INDIETRO

 

 

26 novembre 2025

 

Gregorio di Nissa Teologia Trinitaria

 

A pag. 117. Dice Eunomio: “Se infatti Dio è Padre per aver generato il Figlio, e se è Padre e non generato secondo lo stesso significato, Dio, siccome ha generato il Figlio, è non generato. Ma allora prima di generare il Figlio non era non generato”. Cioè, non era Padre. Vediamo dunque anche questo suo discorso che ora si svolge in senso contrario, in che modo, scomponendo, per procedere in senso inverso, la conclusione del suo precedente sofisma, ci avviluppa una seconda volta per me, per mezzo anche di questo, in necessità ineludibili. Il primo sillogismo aveva questo di assurdo: se il termine “Padre” significa che Dio non ha avuto origine da niente, per forza con esso non si può più dimostrare che ha generato il Figlio. Questo sofisma, girato ora in senso contrario, ci preannuncia un’altra assurdità, a danno della nostra dottrina. Qual è dunque la scomposizione dell’argomento proposto prima? “Se Dio è Padre perché ha generato il Figlio”. Il precedente sillogismo ci avrebbe presentato non questa conclusione, ma quella che, se l’essere non generato è significato dalla parola “Padre”, non è possibile che la consequenzialità del sillogismo dimostri anche il rapporto del Padre con il Figlio; ma l’argomentazione del precedente sillogismo non dimostra che Dio fosse Padre per aver generato il Figlio. A che cosa miri il rigiro escogitato dalla sua dialettica e acutezza tecnica, io non sono ancora riuscito a capirlo. Io invece sì. Si tratta di una questione molto semplice. Eunomio utilizza lo stesso termine con significati differenti, ma questi significati differenti sono possibili per via della polisemia di qualunque significante, per cui lui può utilizzare prima il padre in senso biologico - se il padre non ha figlio, non è padre -, per cui prima di generare il figlio, non è padre; e se non è padre - qui interviene invece il significato allegorico - non è Dio. Cioè, utilizza il termine “padre” sia in termini biologici sia in termini allegorici, a seconda di come gli conviene. Quindi, la questione è abbastanza semplice perché mette in evidenza uno degli aspetti del linguaggio, cioè la polisemia: ciascuna parola può avere molti significati. E questo viene utilizzato naturalmente dalla retorica. Perché non funziona, il ragionamento di Eunomio? Perché, come capita molto spesso a molti, si utilizza la logica come una dottrina. La logica conclude questo, quindi è vero questo. Se il padre non ha il figlio vuole dire che non è padre, ma siccome il figlio è stato generato e quindi viene dopo, prima non era padre, quindi non era Dio. Semplice. Utilizzando la logica come una dottrina, si ignorano i problemi connessi con la logica, quelli posti da Aristotele, tanto per intenderci. Però, l’utilizzo della logica come dottrina ha avuto avvio intorno all’anno 1000: Berengario di Tours, che ebbe come suo contraddittore Lanfranco di Pavia. L’idea della logica come dottrina poi la ritroveremo quando la leggeremo, in modo molto più corposo, in Tommaso d’Aquino: con lui la logica diventa il criterio universale. Tutto questo è stato possibile grazie alla non lettura di Aristotele, o meglio, alla lettura di Aristotele attraverso il neoplatonismo; per cui tutte le difficoltà poste da Aristotele nei confronti della logica sono state aggirate, cancellate e annullate, cosa che ha consentito e consente ancora oggi di pensare la logica come una dottrina, e cioè: se la logica conclude questo vuole dire che questo è vero. Mentre non è così automatico. La logica conclude questo in base a quali regole? E chi ha stabilito queste regole? Come sappiamo che queste regole sono necessarie? Naturalmente, questo prevede l’esistenza del necessario, ma il necessario, lui stesso, è un problema, come sappiamo sempre da Aristotele. A pag. 185. Dice Eunomio: “non si deve attribuire a Dio la non generazione in base a un pensiero. Infatti le realtà che sono dette in questo modo periscono per loro natura insieme con le parole che le designano”. Lui accusa i cristiani di attribuire a Dio la non generazione soltanto attraverso un pensiero loro; ma non si può attribuire questa cosa a Dio perché il pensiero è umano e il pensiero umano non arriva a Dio. Dice Gregorio: E quale parola appena pronunciata non si dissolve? Noi infatti