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26 settembre 2018

 

La struttura originaria di E. Severino

 

Questo libro è avvincente, così come lo è il modo con cui Severino sa articolare le argomentazioni. Queste argomentazioni, come sappiamo, muovono dal principio di non contraddizione, da ciò che è necessario che sia. Però, stavo pensando che forse c’è un modo più efficace perché, sì, tutta l’argomentazione di Severino muove dal fatto che negare il principio di non contraddizione produce una affermazione autocontraddittoria, è vero, però, forse si può porre la questione in termini più semplici. Quello che ho pensato si appunta unicamente sul funzionamento del linguaggio, senza avere bisogno di tante argomentazioni: si sa che più sono le argomentazioni e più è facile, poi, trovare qualche inghippo; meno sono meno questa eventualità è presente. Poniamo, dunque, la cosa in questi termini: qual è l’utilità del principio di non contraddizione nell’economia del linguaggio? È questo che a noi interessa. Molto semplicemente, per costruire un’argomentazione occorre una premessa, dei passaggi e una conclusione. Utilizziamo, per esempio, il sillogismo Barbara. I medioevali davano dei nomi ai sillogismi soltanto per un uso mnemonico. In Barbara ci sono tre a e significano tre affermazioni universali positive. Le affermazioni erano quattro: a, e, i, o. La a è l’affermazione universale, la e la negazione universale, la i l’affermazione particolare, la o la negazione particolare. La a e la e sono contrarie; la a e la o sono contraddittorie. È il famoso quadrato logico attribuito a Pietro Ispano. Dunque, la premessa maggiore di un qualunque sillogismo. Per poterla utilizzare, questa premessa maggiore deve essere quella, perché se fosse un’altra ciò che ne seguirebbe non sarebbe la stessa; quindi, deve essere necessariamente quella che è, identica a sé, cioè, una premessa di un sillogismo non può essere quella che è e anche non essere quella che è, perché non potrei costruire un’argomentazione. Questo è il punto fondamentale: se la premessa non è incontraddittoria, non posso costruire il sillogismo, perché da una premessa che sia quella che è e che sia anche il suo contrario, non posso dedurre niente. Quindi, a questo punto il fatto che a noi interessa è il fatto che per potere costruire un sillogismo è necessario che la premessa maggiore (sillogismo barbara) sia incontraddittoria, cioè non debba e non possa essere anche la sua negazione, perché sennò io il sillogismo non lo costruisco più. Il principio di non contraddizione mi garantisce che la premessa è quella e non altro. Questo consente la costruzione del sillogismo e questo consente la costruzione del pensiero. E, allora, se non c’è il principio di non contraddizione, io non posso pensare, perché non posso costruire nessun sillogismo e, quindi, non posso costruire nessuna argomentazione e, pertanto, nessun pensiero. Senza principio di non contraddizione non c’è pensiero. Ecco la questione della metafisica che a noi interessa. La metafisica è, come abbiamo detto varie volte, la struttura del discorso perché è ciò che impone al discorso di muovere da un qualche cosa che è dato per certo, che deve essere necessariamente quello che è, nella metafisica che qualcosa è quello che è per virtù propria. In effetti, non ha tutti i torti. Per virtù propria, detto così non suona bene ma la premessa maggiore, di cui dicevo prima, deve essere quella che è “in un certo senso” per virtù propria. Non posso ovviamente dimostrare che è quella che è, quindi, deve essere quella che è “in un certo senso” per virtù propria, cioè, viene presa per quella che è, perché altrimenti non posso costruire il sillogismo, e se non c’è sillogismo non c’è articolazione, se non c’è articolazione non c’è pensiero. Il pensiero non è altro che una serie di sillogismi; si pensa così, non abbiamo altri modi. Occorre che si parta da qualcosa che deve essere quello che è – è il caso di dire a questo punto – “per virtù