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26 agosto 2020

 

Scienza della logica di G.W.F. Hegel

 

C’è ancora una questione interessante che concerne il sillogismo. Accade che, rispetto a una questione, ci siano discorsi discordanti. Facciamo un esempio banale, prendendolo da qualcosa che sta accadendo ormai da qualche decennio, e cioè l’idea della natura, di salvare la natura, ecc. Ci sono due discorsi: il primo sostiene che noi siamo il prodotto della natura, la natura ci fa nascere, ci alimenta, ecc., e che quindi difendere la natura significa difendere noi stessi, per cui la natura diventa il bene assoluto, un bene che deve essere mantenuto a tutti i costi. Il secondo discorso dice che se noi umani siamo riusciti a sopravvivere è perché abbiamo imparato a difenderci dalla natura, costruendo armi per difenderci dalle bestie feroci, costruendo case e dimore per difenderci dalle intemperie e dal gelo, inventando la medicina per proteggerci in qualche modo dalle malattie; quindi, se siamo riusciti a sopravvivere fino ad oggi è perché abbiamo imparato a difenderci dalla natura. Ora, quale delle due è vera?

Intervento: Leopardi direbbe la seconda.

Indubbiamente. Però, ultimamente è la prima invece ad essere più seguita e accreditata. Tenendo conto del discorso che fa Hegel, che è questo che ci interessa, chiaramente per potere valutare la credibilità di uno dei due corni del dilemma occorrerebbe dimostrare che l’una delle due è vera e l’altra falsa. Come? Hegel ci ha mostrato, e Mendelson in modo ancora più deciso, determinato, che i fondamenti della logica sono inconsistenti, e che quindi non c’è nessuna possibilità di dimostrare un qualche cosa in modo tale che la dimostrazione di questo qualche cosa sia all’interno del qualche cosa stesso. Infatti, abbiamo visto che la deduzione richiede l’induzione e che l’induzione richiede l’analogia, ecc., in un giro interminabile. Quindi, la scelta di una delle due non ha nulla di logico, non può averlo; ciò nonostante se ne sceglie una. In base a che cosa? Cos’è che fa scegliere una anziché un’altra? La volontà di potenza. È la volontà di potenza che decide a un certo punto quale delle due è vera; vera nel senso che mi consente il superpotenziamento, che mi consente di imporre un qualche cosa che, insieme con altri, reputo essere vero. È la volontà di potenza a decidere quale di due sarà quello vero, sarà, cioè, quello che crederò. Quello che crederò sarà quello che mi darà la maggiore possibilità di mettere in atto la mia ragione sugli altri, cioè, quello che ritengo essere il modo più efficace per sostenere qualche cosa sugli altri, non avendo ovviamente nessuna possibilità di dimostrarlo; però, una volta accolta una delle due, indifferentemente, da quel momento in poi ne sono convinto, ne sono fortissimamente convinto e, anzi, difenderò questa posizione a spada tratta e combatterò quell’altra con tutte le mie forze, pur non potendo dimostrare assolutamente niente. È soltanto la volontà di potenza che decide quale sarà vera e, una volta che si è deciso quale è vera, da quel momento è vera e va difesa e vanno combattuti tutti coloro che la mettono in discussione. Nietzsche ha inteso molto bene la questione e, se ci si pensa un momento, non c’è nessun’altra cosa che possa decidere per una cosa o per il suo contrario, visto che né l’una né l’altra sono dimostrabili. È soltanto la volontà di potenza, cioè, la volontà di avere un qualche cosa da credere e da imporre sugli altri: questa è l’unica direzione che una persona possa prendere nel momento in cui deve decidere tra i vari discorsi, siano essi politici, religiosi, ecc.

Intervento: …

Sì, certo. Questo è un effetto collaterale: più si è e più quello che affermiamo è vero, perché se sono soltanto io può venirmi qualche dubbio… magari no. Ma se siamo trenta milioni, allora è vero.

Intervento: …

Mancava questo piccolo passaggio, che ci dice qual è il motivo per cui una delle varie possibilità diventa quella vera definitivamente. Da quel momento è proprio vera, non è che rimane qualche dubbio, è assolutamente vera.