non possiamo certo conservare indissolubili le cose che enunciamo con la voce, corrispondentemente a come abbiamo formato la parola nella nostra bocca, come se fabbricassimo vaso, mattoni. /.../ Eunomio potrà mostrare che non si dissolve, ma che rimane salda dopo che è stata pronunciata, in quanto la parola che è stata proferita dalla bocca mediante il suono non resta nell’aria. E così si potrebbe apprendere quanto è vana l’affermazione di Eunomio... Gregorio ribalta su Eunomio le stesse cose che ha detto lui. Il problema della parola, che gli antichi avevano inteso molto bene, cioè la parola, l’abbiamo detto varie volte, dicendosi si dissolve, ciò che si pone, ponendosi si dissolve: φύσις κρύπτεσθαι φιλε. Quindi, pensavano allora: su che cosa possiamo basarci? E di nuovo c’è la constatazione dell’impossibilità di affidarsi al linguaggio, il linguaggio non è affidabile. Questa non affidabilità del linguaggio a che cosa porta? Porta a qualcosa che a tutt’oggi viene pensata, creduta, ecc., che riprenderà poi Tommaso, alla necessità che ci sia un qualche cosa fuori del linguaggio: Dio, che poi è diventato la realtà, la natura, e tutte queste cose. Questa realtà fuori dal linguaggio è identica a sé, è immutabile, è la verità epistemica, quella che si può soltanto contemplare. Ed è la contemplazione di questa verità epistemica che comporta il godimento. Torniamo alla famosa scultura del Bernini, l’estasi di Santa Teresa. Molti lo hanno notato, anche Lacan a suo tempo, che il viso di Santa Teresa è quello di una donna mentre sta provando un orgasmo. Come dire che l’estasi mistica è un’estasi orgastica: c’è dell’orgasmo vero e proprio. Ora, non sappiamo cosa pensasse Bernini, però ci mostra qualche cosa di interessante, che in effetti l’allusione di tutto il cristianesimo all’estasi mistica, cioè alla contemplazione di Dio, ha a che fare con l’orgasmo e che sia una questione erotica, né più né meno. A pag. 196. Abbandonando, infatti, la curiosità che proveniva dalla conoscenza, come dice il testo, “Abramo credesse a Dio e questo gli fu imputato a giustizia”. “Non fu scritto per lui, ma per noi”, dice l’Apostolo, il fatto che Dio imputi agli uomini come atto di giustizia la fede e non la conoscenza. La conoscenza, infatti, possiede una disposizione dell’animo e incline a far la prova, se così si può dire, e accetta solamente quello che viene conosciuto, mentre la fede dei cristiani non è così: essa infatti è “sostanza delle cose sperate”, non di quelle conosciute, mentre quello che si possiede non si spera: “Quello che si possiede”, dice l’Apostolo, “come si può sperarlo?”. Invece quello che sfugge alla comprensione la fede lo rende nostro perché con la propria certezza ci promette quello che non appare Cosa dice infatti l’Apostolo a proposito del fedele: “Rimase saldo, come se vedesse colui che è invisibile”. Vano è dunque colui che, per mezzo della conoscenza, che è vana e gonfia, dice di essere in grado di conoscere la sostanza di Dio. Quindi, la conoscenza, la domanda, l’interrogazione, la problematizzazione, è posta in misura secondaria rispetto alla fede, perché la fede promette ciò che non si ha; mentre la conoscenza, l’interrogazione, ecc., non promette nulla, ma mostra ciò che il pensiero è in grado di fare. La fede nell’ineffabile è fondamentale ed è il fondamento dell’estasi mistica, perché l’ineffabile è quella verità epistemica che è a fondamento di ogni credenza, di ogni supposizione, di ogni pensiero. Come sappiamo, deve rimanere ineffabile, cioè non deve potere essere argomentata, ma deve rimanere argomento di fede. Che ci sia una verità è una fede. Si ha fede che ci sia, e si ha fede che ci sia perché se non ci fosse sarebbe un grossissimo problema, perché vorrebbe dire che tutto ciò che affermo non ha alcun fondamento. A pag. 197. Ma il discepolo dei Vangeli e della profezia crede che esista colui che è, perché si basa sulle parole dei santi e sull’armonia di tutto ciò che si vede e sulle opere della Provvidenza; che cosa sia, però, e come sia, non lo indaga, perché lo ritiene inutile e vano insieme, e quindi non procurerà all’errore alcun ingresso a danno della verità. Nella curiosità, infatti, trova il suo posto anche il ragionamento sbagliato, mentre quando ogni curiosità rimane inerte, insieme con lei viene troncata via sicuramente anche