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26 luglio 2023

 

I concetti fondamentali della filosofia aristotelica di M. Heidegger

 

Siamo a pag. 334. Altrove Aristotele definisce le categorie ἒσχατa κατηγορούμενα, ciò che è “estremo” nel senso di “ultimo”. Se indago un ente fino all’ultimo, fino al suo essere, a ciò che esso propriamente è, allora pervengo alle categorie – categorie che, per la precisione, sono έπί τν άτόμον (ειδῶν):… Sono qualcosa che riguarda l’indivisibile. L’εἶδος, la forma, è indivisibile. …l’εἶδος inteso come ciò su cui non si può passare sopra, ciò che non è risolvibile in parole, l’εἶδος contro cui il λόγος in quanto διαίρεσις (divisione) va a cozzare, dove il parlare naturale con il mondo è primario, sicché l’εἶδος stesso non si dissolve più in un “in quanto”, in definitiva l’εἶδος che, per così dire, oppone resistenza alla διαίρεσις. Cioè, la forma che oppone resistenza alla divisibilità. Il presentarsi con un determinato aspetto non può dissolversi nel λόγος se quest’ultimo vuole in genere avere-lì ancora qualcosa. Badate bene a cosa sta per dire. L’άτόμον εἶδος così concepito altro non significa che il “Ci” più immediato dell’aspetto del mondo, le cose di cui mi servo, ούσίαι. Se, per così dire, desidero dissolvere ulteriormente il presentarsi con un determinato aspetto di una sedia o di un tavolo, allora non ho più l’ente che primariamente “ci” è, la sedia, ma un pezzo di legno. Avete presente il discorso di Severino intorno alla lampada che è sul tavolo? Se io voglio considerare attentamente la lampada che è sul tavolo, allora la lampada non è più quella lampada che è sul tavolo ma è quell’aggeggio che serve per fare luce e fatto di un certo materiale.

Intervento: È il dileguarsi.

Esatto. È questo che sta dicendo quando dice che il λόγος urta contro qualcosa contro cui non può nulla: non può nulla contro il dileguarsi di ciò che il λόγος stesso ha posto: ponendolo si dilegua, come diceva Eraclito.

Intervento: …

È l’idea stessa della divisibilità. Qualcosa è divisibile, matematizzabile, solo se si pone come un’altra cosa. Pensate a Zenone. Il movimento, se io lo voglio calcolare non ho più il movimento, ma ho dei puntini in una serie.