Intervento: …

È come il delirio. Il delirio ha una coerenza interna. È solo la premessa che è discutibile. Se, p. es., io penso di essere perseguitato da agenti segreti, per cui ovunque vada sono spiato, ecc., ho una infinità di prove a supporto di questo, perché se vado in giro ho sempre qualcuno dietro di me: prendo la macchina, mi muovo e ho sempre qualcuno che mi segue e qualcuno che mi guarda. C’è una notevole coerenza nel delirio; anzi, è questa coerenza interna che supplisce alla carenza della premessa. Questo è tra l’altro uno dei motivi per cui è difficile intervenire in un discorso delirante; il delirio ha una infinità di prove che avvalorano quello che crede: basta che esca e trova subito qualcuno che lo spia e, quindi, questa è la prova che è vero quello che pensa. Il discorso comune non è così lontano da questo, in effetti. L’unica differenza fondamentale è che la premessa maggiore è condivisa, mentre nel delirio il delirante è solo lui che pensa di essere seguito dal KGB, ecc.  Infatti, se la premessa maggiore è creduta da molti non è più un delirio. In un certo qual modo si può pensare alla religione come a un delirio condiviso.

Intervento: …

Sì. In fondo, stabilisce una certezza: ogni volta che esco di casa qualcuno mi segue. In un certo senso è vero. Anche voi, appena uscite di casa avete qualcuno che vi segue, primo o poi, è inevitabile.

Intervento: …

Sì e no. La questione è che, in effetti non ho mai fatto un insegnamento, ma è sempre stata una elaborazione in atto, continua, per cui molte cose dette anni fa sì, certo, possono valere ancora, entro certi limiti, però tante cose sono state aggiunte per cui in alcuni casi diventano superflue. Fatta questa breve premessa, torniamo a Hegel.Qui Hegel sta facendo una cosa curiosa, sta considerando il procedimento analitico e lo mette in connessione con il metodo geometrico, che secondo lui si avvicina più di altri al metodo analitico. Siamo a pag. 898. È quindi un lavoro di impalcatura affatto superfluo, di applicar qui la forma del metodo geometrico, che si riferisce alle proposizioni sintetiche, e di far seguire al problema, oltre alla soluzione, anche una dimostrazione. Questa non può esprimere altro che la tautologia che la soluzione è giusta, perché si è operato come era stato proposto. Se il problema è che s’abbiano a sommare più numeri, la soluzione è che si sommino; la dimostrazione fa vedere che la soluzione è giusta perché era stato proposto di sommare, e si è sommato. Quando il problema contenga determinazioni ed operazioni più composte, p. es. di moltiplicar numeri decimali, e la soluzione non dà che il procedimento meccanico, allora veramente occorre una dimostrazione; questa però non può consistere in altro che nell’analisi di quelle determinazioni e dell’operazione da cui nasce di per sé la soluzione. Queste sembrano le parole di Wittgenstein, che diceva: al temine di una dimostrazione che cosa ho ottenuto esattamente? Ho semplicemente applicato correttamente delle regole che io mi sono poste, nient’altro che questo. A pag. 901, a proposito del conoscere sintetico. Il conoscere analitico è la prima premessa di tutto il sillogismo, – il riferimento immediato del concetto all’oggetto; quindi l’identità è la determinazione ch’esso conosce come sua, ed esso è soltanto il raccogliere quello che è. Il conoscere sintetico va alla comprensione di quello che è, vale a dire ad afferrare la molteplicità delle determinazioni nella loro unità. Qui sta riprendendo, in modo più articolato, quello che diceva fin dall’inizio della Fenomenologia, e cioè che l’immediato, l’in sé, l’analitico, necessita del sintetico, cioè, del per sé, di ciò che esplora e che mette in connessione tutti i vari elementi di cui il primo è fatto. È quindi la seconda premessa del sillogismo in cui vien messo in relazione il diverso come tale. La sua mira è pertanto la necessità in generale. Il per sé è la ragion d’essere dell’in sé, così come il non essere è la ragione dell’essere: l’essere è quello che è perché c’è il non essere. Quindi il conoscere sintetico ha bensì per suo contenuto le determinazioni del concetto, l’oggetto vien bensì posto in quelle; quelle però stanno fra loro soltanto in un rapporto, ossia sono in un’unità immediata, ma appunto perciò non in quella unità per cui il concetto è come soggetto. Qui Hegel fa una riflessione intorno alla differenza tra l’unità, il pensare l’unità di due elementi, che però rimangono separati, e invece il pensare l’unità come integrazione di questi due elementi, che diventano lo stesso. A pag. 906. Ma la definizione, che è il primo concetto non ancora sviluppato, dovendo afferrare la semplice determinatezza dell’oggetto, e questo afferrare dovendo essere un che d’immediato, non può a tale scopo adoperare che una delle immediate cosiddette proprietà dell’oggetto, – una determinazione dell’esistere sensibile ovvero della rappresentazione. In Hegel c’è sempre questo riferimento fra l’astratto, come rappresentazione, e il concreto che non è più una rappresentazione ma una integrazione. È l’astratto a essere una rappresentazione; mi rappresento qualche cosa soltanto a partire dal concreto, lo isolo e, quindi, me lo rappresento. A pag. 907. Il concetto, in quanto è entrato nell’esistere e nell’esteriorità, è spiegato nelle sue differenze e non può essere assolutamente esser legato ad una sola di coteste proprietà. Questo è interessante, anche per quanto riguarda il sillogismo. Dice non può essere assolutamente esser legato ad una sola di coteste proprietà, perché, se ripensiamo al buffo sillogismo di Pietro e Paolo che sono dodici, in questo caso ho preso una determinazione (essere dodici), potrei prendere altre determinazioni, ma la cosa interessante che ci sta dicendo qui Hegel è che in questo modo io astraggo dal concreto, e nel concreto ci sono anche i dodici, non c’è soltanto che Pietro e Paolo sono uomini, sono palestinesi o infinite altre cose, ma c’è anche il fatto che sono dodici. Quindi, se mi attengo al concreto allora Pietro e Paolo sono anche dodici; saranno anche due, ma il fatto di indicarli come due è prendere soltanto una singola determinazione astraendola dal concreto; il concreto, invece, ci dice che sono anche dodici, cioè, fra le tante cose sono anche quello. Quindi, la posizione della logica formale, che indicava in questo sillogismo la validità formale ma la non correttezza semantica – formalmente il sillogismo è valido, semanticamente no, perché si pensa che Pietro e Paolo siano ognuno uno, e uno più uno fa due, ma questa è una determinazione che si ottiene per astrazione dal concreto, perché Pietro e Paolo non sono soltanto questo, sono moltissime cose. Quindi, dicevo, questa posizione della logica formale è discutibile, anche perché quando si entra nel campo della semantica diventa tutto estremamente aleatorio.