ogni possibilità di errore. A pag. 198. Non sarebbe stato più sicuro per tutti seguire il consiglio della Sapienza e non cercare le realtà troppo profonde, ma tranquillamente conservare per se stessi sicuro e inviolato il semplice deposito della fede. Ora, sono cose scritte un po’ di anni fa dal padre cappadoce, nel IV-V secolo, ma potrebbe essere detto anche oggi. Non sarebbe più sicuro evitare di cercare realtà troppo profonde, ma tranquillamente conservare per sé un sicuro inviolato deposito della fede, cioè la fiducia, per esempio, nella tecnologia, nella scienza. Questa fede dà la sicurezza, mi mette tranquillo, anziché andare a cercare realtà troppo profonde, che non si sa cosa si trova poi. A pag. 199. Allo stesso modo anche tutte le parole che la Sacra Scrittura ha trovato per esaltare la gloria di Dio significano una delle caratteristiche conosciute a suo proposito, perché ciascuna fornisce una sua propria indicazione; per mezzo di esse noi conosciamo la sua potenza o il non ammettere in sé il peggio o il non provenire da una causa o il non essere circoscritto da un limite o il possedere il dominio su tutto l’universo o, insomma, qualcosa che lo riguarda; ma la sostanza stessa è stata lasciata inesplorata, in quanto non comprensibile dalla mente e non esprimibile dalla parola, e la dottrina dei santi prescrisse che fosse onorata con il silenzio, proibendo la ricerca delle sue realtà più profonde e dicendo che non si deve profferire parola davanti al volto di Dio. Insomma, la sostanza deve rimanere praticamente inviolata, deve essere lasciata inesplorata, perché non è comprensibile dalla mente. Qui ci sono in nuce tutti gli strumenti utilizzati poi, nel corso dei millenni, dalla politica, dalla persuasione. Ancora oggi molte persone pensano, anzi, sono sicure che sia meglio non pensare troppo, non indagare troppo. A pag. 201. Se, infatti, con il ragionamento uno scomponesse nei suoi elementi costitutivi quello che se ne vede e sfogliando delle qualità cercasse di osservare il suo strato in sé e per sé, che cosa potrà comprendere in tal modo io non riesco a vederlo? Quando, infatti, tu togli al corpo il colore, la figura, la solidità, il peso, la quantità, la posizione nel luogo, il movimento, l’attitudine a fare, a subire, l’essere in relazione con un’altra cosa (ma nessuna di tutte queste peculiarità costituisce di per sé il corpo, mentre tutte riguardano, comunque, il corpo), che cosa rimane che possa ammettere la definizione di “corpo”? Noi non siamo in grado di vederlo per conto nostro, né ce l’ho insegnato la Scrittura. Soltanto Dio lo conosce. Qui è ancora presente questa idea, presocratica in buona parte, che se si tolgono tutte le categorie non rimane più niente, la sostanza scompare anche lei, che è esattamente il ragionamento di Aristotele, poi corretto da Porfirio, per cui si mantiene e si conserva la sostanza. Però, è ancora presente questa idea che nel linguaggio, nelle parole, nel discorso, se togli tutte le categorie scompare anche la cosa stessa. E questo è interessante perché poi, quando la logica diventa una dottrina, questo aspetto scompare, perché la logica ha incominciato a pensare, a supporre che fosse in grado di supplire a questo problema attraverso il calcolo logico. A pag. 206. La nostra mente coglie qualcosa relativamente all’oggetto cercato, perché ci serve del contatto che le hanno procurato i ragionamenti, mentre un’altra caratteristica di Dio la concepisce proprio perché è impossibile vederlo, e, se così si può dire, considera una chiara conoscenza proprio il fatto che l’oggetto cercato è al di sopra di ogni conoscenza. Cioè, la sostanza è le categorie, ma essendo le categorie questa sostanza è molteplice, non è mai unitaria, non è mai identica a sé. E, quindi, occorre qualche cosa che sia al di sopra, appunto la super-sostanza di cui parlava Porfirio. A pag. 208. Dio infatti non è una parola e non possiede la sua esistenza in una voce o in un suono. No, Dio è in sé e per sé, quello che crediamo, mentre coloro che lo invocano lo chiamano non come effettivamente è (ché inesprimibile... No, dice, Dio è in sé per sé quello che crediamo che sia. Noi lo crediamo. È curioso che abbia aggiunta questa considerazione, che nega tutto ciò che ha detto in precedenza: Dio non può essere che ciò che noi crediamo che sia.