propria”. Il linguaggio, per potere funzionare, ha bisogno che questo elemento sia incontraddittorio. È questa la funzione del principio di non contraddizione: fare funzionare effettivamente il linguaggio, perché senza il principio di non contraddizione io non posso costruire il sillogismo e, quindi, non posso pensare, non posso concludere niente perché non c’è nessuna catena sillogistica, non c’è nulla. Vi dicevo che la metafisica coglie in un certo senso la questione e cerca in tutti i modi di stabilire che cos’è una certa cosa, ma “deve” farlo perché sennò il linguaggio, quindi il pensiero, non si avvia, non solo non si articola ma non si avvia, perché da una premessa, che è quella che è ma anche il suo contrario, io non posso argomentare niente. Vale a dire, una premessa del genere non la posso utilizzare. Deve essere quella che è; anche nei casi in cui spesso si dice “se le cose stanno così, allora…”, si mette questa “se” ipotetica, ma è per niente ipotetica. È vero che mette il “se” davanti ma poi, di fatto, lo si utilizza come se fosse proprio così e non altrimenti, perché sennò non potrebbe costruire nemmeno l’ipotesi. In questo modo abbiamo posto la Necessità in modo più forte, perché senza questa Necessità, senza questa incontraddittorietà della premessa maggiore, non c’è nessuna possibilità di costruire un sillogismo, cioè non c’è la possibilità di pensare. Detto questo, è avvincente seguire Severino con tutte le sue elaborazioni. A pag. 149, Punto 10, Nota 2. Si osservi ancora che la determinazione reciproca… Riprende la formula (A=B)=(B=A). …non è una contraddizione solo in quanto la determinazione non sia intesa come una “fondazione” in cui il fondamento valga come una antecedenza logica rispetto al fondato. È il discorso che aveva già fatto: non è perché una è davanti e l’altra dietro, allora la prima fonda la seconda. No, perché allora, sì, in quel caso sarebbe contraddittorio: se uno ha bisogno dell’altro per fondarsi, vuole dire che è quello che è a condizione che ci sia qualcos’altro, cioè, non è più l’immediato di cui parla Severino, il non mediato da altro. Intesa in questo modo la determinazione, è infatti contraddittorio che l’uno dei due momenti della determinazione reciproca ai ad un tempo determinato dall’altro e determinante questo. Ora, determinati in questo senso, tali cioè che abbiano il loro fondamento nell’altro dei due, inteso come un’antecedenza logica, sono soltanto i momenti astratti della reciprocità in quanto astrattamente concepiti… Cosa vuole dire “astrattamente concepiti”? Vuole dire isolati, per cui considero uno e poi quell’altro; non concepiti come il concreto, potremmo dire, la simultaneità dell’uno e dell’altro. Sappiamo che quando lui scrive A=A e A=B, questo A=B non va preso come due elementi in relazione tra loro ma come un’unità, cioè, come un elemento concreto che non può essere disgiunto. Questo viene da Heidegger. Quando lui fa l’esempio della lampada sul tavolo, la lampada sul tavolo è una cosa, ma la lampada è un’altra cosa, il tavolo è un’altra cosa. Quindi, se io isolo la lampada dalla proposizione “questa lampada che è sul tavolo”, compio un’astrazione pura e semplice; mentre il concreto, cioè ciò che mi appare, l’immediato, ciò che non ha bisogno di altro per apparirmi se non se stesso, quello è la lampada sul tavolo. Quindi, questi due elementi sono il concreto, l’immediato, che non possono, se non per un’astrazione, essere separati, perché, separandoli, si produce necessariamente una contraddizione. A pag. 150, punto 11, Aporia: il fondamento della posizione dell’essere si costituisce come un processo infinito. Riprendendo. L’essere è, perché che l’essere sia è immediatamente noto. (Una volta che si tiene fermo il significato concreto dell’immediatezza è indifferente, dal punto di vista discorsivo, esprimere questa concretezza mediante l’uno o l’altro dei due suoi momenti). Questa notizia immediata è lo stesso affermare che l’essere è: il fondamento di questa affermazione