Intervento: …

È un apparente paradosso, perché se si considera il concreto, Pietro e Paolo sono anche dodici in quanto Pietro e Paolo sono l’emblema degli apostoli; per essere Pietro e Paolo occorre che ci siano tutti i dodici apostoli, cioè rientrano all’interno di questo essere dodici degli apostoli, per cui sono anche dodici necessariamente, perché se non ci fossero i dodici apostoli non ci sarebbero neanche Pietro e Paolo. È necessario che ci siano i dodici apostoli perché ci siano Pietro e Paolo; questo essere dodici non è che scompare, nel concreto rimane e, quindi, è una delle possibili determinazioni, che non esclude l’altra, ovviamente, ma l’altra non esclude questa. A pag. 909. Il contenuto della definizione è preso in generale dall’esistere immediato, e siccome è immediato, non ha giustificazione. La domanda circa la sua necessità è scartata dall’origine; con ciò che la definizione esprime il concetto come un semplice immediato si rinuncia a concepire il concetto stesso. La definizione non presenta quindi altro che la determinazione formale del concetto in un contenuto dato, senza la riflessione del concetto in se stesso, cioè senza il suo esser per sé. È come se dicesse che la definizione, in fondo, è ingiustificata, perché se non è presa nel concetto, questa non è altro che una rappresentazione di qualche cosa, un’astrazione, un’astrazione che sfugge al concreto. La questione del concreto è importante in Hegel, perché soltanto nel concreto il concetto riflette se stesso e diventa effettivamente quello che è. Tolto il concreto non ci restano che delle astrazioni, astrazioni che non hanno nessuna giustificazione; come dice qui, sono al massimo delle definizioni, ma delle definizioni ingiustificate rette da nulla. A pag. 911. Il magnetismo, l’elettricità, le varie specie di gas, ecc., sono oggetti, la cui conoscenza ottiene la sua determinatezza solo perciò ch’essi vengono compresi come cavati fuori dalle condizioni concrete in cui appaiono nella realtà. L’esperimento li presenta bensì per l’intuizione in un caso concreto, ma da una parte deve, per essere scientifico, prender soltanto a tale scopo le condizioni necessarie, dall’altra parte poi si deve moltiplicare, affin di mostrare come inessenziale il concreto inseparabile di queste condizioni, col far sì che gli oggetti appaiano in un’altra configurazione concreta e poi di nuovo in un’altra, col che rimane per la conoscenza soltanto la loro forma astratta. È quello che abbiamo detto tante volte: la scienza è costretta ad astrarre; se non facesse questo non farebbe niente. Però, ci dice Hegel, facendo questa operazione noi caviam fuori, come dice lui, dal concreto un astratto che non è più quel che volevamo considerare, diventa un’altra cosa. Quello che voglio considerare, l’oggetto preso concretamente, è un qualche cosa che è situato all’interno di un mondo che ha infinite relazioni con infinite cose. Ora, per poterlo prendere in considerazione devo isolarlo da tutte queste altre cose, ma, una volta isolato, non è più quella cosa di prima, è un’altra; che va benissimo, ma non è più quello che volevo interrogare, non è più quella cosa lì. Naturalmente, lui dice giustamente che comunque è inserita in un concreto, ma è un altro concreto, è un’altra scena. Tutto ciò lo si nota bene rispetto al funzionamento del linguaggio. Io dico qualche cosa, questo qualche cosa ha un significato, ma questo significato è altro rispetto a ciò che io ho detto, è diventato un’altra cosa. E aggiunge Hegel: è soltanto perché è diventato un’altra cosa che può essere utilizzato; il fatto che il significato ritorni sul significante fa del significante un altro significante, che non è più quello di prima. A pag. 924. La scienza di tali figure è perciò una semplice scienza del finito, che vien confrontato secondo la grandezza e la cui unità è l’unità esteriore ossia l’uguaglianza. Ma mentre ora in questo figurare si prendono insieme le mosse da lati e principii diversi e sorgono per sé le diverse figure, si mostra pur tuttavia nel confrontarle anche la qualitativa diseguaglianza e incommensurabilità. La geometria vien spinta qui, sopra la finità nella quale procede così regolatamente e sicuramente, all’infinità, – all’equazione di tali che son qualitativamente diversi. Qui cessa la sua evidenza da quel lato secondo cui essa ha d’altronde per base la ferma finità e non ha a che fare col concetto e colla sua manifestazione, cioè con quel passaggio. La scienza finita ha toccato qui il suo limite, poiché la necessità e la mediazione del sintetico è fondata non più soltanto nella identità positiva, ma nella negativa. È un altro modo per dire che quando pongo qualche cosa, l’atto stesso di porre qualche cosa comporta una modificazione del qualche cosa, che non è più quello di prima.

