscire di nuovo. Questa traccia interviene comunque quando sto parlando e ciò che sto dicendo non è fuori dal linguaggio, che è fatto di segni, e questi segni rinviano ad altre cose continuamente e quindi c’è un andare fuori di nuovo, per questo dice che la scrittura che è esterna, entra all’interno del mio dire per farmi riuscire di nuovo, mi fa riuscire di nuovo in quanto parlando mi trovo preso in una differenza continua, per via del segno, che mi sposta sempre e non mi lascia lì dove sono io, dove vorrei essere, e cioè nella parola viva. Questa parola viva, parlata, non evita la scrittura, non evita una traccia, una traccia che si scrive mentre parlo in quanto ciò che io dico differisce da ciò che voglio dire) si tratta dunque di far pensare la potenza d’esteriorità come costitutiva dell’interiorità, della parola, del senso significato, del presente come tale nel senso in cui dicevamo immediatamente che il mortale raddoppiamento, sdoppiamento rappresentativo costituiva il presente vivente senza aggiungersi ad esso semplicemente o meglio lo costituiva paradossalmente aggiungendosi ad esso (sta dicendo dell’esteriorità come costitutiva dell’interiorità, ciò che è esteriore, il segno, la differance è costitutiva dell’interiorità, costituisce le cose che io penso di dire fra me e me e quindi “il mortale raddoppiamento-sdoppiamento” le parole si raddoppiano tra rappresentazione, presentazione, ripresentazione e in questo movimento continuo la parola si sdoppia, si sdoppia tra la parola che si dice e quella che si vuole dire, e il segno è doppio, significante/significato, non è mai singolo anche se il tentativo della metafisica è quello di bloccare il significante al significato in modo da evitare questo sdoppiamento. Dice che questo supplemento, questa differenza tra significante e significato anche se per Derrida non è esattamente la differenza tra significante e significato non solo si aggiunge al segno come qualche cosa in più ma lo costituisce, lo fa esistere in quanto tale) supplemento d’origine piuttosto (cioè si mette al posto di ciò che è pensato come l’origine) che supplisce all’origine che viene meno e che tuttavia non è derivato questo supplemento è come si dice un elemento di origine (supplisce l’origine nel senso che è ciò che compare quando cerco di ritrovare questa origine, l’età dell’oro in cui la parola dice la cosa immediatamente senza mediazione, questo supplemento è ciò che io trovo al posto dell’origine che vado cercando) ci si rende così conto di come l’alterità assoluta della scrittura può tuttavia rendere affetta dal di fuori nel suo dentro la parola viva alterarla (alterità della scrittura perché qualunque cosa per essere quella che è deve essere un’altra cosa, è già dentro la parola ed essendo dentro la parola viva, che vorrebbe essere quella parola che dice immediatamente la cosa, si altera, non è più la stessa, diventa un’altra parola) ora è proprio la strana essenza del supplemento quella di non avere essenzialità (sta dicendo che il supplemento cioè la differance non ha essenzialità, non è possibile determinarla, definirla) vedreste letteralmente non ha mai luogo, non è mai presente qui ora se lo fosse non sarebbe ciò che è un supplemento che tiene il luogo che tiene il posto dell’altro (questo supplemento non è una cosa, lo diceva già prima, non ha una sua essenza di cui si può dire che cos’è realmente e non è mai presente qui e adesso perché è sempre un supplemento di qualche altra cosa, è al posto di qualche cosa che non c’è: cerco l’origine e trovo questo supplemento, cioè queste parole in più, “non è mai presente qui ora se lo fosse non sarebbe ciò che è l’elemento che tiene il luogo e mantiene il posto dell’altro) meno che nulla ma dagli effetti molto più che nulla, il supplemento non è né una presenza né un’assenza nessuna ontologia può pensarne l’operazione” (sì qui si presenta il problema di cui si diceva forse tempo fa e cioè dell’impossibilità di fornire al supplemento cioè la differance fornire una determinazione, non è possibile fermarlo in quanto “in operazione” non è possibile dargli un essere perché significherebbe in qualche modo determinarlo, questo è il problema che incontrò anche Heidegger a proposito dell’ “Esserci”, l’ “Esserci” è qualche cosa che è sempre gettato in avanti quindi non posso identificarlo, non posso bloccarlo, se lo fermassi non sarebbe più l’essere ma un ente, un ente fra gli altri e non ci sarebbe quindi più nessuna differenza ontologica, non ci sarebbe quindi più nessuna possibilità di uscire dalla metafisica. Ma la cosa qui è