è il suo stesso essere posta come sapere immediato. È in questo senso che non ha bisogno di essere fondato da qualche cos’altro: di ciò che è immediatamente evidente questa immediatezza non richiede di essere fondata da altro, perché ciò che appare, appare. Usando le parole stesse di Severino, potremmo dire: è l’esser sé dell’essente. Ci sembra importante, a questo punto, prendere in considerazione una specie di aporia di interesse notevole, determinata dall’uso incontrollato dell’intelletto astratto. L’intelletto astratto, come sappiamo, è estrapolare un elemento dal concreto. Ma in base a che cosa si afferma che è immediatamente noto che l’essere sia? L’essere è, va bene, ma come lo so? Si risponderà: è immediatamente noto perché che sia immediatamente noto è immediatamente noto. E cioè, come prima la posizione (l‘affermazione) del suo essere era fondata in base alla posizione dell’immediatezza… La posizione è l’apparire; l’immediatezza è il non essere fondato da altro che da se stesso, l’immediato. …così ora la posizione dell’immediatezza è fondata in base alla posizione dell’immediatezza dell’immediatezza. Quello che Severino vuole dire è che l’immediato è per sé immediatamente noto, nel senso che ciò che mi appare mi appare. Se questo mi appare non posso dire che non mi appare. Per dire questo “non mi appare” devo già preventivamente avere considerato che mi era apparso per poterlo negare, quindi, deve già apparire, deve essere nell’immediato per dire che non mi appare. Sarebbe come dire che non posso affermare di qualcosa che non è qualcosa. Ciò che è noto è che qualcosa è qualcosa. È chiaro che in tal modo si può daccapo domandare in base a che cosa è posta l’immediatezza dell’immediatezza, dando così luogo a un regressus ad indefinitum nella motivazione della posizione dell’essere. Se infatti l’essere può essere posto solo perché posta l’immediatezza di questa posizione, e questa immediatezza può essere posta solo in quanto è posta l’immediatezza della posizione dell’immediatezza, poiché di ogni livello posizionale che effettivamente si raggiunga si può domandare il fondamento, e poiché la posizione del fondamento porta oltre quel livello, la posizione del fondamento sarà in ogni modo elusa, e la posizione dell’essere avrà un valore di semplice gratuità o convenzionalità. Cioè, non lo posso stabilire perché sono portati in un regresso all’infinito. Come risolve la storia? A pag. 153. La posizione dell’immediatezza dell’essere – l’affermare che l’essere è per sé noto – ha il suo fondamento in sé o in altro. O anche: tale immediatezza è nota, affermata, per sé o per altro. Che sia nota per altro è contraddittorio… Ha bisogno, quindi, di qualcos’altro, non è per sé, non è immediata ma è mediata da qualche altra cosa. Se poi è nota per sé, e cioè se l’immediatezza è affermata in base alla sua immediatezza, si produce il regressus ad indefinitum, dato che l’essere può esser posto solo in base alla posizione dell’immediatezza di questa posizione, e se questa immediatezza può esser posta solo in base alla posizione dell’immediatezza dell’immediatezza, si potrà ancora e sempre domandare in base a che cosa sia posta l’immediatezza dell’immediatezza. Punto 16, Toglimento dell’aporia. Il responsabile dell’aporia – come già si accennava – l’intelletto astratto. Ogni problema per Severino procede dal fatto che, di fronte al concreto, cioè l’immediato, io astraggo qualche cosa. Se da “questa lampada che è sul tavolo” astraggo la lampada, incontro immediatamente un’aporia, una contraddizione. L’essere è. Sin tanto che ci si ferma a questa affermazione non si è in grado di togliere la negazione dell’essere che è per sé noto, e pertanto la negazione travolge l’affermazione. Se mi imito a dire semplicemente che l’essere è, non sono andato molto lontano. La negazione è tolta perché, che l’essere sia, è per sé o immediatamente noto; e cioè perché la negazione nega ciò che è per sé noto, ossia ciò che è lo stesso fondamento o base del