Intervento: …

Checché se ne dica i greci erano molto concreti, cercavano le cose così come sono. È chiaro che poi, quando si è voluto trovare rapporti e misurarli, ci si è trovati di fronte all’incommensurabile, e lì sono incominciati i problemi. Siamo all’idea assoluta, perché tutte queste cose che stiamo dicendo ci stanno portando un po’ alla volta all’idea assoluta, cioè al considerare che ciascuna cosa è in quanto è nell’atto di parola, è un atto di parola. Da qui tutti i problemi della scienza, della fisica, ecc., quando si vuole considerare il qualche cosa e astrarlo dal concreto, cioè dal linguaggio, e si vuole pensare che questa cosa, che io considero, non sia nel linguaggio, che cioè sia identica a sé per virtù propria e che rimanga così fino alla fine dei tempi. Per potere pensare questo, che è quello che necessariamente la scienza deve fare se vuole fare qualcosa, devo pensare quella cosa fuori dal linguaggio. Devo pensarla come astrazione; se la pensassi come concreto, allora non saprei come maneggiarla, non saprei più cosa farne, perché mi scappa da tutte le parti: prendo in considerazione una cosa e mi si affaccia immediatamente quell’altra che la nega, diventa un processo impraticabile. A pag. 935. L’idea assoluta, com’è risultata, è l’identità dell’idea teoretica e dell’idea pratica, ciascuna delle quali per sé ancora unilaterale, ha in sé l’idea stessa, solo come un al di là che si cerca ed una meta non raggiunta – ciascuna quindi è una sintesi del tendere, ha e in pari tempo non ha in sé l’idea, passa dall’uno all’altro, ma non mette assieme i due pensieri, anzi resta nella lor contraddizione. L’idea assoluta, essendo il concetto razionale che nella realtà sua si fonde solo con se stesso, è a cagione di questa immediatezza della sua identità oggettiva da un lato il ritorno alla vita;… La cosa che ci interessa qui è che incomincia a porre la questione, e cioè che cosa accade quando considero un elemento preso nel linguaggio, cioè considero che quell’elemento è quello che è non per virtù propria ma perché il concetto lo pone così. Quando io dico qualche cosa, questo qualche cosa che dico è quello che dico perché non è ciò che non è. Questo non essere ciò che non è è qualche cosa che sorge nel momento in cui io pongo qualcosa: lo faccio esistere, in un certo senso ex nihilo. È questo che Hegel intende quando dice che è il concetto che crea le cose, che crea la realtà, è in questo gesto per cui ciò che dico è quello che è perché non è ciò che non è; questa seconda parte dell’affermazione è ciò che il mio dire produce immediatamente come altro da sé, come un’altra cosa che in quel momento esiste, c’è. A pag. 936. L’idea logica ha così per contenuto se stessa come forma infinita, – la forma, la quale intanto costituisce il contrapposto al contenuto, in quanto questo è la determinazione formale andata in sé e tolta nell’identità, cosicché questa concreta identità sta di contro a quella sviluppata come forma. L’idea logica, dice, ha per contenuto, sì, se stessa ma come forma infinita, cioè come una forma non determinata. L’idea assoluta stessa ha più precisamente per suo contenuto soltanto questo, che la determinazione formale è la sua propria compiuta totalità, il concetto puro. La determinatezza dell’idea e tutto quanto il corso di questa determinatezza ha ora costituito l’oggetto della scienza logica… Scienza logica nell’accezione hegeliana, non in quello della logica formale. …dal qual corso è sorta per sé l’assoluta idea stessa; per sé però essa si è mostrata come questo, che la determinatezza non ha la figura di un contenuto, ma è assolutamente come forma e che per conseguenza l’idea è come l’idea assolutamente universale. Perché è solo forma. Quello che rimane dunque ancora da considerare qui non è un contenuto come tale, ma l’universale della forma del contenuto, – vale a dire il metodo. Il metodo per giungere all’idea assoluta. Questo metodo non sarà nient’altro che il metodo che consente di cogliere l’idea come un qualche cosa che è per se stessa, e cioè non dipende più da altro. A questo punto, è il linguaggio, perché