Intervento: …

Εν πάντα εἰναι, diceva Eraclito. Non il tutto, come ci ha fatto notare Heidegger in modo accurato e intelligente. Πάντα è plurale, non è πάντον, e πάντα è tutte le cose, cioè, l’uno è i molti. Aristotele definisce inoltre le categorie πτώσεις (mutazioni), il casus latino, che però ha un significato ristretto. Πτώσις, invece, significa in termini più ampi ogni modificazione linguistica e ogni mutamento semantico. Le κατηγορίαι sono le πτώσεις in senso assoluto, le variazioni primarie del parlare nel mondo. Le categorie sono le variazioni con cui si parla. Categorie: la sostanza, la quantità, la qualità, ecc. Dal De anima (A 1) emerge che per Aristotele le categorie non sono semplicemente schemi fissi, che di per sé sarebbero già esentati da qualsiasi indagine, poiché esse si limitano a indicare, per così dire, uno dei caratteri più immediati dell’essere dell’ente che “ci” è. Sono quindi indicatori, che cioè indicano il modo in cui si sta dicendo. Gli indicatori sono ciò che i linguisti chiamerebbero operatori deittici. Cos’è un operatore deittico? Se indico con il dito Cesare, ecco, questo dito è un operatore deittico. Riguardo al tema del Dea anima, la ψυχή: per rispondere alla domanda che la concerne ci si potrebbe semplicemente richiamare alle categorie, approfondendo l’interrogazione in base al loro filo conduttore. Per intendere la ψυχή, ci sta dicendo, occorre riflettere sulle categorie. Il che è singolare se si considera soprattutto come è stata intesa la ψυχή. La ψυχή per i greci era un’altra cosa, è l’uomo in quanto capace di agire, di muoversi, di fare. Heidegger faceva l’esempio di uno che è capace di leggere un giornale, che quindi ha abilità, è in condizione di capire, di leggere, di fare delle cose. Ma questo non porta a nulla. Qui si tratta piuttosto di intendere le categorie stesse come un indicare, cogliendo il fenomeno indicato a partire da esso stesso nell’autenticità del suo essere. Bisogna cogliere questa cosa che le categorie indicano nella sua autenticità, cioè, chiedersi che cos’è. Enti come il tavolo e la sedia sottostanno alla categoria del τόδε τί (questo qui). Con ciò tuttavia non è ancora detto che l’essere della ψυχή e l’essere del tavolo siano la stessa cosa. Ora, queste categorie… Le categorie non sono altro che i modi in cui le cose si dicono. Perché le cose si dicono in un certo modo? Lo ha spiegato bene nei capitoli precedenti: per via del πάθος, delle emozioni, sono queste che decidono il modo in cui parlerò. Il πάθος, l’emozione, non è altro che soddisfazione e insoddisfazione, quindi, volontà di potenza. Ora, queste categorie dovrebbero fornire un filo conduttore per la successiva caratterizzazione della κίνησις (movimento), nel senso più specifico che sono quattro di esse a determinare il numero dei possibili movimenti. Ciò significa: vi sono solo movimenti che si riferiscono al τόδε τί (questo qui), al ποιόν (qualità), al ποσόν (quantità) e al κατά τόπον (luogo). Dice infatti Aristotele: “Non vi è però un movimento al di fuori delle cose… Questo era contro Platone: non c’è l’idea del movimento, il movimento è nelle cose. Infatti, perché vi sia cambiamento è indispensabile la cosa che cambia, o per sostanza o per quantità o per qualità o per luogo, né, come noi abbiamo detto, si può trovare alcunché di comune alle cose soggette al cambiamento, senza che esso sia né essenza determinata né quantità, ecc. Questa definizione non è arbitraria… Cioè, che il movimento appartiene alle cose. …giacché egli giustifica il numero delle diverse modalità di movimento in Fisica Ε 1, rinviando, in tale giustificazione, all’έπαγωγή (induzione). Il numero delle modalità di movimento lo traiamo per induzione. Le diverse modalità dell’essere-mosso non si possono dedurre tramite l’άπόδειξιξ (deduzione/dimostrazione), ma bisogna attenersi piuttosto all’esserci del mondo. /…/ Il διχῶς (duplicità) delle categorie. Ciascuna delle categorie ύπάρχει διχῶς, “sussiste in duplice modo”: l’essere delle categorie, ogni categoria in quanto modo dell’esserci del mondo… In che modo ci sono le cose? Nel modo delle categorie, cioè, nel modo in cui si dicono. Come sono le cose? Come le diciamo, non c’è un altro modo. …dell’incontro con il mondo, intende, implica in sé un διχῶς. Un ente che “ci” è, che caratterizzo nel suo essere in quanto “questo qui”, e che mi si fa incontro in se stesso – questo ente ha in sé un διχῶς. In quanto così essente-ci, esso è determinato in quanto εἶδος, si presenta con questo e quell’aspetto. Esso tuttavia può anche essere, ed è al tempo stesso, caratterizzato dalla στέρησις (mancanza), da una assenza”: un essere attualmente presente di qualcosa per il cui essere presente è costitutiva un’assenza – assenza nel senso della privazione, del mancare. Questo esserci del senso del mancare è de tutto peculiare e positivo. Se di qualcuno dico: “Mi manca molto, non c’è”, con ciò non intendo affermare che egli non è presente lì davanti, bensì esprimo un modo del tutto determinato del suo esserci per me. Ora, la maggior parte delle cose, nella misura in cui ci sono, non ci sono mai pienamente per me, poiché sono sempre caratterizzate al tempo stesso dall’assenza, dal fatto di “non essere così” come propriamente potrebbero e dovrebbero. È una questione interessante. Sta riprendendo ciò che diceva prima rispetto al linguaggio che incontra qualcosa contro cui va a cozzare, e cioè il fatto che quella cosa che pone dilegua, per cui, ecco la στέρησις, che, potremmo dire che è strutturale al λόγος. L’essere dell’esserci del mondo… L’uomo. …si trattiene nel “più o meno”, le cose sono più o meno in questo o in quel modo. Per quanto riguarda il ποιόν… ποιόν, letteralmente produzione, ma da intendere qui come “il modo in cui qualcosa mi si fa