Intervento: Però c’è il problema della grazia in Agostino.

Sì, certo, la grazia fa vedere Dio, però non può essere ciò che noi crediamo che sia, deve essere quello che è, e non per merito mio. Qui a pag. 223 parla del Padre e del Figlio. Questo elemento deve essere creato o increato? Sta parlando del Figlio. Ma non è possibile dire che è creato, perché la parola del Padre vi fu prima che prendesse sostanza il creato, e non vi è nulla di increato, ad eccezione della natura di Dio. Se, dunque, non esisteva il creato e se la parola ricordata nella genesi del mondo precedeva la creazione, allora colui che dice che parole e suono di voci sono significate dal parlare che cosa intende che sia l’elemento intermedio tra il Padre e il Figlio, con il quale la voce poté conformare le parole? Qui si ripropone il problema dell’intervallo tra Padre e Figlio Se Dio ha creato il Figlio, era in fondo la tesi di Eunomio, di Ariano, se Dio ha creato il Figlio vuole dire che tra Padre e Figlio c’è una distanza, e se c’è una distanza è un problema, perché questa distanza è sempre non misurabile, in nessun modo.

Intervento: Stavo ripensando tra l’altro che senza la super-sostanza di Porfirio non sarebbe neanche possibile pensare il dogma trinitario, quello di Nicea, perché in effetti se la sostanza è ciò che se ne dice, Padre e Figlio dicono due cose diverse…

Esattamente. È quello che sostenevano Ario ed Eunomio.

Intervento: Sembrerebbe che Porfirio abbia costituito la base del cristianesimo.

Ha risolto un problema fondamentale. Se non si risolveva quello non si andava da nessuna parte, tutta la teoria trinitaria non si sarebbe potuta costruire. Come la costruisci se la sostanza, se Dio è soltanto ciò che se ne dice.

Intervento: Il punto rilevante delle Enneadi è la grazia poi di Agostino, cioè il sentire Dio.