è il linguaggio che non dipende da altro, che non ha in sé dei rinvii all’esterno di sé – all’interno, sì, perché è fatto di rinvii. Per essere quello che è non ha bisogno di altro che lo sostenga. A pag. 937. Quello che pertanto è da considerare qui come metodo è soltanto il movimento del concetto stesso, la cui natura si è già conosciuta, ma primieramente ormai col significato che il concetto è tutto e che il suo movimento è l’attività assoluta universale, il movimento che determina e realizza se stesso. L’idea assoluta è determinata da se stessa, dal suo stesso movimento, che è poi il movimento dialettico. Il metodo dev’essere quindi riconosciuto come la maniera universale senza limitazione, interna ed esterna, e come la forza assolutamente infinita cui nessun oggetto, in quanto si presenti come esteriore, lontano dalla ragione e da lei indipendente, potrebbe oppor resistenza, esser rispetto ad essa di una natura particolare e rifiutarsi ad esser da lei penetrato. … Il metodo è perciò la suprema potenza, o meglio l’unica ed assoluta potenza della ragione non solo, ma anche il suo supremo ed unico istinto, di trovare cioè e conoscere per se stessa se stessa in ogni cosa. Trovare se stessa e il se stessa in ogni cosa, come dire: accorgersi che qualunque cosa non è fuori del linguaggio, che qualunque cosa io incontri è quella che è perché, per dirla con Hegel, è un sillogismo, cioè un movimento di rinvii tale per cui quella cosa mi appare così come mi appare. Se non fosse un sillogismo non apparirebbe nulla. Si ripropone qui la questione del cominciamento: il metodo da dove parte? A pag. 940. Il cominciamento non ha pertanto per il metodo nessun’altra determinatezza che quella di essere il semplice e l’universale; questa appunto è la determinatezza per cui esso è manchevole. L’universalità è il puro, semplice concetto, e il metodo, come coscienza del concetto, sa che l’universalità è soltanto un momento e che in essa il concetto non è ancora determinato in sé e per sé. Ma con questa coscienza, che vorrebbe portare avanti il cominciamento solo a cagione de metodo, questo sarebbe un che di formale, posto nella riflessione esterna. Questo qualcosa che dà il cominciamento è, sì, qualcosa che apparentemente dà l’avvio, ma questo cominciamento non è ancora determinato, si determinerà soltanto a posteriori; quindi, appare come indeterminato, e se è indeterminato non può incominciare nulla. A pag. 942. Il metodo assoluto invece non si conduce come riflessione estrinseca, ma prende il determinato dal suo oggetto stesso, poiché ne è appunto il principio immanente e l’anima. Questo è quel che Platone esigeva dal conoscere, di considerare cioè le cose in sé e per se stesse, da un lato di considerarle nella loro universalità, dall’altro poi di non sviarsi da loro ed attaccarsi a circostanze, esempi e paragoni, ma di avere innanzi a sé unicamente le cose e portare alla coscienza quel che v’è in esse di immanente. Che è poi il progetto di Husserl. Che esso trovi esclusivamente nell’universale del cominciamento l’ulteriore determinazione di esso stesso, ciò deriva dall’assoluta oggettività del concetto, della quale il metodo è la certezza. Si parte dall’oggetto, ma l’oggetto è il concetto. A pag. 945. Così tutti i contrapposti che si ritengono fissi, come p. es. il finito e l’infinito, l’individuo e l’universale, non si trovano già in contraddizione a cagione di un loro collegamento esteriore, ma anzi, secondo che fece vedere la considerazione della loro natura, sono in sé e per se stessi il passare;… Sono una relazione. …la sintesi, e il soggetto in cui appariscono, sono il prodotto della propria riflessione del loro concetto. La considerazione inconcettuale sta ferma al rapporto esteriore di cotesti contrapposti, li isola e li ascia come presupposizioni stabili; ma è invece il concetto, quello che fissa in loro stessi lo sguardo, li muove come loro anima e sprigiona la loro dialettica. Questa è ora appunto la posizione notata dianzi, per cui un Primo universale, considerato in sé e per sé, si mostra come l’altro di se stesso. Il primo