suo essere affermato. È un’affermazione, potremmo dire, dettata dal buon senso. La negazione è tolta nel senso che, se affermo un qualche cosa, affermandola la faccio esistere, ne stabilisco l’esistenza: per affermare, per fermare, occorre che sia qualcosa; quindi, questo qualche cosa è già lì, è già noto, qualunque cosa affermi. Questo è ciò che intende quando parla di “per sé noto”: se affermo qualche cosa, questo affermare implica che sia già noto questo qualche cosa, altrimenti, non affermo nulla. È una questione che per un verso appare molto semplice, per l’altro invece complessa. È ciò che già diceva Heidegger rispetto al logos: se dico, dico qualcosa, non esiste un dire che non dica niente. Retoricamente sì, anzi, si abbonda, ma teoricamente no, perché il dire sta già dicendo, è nel dire stesso il fatto che io dica qualche cosa. Questo per farvi intendere bene la questione che sta ponendo qui Severino del “di per sé noto”: il fatto che se dico, dico necessariamente qualche cosa; già nel fatto di dire è implicito che dico qualcosa, per esempio che dico. In questo senso è immediatamente noto, perché non può non essere noto che se dico sto dicendo, che se parlo sto parlando. Ora, l’essere che è noto, non sta al di fuori, in quanto è visto come base dell’affermazione che l’essere è, o in quanto è visto come ciò per cui l’essere è affermato – non sta al di fuori dell’orizzonte costituito dall’essere che è così affermato, ma vi è incluso. Il fatto che se io dico, dico qualche cosa, questo qualche cosa non è qualcosa che si assomma al fatto che dico; è incluso nel fatto che se dico, dico qualcosa, non è un’aggiunta, è implicito. E cioè l’immediatezza dell’essere immediato appartiene all’orizzonte dell’essere immediato: non solo è per sé noto che l’essere è, ma è anche per sé noto che l’essere che è noto è ciò per cui si afferma che l’essere è. È esattamente quello che vi dicevo prima rispetto al dire; posta così sembra complicata ma in realtà pensate al dire, è più semplice: se dico è ovvio che sto dicendo qualcosa, per il solo fatto che dico. A pag. 158, punto 18, Una nuova aporia: che l’essere sia è ad un tempo un mediato e un immediato. Prima abbiamo sostenuto che l’essere è immediato, perché che io dica implica necessariamente che io dica qualcosa; questa cosa non è mediata da altro, è immediata, è, come direbbe Severino, per sé nota, altrimenti sarebbe autocontraddittoria. Se dico ma non dico niente è già una contraddizione perché, in effetti, ho già detto qualcosa. Senonché, sembra che anche in questo modo non si possa evitare che, ad un tempo, l’essere che è immediatamente noto sia un mediato e un immediato. Si è detto infatti che l’affermazione: “L’essere è” può essere tenuta ferma solo in quanto sia rilevato, posto, che l’essere è per sé noto. Il fondamento della posizione dell’essere consiste cioè nella posizione dell’immediatezza di quella posizione. Il fondamento sta nel fatto che questa posizione, questo apparire della cosa, non ha bisogno di altro per apparire, appare da sé. Da ciò segue che la posizione dell’essere (=l’affermazione: “L’essere è”) è un mediato, in quanto ciò per cui l’essere è posto è la posizione dell’immediatezza di quel porre. Questa è una raffinatezza: il fondamento dell’affermazione “L’essere è” sta nella sua immediatezza, cioè nel non essere mediata da altro; quindi, che l’essere sia dipende da questa immediatezza. Quindi, dicendo che il fondamento di questa affermazione, che dice che l’essere è, è la sua immediatezza, io faccio appoggiare questa affermazione “L’essere è” all’immediatezza e, quindi, dipende dall’immediatezza e, quindi, sarebbe mediato dall’“immediatezza”. Come dire che affermando che è immediato lo pongo come mediato da questa stessa immediatezza. Qui non è tanto in questione il contenuto; sì, certo, è importante, però, ciò che è più importante è intendere il modo in cui procede Severino. Un po’ come facevamo anche con Heidegger, anche se Heidegger è totalmente differente, quello