più sottile perché infatti lui scivola verso questioni molto evanescenti, molto sfuggenti dice) Rousseau come fa Saussure vuole mantenere al tempo stesso l’esteriorità del sistema della scrittura e l’efficienza malefica di cui si notano i sintomi sul corpo della lingua (cioè vuole sbarazzarsi del segno) ma diciamo un’altra cosa di questo? sì nella misura in cui mostriamo l’interiorità dell’esteriorità che equivarrebbe ad annullare la qualificazione etica e pensare la scrittura al di là del bene e del male, sì soprattutto nella misura in cui designiamo l’impossibilità di formulare il movimento della supplementarietà nel logos classico, nell’opposizione della presenza e dell’assenza, del positivo e del negativo e anche in una dialettica se per lo meno la si determina come ha sempre fatto la metafisica spiritualista, materialista non importa nell’orizzonte della presenza della riappropriazione, ben inteso designazione di questa impossibilità sfugge solo di poco al linguaggio della metafisica, essa deve per il resto attingere le sue risorse nella logica che decostruisce e trovarvi così i suoi artigli. Non si può vedere il male nella sostituzione al momento in cui si sa che il sostituto viene sostituito a un sostituto. La scrittura sostituisce l’esattezza a un’espressione, l’espressione è l’espressione dell’affetto, della passione che è all’origine del linguaggio, di una parola che fu inizialmente sostituita a un canto distinto dal tono e dalla forza, il tono e la forza significano la voce presente, essi sono anteriori al concetto, sono singolari e sono d’altra parte legati alle vocali, all’allineamento vocale non consonantico della lingua, la forza d’espressione appartiene solo al suono vocalico nel momento in cui il soggetto è sì in persona a proferire la sua passione, quando il soggetto non è più presente la forza, l’intonazione, l’accento si perdono nel concetto allora si scrive, si supplisce (fate attenzione) si supplisce invano l’accento (quello originario) con gli accenti, ci si sottomette alla generalità della legge, scrivendo si è obbligati a prendere tutte le parole nell’accezione comune ma colui che parla, parla le accezioni con i toni li determina a suo piacimento avendo preoccupazione di essere chiaro, si basa di più sulla forza e non è possibile che una lingua che si scrive mantenga a lungo la vivacità di quella che è solo parlata (Derrida è costretto a questo punto a dare un motivo di questa traccia o meglio dell’originarietà di questa traccia, e dove lo trova questo motivo dell’originarietà della traccia? Dicendo che l’espressione è l’espressione dell’affetto, della passione che è all’origine del linguaggio. Ha dato un origine al linguaggio “la passione, le prime parole che sono quelle che gli umani ricercano senza ritrovare” ecco l’origine del linguaggio “il tono e la forza significano la voce presente, essi sono anteriori al concetto, sono singolari e sono d’altra parte legati alle vocali” sta dicendo che sono fuori dal linguaggio, sono fuori dal segno. Questo sarebbe il mito della nascita del linguaggio che nasce dalle passioni, il concetto sarebbe qualcosa di direzionale quindi legato alla scrittura, quindi legato a questo differimento. Diciamo che all’origine del linguaggio idealmente non c’è differenza, non c’è differenza perché non c’è ancora segno e cioè non c’è un supplemento all’origine, non c’è un supplemento che interviene ciascuna volta ad aggiungersi a ciò che si dice, quindi l’origine di tutto è il “fatto” che il linguaggio incomincia con la manifestazione di un’espressione che è quella che è. Difficile da dimostrare. Si arriva sempre a questo punto: da dove viene il linguaggio? Domanda che purtroppo non ha una risposta. Questo per dire che quando si elaborano queste questioni intorno al linguaggio, che sono questioni molto complicate ovviamente, è come se si domandasse alla fine di tutto “qual è l’ultimo significato?” qual è il significato vero? E qui l’espressione autentica, quella originaria, è il significato vero, quello che poi si ricerca in tutti i riferimenti, e quindi si suppone che ci sia l’origine del linguaggio e questa è un’operazione metafisica. A un certo punto si accorge che affermare che questo supplemento è originario, non dipende da nulla, non può dipendere dal segno perché è lui, il supplemento che fa il segno, e allora da cosa dipende? Da un’espressione, da cui è nato il linguaggio, l’espressione delle passioni. Ciò non di meno Derrida ci ha dato l’occasione per considerare, riconsiderare delle questioni che ritengo comunque interessanti, importanti.