diventa primo in un ritorno e, quindi, è un altro rispetto a se stesso. A prenderla in maniera affatto generale, questa determinazione si può intendere nel senso che qui quello che era prima un immediato sia con ciò come un mediato, sia riferito ad un altro, vale a dire che l’universale sia come un particolare. Il secondo, che così è sorto,… È quello che dicevo prima. Il secondo che sorge: io dico qualche cosa; questo qualche cosa si determina in quanto non è ciò che non è. …è pertanto il negativo del primo e, se guardiamo anticipatamente allo sviluppo che verrà poi, è il primo negativo. Cioè, è il primo che si è integrato con il suo negativo. L’immediato, da questo lato negativo, è tramontato nell’altro; l‘altro però non è essenzialmente il vuoto Negativo, il nulla, che si prende come il risultato ordinario della dialettica, ma è l’altro del primo, il negativo dell’immediato; dunque è determinato come il mediato,… Non è più l’immediato come appariva, ma per essere considerato immediato deve essere mediato. …contiene in generale in sé la determinazione del primo. Il primo è pertanto essenzialmente anche conservato e mantenuto nell’altro. Tener fermo il positivo nel suo negativo, il contenuto della presupposizione nel resultato, questo è ciò che vi ha di più importante nel conoscere razionale. Basta insieme la più semplice riflessione per convincersi dell’assoluta verità e necessità di questa esigenza, e per quanto riguarda gli esempi di prove in proposito, l’intiera logica non consiste in altro. A pag. 947 c’è ancora una critica al pensiero formale. Ma il pensare formale si fa una legge dell’identità, lascia che il contenuto contraddittorio che ha davanti a sé ricada nella sfera della rappresentazione,… Se non è integrato rimane una rappresentazione, qualchecosa che io mi immagino. …nello spazio e nel tempo, dove il contradditorio vi è tenuto in una estrinsecità reciproca nell’esser l’uno accanto all’altro e dopo l’altro, e così vien davanti alla coscienza senza il mutuo contatto. Quel pensare si dà quindi il fermo principio che la contraddizione non sia pensabile, mentre nel fatto, invece, il pensamento della contraddizione è il momento essenziale del concetto. Anche il pensiero formale effettivamente la pensa; soltanto torce subito via da essa lo sguardo, e con quel dire non fa che passare dalla contraddizione alla negazione astratta. Toglie subito lo sguardo da questa cosa… il finito non può anche essere infinito, non è previsto. La negatività qui considerata costituisce ora il punto in cui si ha la svolta del movimento del concetto. Essa è il semplice punto del riferimento negativo a sé, l’intimo fonte di ogni attività, di ogni spontaneo movimento della vita e dello spirito, l’anima dialettica che ogni vero possiede in se stesso e per cui soltanto esso è un vero; perocché solo su questa soggettività riposa il togliere dell’opposizione fra concetto e realtà e quell’unità che è la verità. Il riferimento negativo tra il mio dire e tutto ciò che il mio dire non è, la prima negatività: questo, dice Hegel, è il primum movens, è qualcosa che dà l’avvio a tutto. Ma c’è anche il secondo negativo, che consiste nel togliere la prima negazione. Il secondo negativo, il negativo del negativo, al quale siamo giunti, è quel togliere della contraddizione; ma neppur esso, non meglio che la contraddizione, è l’opera di una riflessione esteriore, essendo anzi l‘intimo, più oggettivo momento della vita e dello spirito, per cui viene ad essere un soggetto, una persona, un libero. Cioè: viene a essere qualcosa. La relazione del negativo a se stesso è da riguardarsi come la seconda premessa di tutto il sillogismo. La prima, se si adoprino nella loro opposizione le determinazioni di analitico e sintetico, si può considerare come il momento analitico, in quanto l’immediato vi si riferisce immediatamente al suo altro e quindi passa o meglio è passato in quello,… … La premessa qui esaminata, cioè la seconda, si può determinare come la premessa sintetica, essendo la reazione del distinto come tale al suo distinto. Cioè: la relazione di ciò che il mio dire non