Sì, certo. A pag. 227. ...Mosè, ponendo al primo posto che Dio “disse” che fosse fatta una certa cosa, ci rappresenta la potenza che dà impulso alla sua volontà e aggiungendo “e così fu fatto” mostra che nella natura di Dio non c’è nessuna differenza tra volontà e operazione... Questa cosa che dice Gregorio, sempre contro Eunomio, ci serve perché Eunomio diceva invece che i cristiani sostenessero che in fondo le cose Dio le ha fatte per passione, e, quindi, sminuendo Dio. Invece, dice Gregorio di Nissa, non le ha fatte per passione, non è che le ha pensate e poi le ha fatte, ma dicendole erano già fatte: con il semplice dirle, queste appaiono. A pag. 229. La nostra parola, infatti, in principio non era, ma fu fatta insieme con la nostra natura, e non si vede in una esistenza sua propria, ma, come dice in un passo il nostro maestro Basilio di Cesarea, scompare insieme al suono della lingua, e non è possibile vedere nessun opera di questa parola, perché essa possiede la sua sussistenza solamente nella voce e nella lettera; invece la Parola che proviene da Dio è Dio, Parola che era nel principio e che dura per sempre, grazie alla quale tutte le cose sono e hanno avuto sussistenza; essa sovrintende all’universo e possiede tutta la potestà su quello che è nel cielo e su quello che è sulla terra... La parola non scompare. E qui ci siamo sbarazzati anche di Eraclito, perché la parola di Dio è sempre stata e sempre sarà, immutabile e identica a sé. E, quindi, non svanisce dicendosi, perché Dio ha detto delle cose, come dice anche nella Bibbia, dice e quella cosa fu fatta, ma siccome la sua parola scompare come tutte le parole, allora scompare anche la cosa fatta insieme, visto che sono la stessa cosa. Cioè, creando distrugge, quindi non crea niente. Ora, saltiamo tutto il libro terzo, che è fatto di un’infinità di esempi che servono a confermare tutte le cose che ha detto nei primi due libri. Siamo a pag. 518. Cita Eunomio. “In quanto l’Unigenito stesso riporta al Padre la denominazione conforme alla dignità, in quanto dovuta a lui solo. Infatti, colui che ha insegnato che l’essere chiamato “buono” conviene solo a colui che è la causa della sua propria e di ogni bontà, e riconduce a quello tutto ciò che è ed è stato fatto buono, a maggior ragione non potrebbe appropriarsi della signoria sugli esseri che una volta furono fatti e della denominazione di “colui che è”. Ebbene, finché Eunomio nascondeva la sua bestemmia sotto certi veli e, senza farsi notare, accostava quelli che erano da lui ingannati ai raggiri dei suoi ragionamenti, io pensavo che si dovesse prestare attenzione alle sue malefatte nascoste e, per quanto era possibile, mettere a nudo con il ragionamento la rovina. E qual è la malignità? La malignità è quella che attribuisce la bontà soltanto al non generato, che lui non chiama Padre per via del problema di prima, ma lo chiama il non generato. E, quindi, toglie la bontà al Figlio, ma se toglie la bontà al Figlio significa che il Figlio non è più venuto per salvarci, perché tutta questa bontà non gli appartiene. Siamo a pag. 591. La fede dei cristiani che, secondo l’ordine del Signore, fu annunciata dai discepoli a tutte le genti, non proviene dagli uomini né grazie agli uomini, ma grazie allo stesso nostro Signore Gesù Cristo, il quale è Logos e vita e luce e verità e Dio e sapienza e tutto quello che è secondo la sua natura…Naturalmente, per sostenere questo deve fare, come ha fatto, mille esempi per dimostrare che invece Dio e il Figlio sono la stessa cosa e non come pensano gli ariani, quindi Eunomio, come sostanze diverse.

Intervento: Quindi, sostanzialmente renderli sinonimi attraverso l’analogia.