che è interessante è vedere il modo con cui approccia le questioni, con cui le articola, il modo in cui pensa. …e, insieme, è un immediato, appunto perché ciò per cui l’essere è posto è il riconoscimento dell’immediatezza della posizione dell’essere. È immediato perché riconosco la posizione dell’essere, cioè, l’apparire dell’essere, lo riconosco immediatamente e, pertanto, è immediato. E cioè, che l’essere sia, ad un tempo non vuol essere dimostrato – appunto perché l’essere è per sé noto -, e insieme è dimostrato, perché per tenere fermo che l’essere è, è necessario riconoscere che non c’è bisogno di dimostrare che l’essere sia;… Per tenere fermo che l’essere è io non devo avere bisogno di nessuna dimostrazione, perché se ho bisogno di una dimostrazione non c’è più l’immediatezza di cui stavamo parlando. Quindi, se “dimostro” che l’essere è immediato, a questo punto l’essere non è più immediato ma è mediato dalla mia dimostrazione. Infatti dice …questo riconoscimento è un’alterità rispetto alla posizione dell’essere. (La posizione dell’essere si distingue infatti formalmente dalla posizione dell’immediatezza dell’essere). Sono due cose diverse. Qui avrete avuto modo di notare una cosa importante che riguarda non soltanto il contenuto ma, come dicevo prima, la manifestazione del procedere di Severino. Risulta evidente da tutto ciò che Severino fa un grande affidamento sulla logica formale, e cioè sul fatto che, se si procede formalmente in modo corretto, la conclusione cui si giunge è corretta; non solo, ma corrisponde anche a uno stato di cose. Questa fiducia estrema nei confronti della logica è pericolosa, nel senso che conduce ad argomentazioni anche molto elaborate, molto complesse, che puntano unicamente a stabilire che le cose non possono non essere così ma logicamente, cioè attraverso un calcolo. La logica, di fatto, non è altro che un calcolo. Il problema è che anche questa logica che cosa garantisce, di fatto? Torniamo al discorso fatto all’inizio, prima di iniziare a leggere. Il sillogismo ha bisogno dell’incontraddittorio per potersi affermare in quanto ciò che è, ma questo essere incontraddittorio è qualcosa che non posso dimostrare, non esiste una dimostrazione, perché qualunque dimostrazione io voglia costruire daccapo utilizzerà dei sillogismi, che richiederanno a loro volta un’altra dimostrazione, e così via all’infinito. Questo ci dice che non c’è nessuna possibilità di dimostrare che la logica sia fondata su qualcosa: la logica è fondata su niente. La logica è fondata, per tornare all’esempio del sillogismo, sull’incontraddittorietà della premessa maggiore, ma questa incontraddittorietà non la posso dimostrare, la posso solo porre, è una mia decisione. Più che mia è il linguaggio che necessita di questa operazione per potere andare avanti, perché, come abbiamo visto, se la premessa maggiore è contraddittoria non posso costruire nessun sillogismo, nella migliore delle ipotesi posso costruire una figura retorica. Se muovo dall’idea che ciò di cui parlo è quello che è ma anche il suo contrario, dove vado? E questo può essere un grosso problema, perché alla fine ci si ritrova di fronte ad argomentazioni che, certo, sono molto ben costruite, anche molto complesse, che però mostrano poi il fianco a un’obiezione molto semplice, e cioè che tutte queste argomentazioni sono costruite logicamente ma la logica non può dimostrare niente se non all’interno delle regole che lei stessa si è data. Questo Wittgenstein lo sapeva bene. A pag. 159. L’aporia è dunque risolta col rilevare che la posizione dell’immediatezza non è posizione dell’immediatezza della posizione dell’essere, qualora quest’ultima posizione sia concepita come precedente la posizione della sua immediatezza… Avete inteso subito qual è la questione, che è sempre quella della formula da cui era partito, (A=B)=(B=A). Sta dicendo che si toglie questa aporia dicendo che la posizione dell’immediatezza non è posizione dell’immediatezza della posizione dell’essere, qualora