è rispetto a ciò che è; la riflessione del distinto sul distinto. Come la prima è il momento dell’universalità e della comunicazione, così la seconda è determinata dall’individualità, che si riferisce dapprima all’altro escludendolo, e come per sé e diversa. Qual mediante appare il negativo, perché racchiude in sé se stesso e l’immediato di cui è la negazione. A pag. 950. Come l’iniziale era l’universale, così il resultato è l’individuo, il concreto, il soggetto; ciò che quello era in sé, questo è ora anche per sé; l’universale è posto nel soggetto. Sono tutte questioni, riprese e articolate, poste già all’inizio della Fenomenologia dello spirito: l’in sé e il per sé. I primi due momenti della triplicità sono i momenti astratti, non veri, che perciò appunto sono dialettici e per mezzo di questa loro negatività si fanno soggetto. Il concetto stesso è, dapprima per noi, tanto l’universale che è in sé quanto il negativo che è per sé come anche il terzo che è in sé e per sé, l’universale che attraversa tutti i momenti del sillogismo; ma il terzo è la conclusione, dove il concetto per mezzo della sua negatività è mediato con se stesso, e così è posto per sé come l’universale e identico dei suoi momenti. Sta dicendo che i primi due momenti della triplicità, cioè del sillogismo, se considerati come astratti non sono veri, sono niente; soltanto se presi nella relazione allora diventano qualcosa. Questo è importante perché tendenzialmente si considera il sillogismo come fatto di tre parti distinte, separate. Il sillogismo è compiuto, come abbiamo visto anche con Mendelson, solo nel momento in cui tutti e tre i momenti del sillogismo si integrano, perché se io ne isolo uno spariscono anche gli altri. A pag. 954. Così avviene che ogni passo del progresso nel determinare ulteriormente, mentre si allontana dal cominciamento indeterminato, è anche un riavvicinamento ad esso, e che perciò quello che dapprima può sembrare diverso, il regressivo fondare il cominciamento, e il progressivo determinarlo ulteriormente, cadon l’uno nell’altro e son lo stesso. Il metodo, che così si attorce in un cerchio, non può però anticipare in uno sviluppo temporale che il cominciamento sia già come tale un derivato;… Qui sembra di leggere Peirce: il cominciamento come un derivato; il primo elemento è già un derivato. Non c’è un primo che non sia un derivato, cioè, un segno che non sia già un segno per un altro segno: non c’è un primo segno in assoluto. …per il cominciamento nella sua immediatezza è sufficiente ch’esso sia una semplice universalità. Questo metodo, dice, si attorce in un cerchio. Sarebbe stato più appropriato dire in una spirale, perché quando ritorna non torna mai al punto di partenza, trova una mutazione, uno spostamento. A pag. 955. In virtù dell’accennata natura del metodo la scienza si presenta come un circolo attorto in sé, nel cui cominciamento, il fondamento semplice, la mediazione ritorce la fine. Detto in altro modo, come dicevamo tempo fa, qualunque cosa si inventi, si crei, ecc., è già qui, è già presente perché è linguaggio. Il linguaggio, nel momento in cui c’è, è già tutto; quindi, è già tutto qui. Con ciò questo circolo è un circolo di circoli; poiché ogni singolo membro, essendo animato dal metodo, è il ripiegamento in sé che, in quanto ritorna nel cominciamento, è insieme il cominciamento di un nuovo membro. Frammenti di questa catena son le singole scienze, ciascuna delle quali ha un prima e un poi, o per parlar più esattamente, ha soltanto il prima, e nel suo concludersi indica appunto il suo poi. Ha soltanto il cominciamento perché è il cominciamento che poi ritorna su se stesso, e determina così un nuovo elemento. Ecco che cosa si trova di fatto: si trova ciò da cui si è partiti, ma spostato. Così dunque anche la logica è tornata, nell’idea assoluta, a questa semplice unità che è il cominciamento suo. La pura immediatezza dell’essere, nel quale dapprima sembra estinta o tralasciata dall’astrazione ogni determinazione, è l’idea che per via della mediazione, ossia del togliere della mediazione, è giunta alla sua corrispondente