Hanno lo stesso nome, però hanno anche la stessa sostanza. Sono separati, sono delle ipostasi, ma queste ipostasi sono un’unica sostanza. ...grazie allo stesso nostro Signore Gesù Cristo, il quale è Logos e vita e verità... Si fece in una realtà simile all’uomo e prese parte della nostra natura in tutto nella somiglianza, ad eccezione del peccato. Costui fu visto sulla terra e visse tra gli uomini. C’è un altro piccolo saggio contro Eunomio, Confutazione della professione di fede, dove riprende le stesse cose naturalmente. Ecco qui riassunta un po’ tutta la questione a pag. 592. Poiché, dunque, questo insegnamento è esposto dalla Verità stessa, se gli inventori delle sciagurate eresie escogitano qualcosa di perverso per distruggere la parola divina, sì da chiamare il Padre, invece che “Padre”, “creatore” e “artefice” del Figlio, e il Figlio, invece che “Figlio”, “opera” e “creatura” e “fattura”... Quindi, negano la processione. ...e lo Spirito, invece che “Spirito santo”, “creatura di creatura” e “opera di opera”, e tutto quello che piace dire, riguardo allo Spirito, ai nemici di Dio, ebbene tutto questo noi lo chiamiamo negazione della natura divina che ci fu rivelata in questo insegnamento e trasgressione. Insomma, tutto ruota intorno al fatto che sia possibile procedere da un elemento a un altro senza soluzione di continuità. Soltanto se si ammette il continuo allora è possibile pensare l’unità, l’identità a sé, perché se non c’è questo continuo, l’identità a sé del Padre si sgretola, perché non è più lui l’identità, ma è identità e anche quell’altra cosa, quindi non è più identico. La Trinità, siccome bisogna mantenere questi tre elementi, perché la Bibbia lo dice che sono tre, e allora bisogna fare in modo che questi tre siano uno, identico a sé, perché Dio è identico a sé, non può essere differente da sé, sennò non è più Dio. E questo è il principio cardine di tutto il discorso del padre cappadoce: la necessità del continuo. E, poi, la necessità stessa del linguaggio, in fondo, cioè la necessità che ci sia un passaggio continuo dall’antecedente al conseguente, che renda cioè il pensiero possibile. Perché il pensiero è possibile, può giungere alle sue conclusioni, qualunque esse siano, solo se dalla premessa si passa necessariamente a una conclusione; cioè, non c’è il salto, non c’è nulla in mezzo tra l’uno e l’altro. È questo che sottolinea anche Gregorio di Nissa; non c’è un spazio tra i due. Ma questa è anche la condizione di esistenza del pensiero e, quindi, di tutto ciò che il pensiero ha costruito: il fatto che da un elemento si possa passare all’altro in una sorta di continuità, quindi, potremmo dire con Plotino, di processione. Plotino, alla fine, non sapeva bene come mai avvenisse questo fenomeno, però ormai l’ho scritto, ho fatto mille pagine, non è che adesso butto via tutto. E questo è un elemento importante che a noi interessa, perché della teologia in quanto tale non è che ci importi più di tanto, ma la teologia ci interessa perché, come abbiamo detto tante volte, è una delle più importanti teorie del linguaggio. E a noi interessa intendere il linguaggio. Perché? Perché intendendo come funziona il linguaggio intendiamo come funzionano gli umani, che sono la stessa cosa, gli umani sono il linguaggio. Il linguaggio ha bisogno di quelle cose che la teologia trinitaria ha voluto stabilire, riferendosi a Dio, certo, va bene, ma perché altrimenti non è possibile pensare senza questa, chiamiamola adesso così, ipotesi del continuo, non c’è argomentazione possibile, non c’è pensiero possibile, perché questo salto, che c’è tra l’antecedente e il conseguente, tra la protasi e l’apodosi come dicevano gli antichi, se c’è questo salto allora interviene quello che diceva Aristotele, che aveva inteso benissimo la questione, interviene l’ύπάρχειν: è una mia decisione. Va bene, ma perde il carattere di necessità, cioè, tutte le conclusioni che giungo, tutte le decisioni che prendo, tutte le cose che penso e alle quali credo più o meno, cessano di essere sostenibili. Diventano racconti possibili a fianco di altri infiniti racconti possibili, nient’altro che questo. Cioè, tutte le cose che credo sono solo un racconto a fianco di infiniti altri racconti, altrettanto sostenibili, altrettanto plausibili, altrettanto argomentabili. E questo naturalmente costituiva, e costituisce a tutt’oggi, un enorme problema.