quest’ultima posizione sia concepita come precedente la posizione della sua immediatezza. Lui ci sta dicendo che l’essere e la posizione dell’immediatezza dell’essere non vanno presi isolatamente, non posso astrarre un elemento dall’altro, così come non posso astrarre la lampada da “questa lampada che è sul tavolo”. Faccio un’astrazione, certo, ma la lampada non è “questa lampada che è sul tavolo”, non è l’immediatamente evidente, l’immediatamente presente, cioè, il concreto. In questo modo Severino ha tolto la contraddizione: non posso astrarre un elemento da un altro, dal concreto, da ciò che appare concretamente, perché in questo modo astraggo dal concreto, dall’immediatamente evidente e, astraendo, mi trovo di fronte a un’altra cosa, che a questo punto è contraddittoria, perché non è quella cosa lì: la lampada non è “questa lampada che è sul tavolo”, sono cose diverse, quindi, in contraddizione. A pag. 160, Punto 20, Nota. Da quanto si è detto appare come la posizione dell’immediatezza non sia un risultato della discorsività, ma sia immanente all’itero processo discorsivo. Questa è una sua accortezza. Lui continua a dire che gli elementi che intervengono nel suo dire non vanno presi isolatamente, non vanno astratti dal concreto, ma vanno presi nel concreto, e cioè come l’apparire di questa lampada che è sul tavolo. È sempre questa la questione. Il discorso relativo all’affermazione dell’essere si è sviluppato in questo modo: in primo luogo si è posto l’essere; in secondo luogo si è rilevato che questa semplice posizione non è in grado di tenersi ferma, e perciò si è “domandato” il fondamento di tale posizione; in terzo luogo si è posta l’immediatezza della posizione dell’essere (escludendo in tal modo la negazione di questo). Mette il “domandato” tra virgolette perché se io domando il fondamento allora il fondamento è già nel domandare stesso del fondamento, e cioè l’affermazione che qualche cosa è. Ora diciamo – confermando quanto si è detto sopra – che quest’ultima posizione non è un risultato del domandare indicato qui innanzi, ma è ciò che, come cooriginario alla posizione dell’essere, rende possibile la domanda stessa. Questo domandare è ciò che rende manifesto il fatto che qualche cosa è già noto, sennò non potrei domandare. Ora, la domanda è possibile in quanto è già risolta, in quanto cioè la posizione dell’essere è già in vista come fondamento… Se mi domando il fondamento di qualche cosa, la posizione dell’essere è già in vista di questo fondamento, cioè, chiedendo il fondamento chiedo “cos’è qualcosa”. Per Severino l’essere non è ciò che intendeva Heidegger. Sapete bene che per Heidegger l’essere è l’essere-gettato, l’esserci, Dasein; per Severino, invece, l’essere è la Necessità, è l’incontraddittorietà, è, come dice lui, l’eterno apparire dell’esser sé dell’essente, e l’esser sé di una qualunque cosa non muta, è eterna, perché è sempre esser sé, non può essere un’altra cosa da sé. Eterno non inteso nel senso dell’arco di tempo, ma che non può non essere, potremmo dire, l’eterno come Necessità. Il domandare dunque è l’atto stesso del concreto che, mettendo in questione un suo momento, lo rileva, appunto, come momento del concreto. Ciò significa che il domandare sussiste solo dal punto di vista della discorsività. E non della necessità, perché nella necessità questo domandare non ha bisogno di porsi, perché è già implicito, è già nell’essere che è necessariamente. A pag. 163, punto 23, Autofondazione. È chiaro che per Severio la posizione dell’essere, cioè l’apparire dell’essere, è qualcosa che è fondato da sé, non può essere fondato da altro. Se fosse fondato da altro sarebbe un problema, perché dipenderebbe da altro. A pag. 164. Autofondazione significa che un termine X è ciò per cui X è affermato. Se una delle due X fosse fondamento, e l’altra fondato, le due X non sarebbero il medesimo, e quindi non si darebbe autofondazione. L’obiezione formulata all’inizio del paragrafo è così precisamente da