eguaglianza con sé. Il metodo è il puro concetto che si riferisce soltanto a se stesso; è quindi quel semplice riferimento a sé che è l’essere. Ma ora è anche un essere pieno, il concetto che si concepisce, l’essere come concreta e insieme assolutamente intensiva totalità. Questo è il metodo, cioè, il rendersi conto, possiamo dirla così in modo banale, che ciascuna cosa è un atto di parola; è l’atto di parola che si accorge di se stesso, con tutto ciò che questo comporta, con tutte le implicazioni, connessioni, ecc. La pura idea del conoscere, essendo perciò compresa nella soggettività, è impulso a toglier questa, e la pura verità diventa come ultimo resultato anche il cominciamento di una latra sfera e scienza. Qui occorre soltanto accennare ancora a questo passaggio. Dice che la pura idea del conoscere, essendo compresa nella soggettività, è impulso a togliere questa. Cosa fa lo scienziato? Cerca di essere il meno soggettivo possibile, deve essere oggettivo, quasi a doversi togliere di mezzo. In quanto cioè l’idea si pone come assoluta unità del concetto puro e della sua realtà, e si raccoglie così nell’immediatezza dell’essere, essa è come la totalità in questa forma – Natura. Idea come totalità. L’idea assoluta è il linguaggio, è la totalità nella sua forma, cioè nella forma che di volta in volta assume nell’atto di parola. Ogni atto di parola è tutto. Questa determinazione non è però un essere divenuto e un passaggio, a quel modo che, come si è visto, il concetto soggettivo nella totalità sua divenuta oggettività e così anche lo scopo soggettivo diventa vita. La pura idea, i cui la determinatezza o realtà del concetto è essa stessa elevata a concetto, è anzi assoluta liberazione, per la quale non v’è più alcuna determinazione immediata che non sia in pari tempo una determinazione posta e il concetto; in questa libertà non ha quindi luogo alcun passaggio; il semplice essere si determina, le resta perfettamente trasparente, ed è il concetto che nella sua determinazione rimane presso se stesso. Come dire che il linguaggio, in quanto tale, non ha più nessuna connessione estrinseca, ma è tutto in sé. Il passare è dunque anzi da intendere qui in questo modo, che l’idea si affranca da se stessa, assolutamente sicura di sé e riposando in sé. Diventa assolutamente libera. Infatti, l’unica libertà alla quale si potrebbe pensare è quella del linguaggio, che non ha nessun vincolo fuori di sé. A cagione di questa libertà la forma della sua determinatezza è anch’essa assolutamente libera, – l’esteriorità dello spazio e del tempo che è assolutamente per se stessa senza soggettività. In quanto questa esteriorità è e vien colta dalla coscienza solo secondo l’astratta immediatezza dell’essere,… Qui Hegel è fine. Sta dicendo che possiamo cogliere la questione soltanto attraverso un’astratta immediatezza dell’essere; non abbiamo un altro modo. …è come semplice oggettività e vita esteriore. Vita esteriore, cioè, la vita di ciascuno, che non è altro che un’astrazione dal linguaggio. Non posso non astrarla se la voglio prendere in considerazione. Questa prima decisione della pura idea, di determinarsi quale idea esteriore, pone a sé però, con ciò, soltanto la mediazione dalla quale il concetto si innalza come libera esistenza andata in sé dall’esteriorità, compie nella scienza dello spirito la sua liberazione di per sé e trova il supremo concetto di sé nella scienza logica come puro concetto che comprende se stesso. E con questo abbiamo finito la Scienza della logica. In queste ultime righe c’è veramente tutto. Dice scienza logica come puro concetto che comprende se stesso: sa di che cosa è fatto, sa come funziona, sa di essere linguaggio e sa come funziona il linguaggio. Poi, certo, c’è anche il fatto che si fanno continuamente astrazioni, ma queste astrazioni non tolgono l’intero, non tolgono il concreto, tant’è, come abbiamo detto altre volte, quando astraggo qualche cosa la astraggo per inserirla in un altro concreto, in un altro mondo, direbbe Heidegger, soltanto nel quale può esistere, perché non esiste senza il mondo, senza il tutto, il concreto.