Intervento: In questo modo si nega la padronanza sul linguaggio.

La padronanza sul linguaggio è la padronanza per antonomasia, direi. In fondo, tutta la propaganda è un tentativo di padroneggiare il linguaggio: fare in modo che le persone credano che una certa cosa voglia dire quella determinata cosa e non altre, ma solo quella. La padronanza sul linguaggio si fonda sull’eliminazione della polisemia, cioè della molteplicità dei significati.

Intervento: Dio è il referente ultimo.

È il significato unitario. Qualunque cosa procede da lui e torna a lui. Questo è Plotino: all’Uno e ritorno. Anche la dialettica hegeliana è questo.

Intervento: Il mito della razionalità…

Il mito della razionalità si fonda sulla logica in quanto dottrina e non in quanto meccanismo retorico, perché la logica è questo, un meccanismo retorico, né più né meno. Ora, tutto questo ci porta a dovere considerare con maggiore attenzione la questione dell’estasi mistica, cioè della visione della verità assoluta. In quella visione che ciascuno ha ogni volta che propone un suo pensiero, una sua supposizione, ecc., è come se vedesse Dio in quel momento, come se fosse in contemplazione dell’assoluto, perché ciascuno immagina che la sua idea sia assoluta, non una fra le tante. Questo spesso si dice prima come captatio benevolentiæ: è solo una mia opinione. Ma dicendo la sua opinione sta dicendo l’assoluto, e l’assoluto è la verità epistemica, è Dio. Quindi, dicendo la sua opinione sta dicendo che cos’è Dio e, quindi, che cos’è che deve essere adorato, che cos’è che deve essere contemplato, più propriamente ancora, che cos’è ciò a cui ciascuno deve sottomettersi, perché poi l’assoluto porta alla sottomissione.

Intervento: L’estasi mistica, presa in questa visione dell’assoluto, è una sorta di delirio di onnipotenza.

La visione della verità assoluta, della verità epistemica, è il godimento assoluto, non ce n’è un altro più grande. E, infatti, il cristianesimo pone la visione di Dio come il massimo grado; ne parla anche Dante che, quando arriva in cima, vede la luce.

Intervento: La dottrina della salvezza…

La dottrina della salvezza è fondamentale, perché in fondo, se io vi dicessi come stanno veramente le cose vi salverei dall’errore, perché voi non sapete come stanno le cose, e quindi vi salvo dall’inganno, soprattutto dall’errore dei falsi profeti. Pertanto, è sempre una un’operazione soteriologica. è sempre una cosa erotica.

Intervento: Santa Teresa del Bernini…

È l’estasi mistica, è il vedere la verità, il massimo godimento, cioè, l’avere ragione è il massimo godimento. È l’avere ragione sull’altro che riconosce la mia ragione: questa è l’apoteosi del godimento, questa è l’estasi mistica.

Intervento: la questione erotica...

La questione erotica ha a che fare con l’avere ragione, è l’essere riconosciuti come portatori della verità: questo è l’erotismo più sfrenato. L’estasi mistica è l’avere ragione, riportata oggi, in buona parte, attraverso Hegel, all’anima bella: colui che gode, che però schernisce questo suo godimento attraverso la sofferenza: da una parte gode, dall’altra soffre perché gli altri ancora non sanno. Tutte cose che vedremo, per arrivare poi all’apoteosi con Tommaso, con il quale la logica come dottrina si instaura nel discorso degli umani.