rovesciare: proprio perché l’immediato è fondamento di sé medesimo, esso non può essere, insieme, fondamento e fondato. È sempre la questione della formula, del concreto, dal quale non posso astrarre un elemento salvo trovarmi poi nella contraddizione; il concreto è l’apparire di questa lampada che è sul tavolo. La struttura originaria è l’orizzonte nel quale si muovono, più o meno consapevolmente, le varie correnti della filosofia contemporanea. La “fenomenologia” costituisce uno dei momenti di maggiore consapevolezza del valore dell’originario. Il “principio di tutti i principi” della fenomenologia suona in questo modo: “Nessuna immaginabile teoria può coglierci in errore nel principio di tutti i principi: cioè che ogni visione originalmente offerente è una sorgente legittima di conoscenza, che tutto ciò che si dà originalmente nell’intuizione (per così dire, in carne ed ossa) è da assumere come esso si dà, ma anche soltanto nei limiti in cui si dà”. Questo è il principio fondante di tutta la fenomenologia, da cui Severino ovviamente ha preso molto, cioè, ciò che si offre è da prendere in carne e ossa. Naturalmente, c’è il problema che avevamo visto rispetto alla fenomenologia di Husserl, ma la stessa cosa può dirsi a questo punto, e cioè il fatto che non posso prendere le cose in carne ed ossa perché, affinché ci siano queste cose, in carne e ossa, perché possa darsi l’immediatamente evidente, il di per sé noto, occorre una struttura che me lo consenta. Per un bruco non c’è qualcosa che è immediatamente noto. Sappiamo con Heidegger che il bruco è uno stordito per definizione, ed essendo stordito non coglie l’immediatamente presente, il di per sé noto; occorre il linguaggio. Quindi, parlare di immediatezza di qualche cosa, che non è mediato da nulla ma è autofondato, è un problema, perché sembra effettivamente che provenga dal nulla. Non può venire dal nulla, e lui lo sa benissimo, dal nulla non viene niente, dal non essere non sorge l’essere, altrimenti tutto il suo discorso crollerebbe. Ma, invece, se posta come l’abbiamo posta prima, questa Necessità, questo incontraddittorio, posto come necessità del linguaggio per potere costruire proposizioni, quindi, pensieri, è un altro discorso, è un’altra cosa. In questo modo è posto come una condizione del funzionamento del linguaggio e, quindi, non è che viene da niente, viene dal linguaggio, dal modo in cui funziona. In realtà, l’essenziale di ciò che dice Severino in un certo qual modo l’abbiamo già detto. Ciò che segue, e che leggeremo, è un’esplorazione di tutti i casi possibili e immaginabili, però sempre immaginando che l’utilizzo della logica conduca a cogliere la Necessità, ma la Necessità non si può cogliere in questo modo perché questa modalità di procedere logico è assolutamente infondato. L’unico “fondamento” è il funzionamento stesso del linguaggio, cioè il fatto che l’incontraddittorietà è necessaria per far funzionare il linguaggio; non ci sono qui argomentazioni logiche, cioè, non ci si basa sulla logica, perché è infondata e infondabile, come faccio a fondarla?

Intervento: Qual è l’aggancio fra la posizione teorica di Severino e tutti i suoi interventi, i suoi numerosi testi riguardanti il campo sociale e politico?

L’aggancio è facile da reperire. Tutto ciò che non tiene conto di questa necessità del principio di non contraddizione, come l’eterno sé dell’essente, è nichilismo. Quindi, è una costruzione del nichilismo che, pertanto, si porta appresso tutti gli effetti del nichilismo. La sua posizione è che tutte le questioni che ha affrontato, L’Islam, il capitalismo, la tecnica e tantissime altre, sono posizioni che muovono dal nichilismo. Il nichilismo è la fede nel divenire e tutte queste posizioni, la politica, la religione, la scienza, ecc., si fondano sul divenire. Per Severino, la volontà di potenza si manifesta nella volontà di controllare le cose a partire dall’idea che le cose divengano, cioè, possano mutare. Solo se divengono io posso manipolarle, cambiarle.