incontro”: λευκόν (bianco) e μέλαν (nero). Le cose, dice, si fanno incontro sempre in questo modo, bianco e nero. Le cose, in quanto colorate, non sono puramente bianche o puramente nere: ciò che contraddistingue il vero e proprio “Ci” è piuttosto l’essere chiaro e scuro, la medietà, che non sta nei punti estremi dell’oscillazione, ma si trattiene nel mezzo dell’oscillazione stessa. La determinazione del διχῶς (duplicità) rientra nelle categorie fondamentali. Questa stessa possibilità è basilare per il movimento. Qui introduce una questione importante: questa duplicità è fondamentale per il movimento. Ne possiamo dedurre che non debbono venire comprese soltanto le categorie basate sull’essere del mondo-ambiente, ma che, al tempo stesso, un ente, nella misura in cui è determinato in quanto διχῶς, così inteso, mostra in sé la possibilità ontologica di essere qualcosa che è nel “da… a…”. Solo perché è la possibilità del “da… a…”, qualcosa come un mutamento repentino, tale ente può essere in movimento. Vale a dire, soltanto perché c’è relazione. Comincia a dire che il movimento non è altro che relazione. Il fatto che in questo importante passaggio della preparazione della definizione del movimento Aristotele sottolinei che nelle categorie stesse, conformemente alla loro struttura, è intesa una duplicità ci fa vedere che l’ente stesso viene concepito, nel suo poter essere, in “da… a…”, e cioè secondo le quattro possibilità del τόδε τί (questo qui), del ποιόν (qualità), del ποσόν (quantità) e del κατά τόπον (luogo). Nel libro V, capitolo 1, egli spiega il “da… a…” Il “da… a…” è la relazione, potremmo dire linguisticamente, il rinvio, il rinviare di ciascun elemento a un altro. …l’essere dello ύποκείμενονύποκείμενον letteralmente si traduce con soggiacenza. I latini lo tradussero con subjectum. Heidegger non ha tradotto ύποκείμενον con soggetto, per lui è il ciò di cui si sta parlando. …non nel senso di una ontologia metafisica, poiché lo ύποκείμενον è, piuttosto, ciò che diviene visibile nell’asserzione, non è la “sostanza”… Io parlo e parlando qualcosa mi diviene visibile. Se io parlo del tavolo, immediatamente voi avete presente il tavolo. …l’essere dello ύποκείμενον è attinto dal λόγος: il δηλοῡμενον (apparire) nella κατάφασις (affermare). Le cose appaiono nell’affermare. Io affermo qualche cosa e qualche cosa appare. Tenete conto che sono cose dette ventisei secoli fa. Uno ύποκείμενον può mutare repentinamente in un non-ύποκείμενον e viceversa. g) La prima definizione del movimento e la sua illustrazione. In 201 a 9 Aristotele si appresta a un’analisi riassuntiva della determinazione ontologica fondamentale per la preparazione della definizione della κίνησις. Egli si riallaccia alla prima definizione secondo cui un ente, in quanto ente che “ci” è, è presente in modo tale da poter essere qualcosa. È la δύναμις il poter essere qualcosa. Un pezzo di legno può anche essere un cofanetto. Aristotele riprende questa definizione quando dice: “Poiché a proposito di ciascun genere ciò che è in atto è stato distinto da ciò che è in potenza, l’atto di ciò che è in potenza in quanto tale è il movimento”. Vi rendete conto di ciò che sta dicendo? Il movimento non è altro che questo: la relazione tra atto e potenza, cioè tra l’essere qualche cosa in relazione a… e questo qualcosa con cui è in relazione. L’atto di ciò che è in potenza in quanto tale è il movimento. In questo modo egli porta l’analisi nella giusta posizione, richiamando alla mente un ente che è lì presente, caratterizzato in quanto “poter essere qualcosa”, un essere concepito in quanto esser-ci del mondo. Esser-ci: 1. in quanto attualmente lì presente, 2. nel senso dell’essere proveniente da… La determinazione del τέλειον (finito, compiuto) include entrambi i momenti dell’essere: essere lì ed essere proveniente da… Questo è importante perché la determinazione del τέλειον, dice, include entrambi i momenti, della δύναμις e dell’ἐνέργεια. Ma questo τέλειον ci rimanda a έντελέχειᾳ. Vi ricordate quando scompone έντελέχειᾳ in έν τελές ed ἕκειν, qualcosa che è a compimento. Questo stesso esserci, in quanto presente, implica un elemento che finora abbiamo omesso, ma che balza agli occhi: esserci significa esserci-ora. Noi utilizziamo il termine “presente” con una particolare indifferenza, in quanto praesens, il che significa sia “presenza spaziale” sia “ora”, nella misura in cui l’αἴσθησις è sempre nell’ora. Questo libro, per esempio, lo percepisco nel momento in cui lo tocco, non lo percepisco in differita. Un siffatto “essente nel mondo” “ci” è, e, in quanto δύναμις, può essere anche qualcosa di utilizzabile. Δύναμις, “non ancora”, può significare: “è utilizzabile per…”, “trasformabile per…”. Questa è la δύναμις: un utilizzabile per…; non sappiamo ancora per che cosa, però sappiamo che è un utilizzabile. Perché lo sappiamo? Teoricamente non dovremmo saperlo, ma se lo sappiamo è perché questa δύναμις, insieme con l’ἐνέργεια, è già έντελέχειᾳ. Ecco perché lo sappiamo, sennò non potremmo sapere niente. Questo ente che “ci” è in quanto finito e “utilizzabile per…” è caratterizzato, in quanto ente, dal διχῶς. È caratterizzato dalla duplicità, dal due. È il due che consente il movimento: δύναμις ed ἐνέργεια. Per lo più e mediamente esso non è assolutamente bianco o nero, poiché le cose, in quanto lì presenti colorate, ci si fanno invece incontro in quanto più o meno nere o più o meno bianche. Anche una casa, nella quotidianità, “ci” è per lo più in modo tale che le manca qualcosa, è caratterizzata dalla στέρησις. Manca sempre qualcosa. Sì, manca ciò che dilegua, è questo ciò che manca. È dunque a partire da qui che Aristotele determina il movimento. Da che cosa, dunque? Dal fatto che qualcosa, ponendosi, dilegua. Usiamo i termini di de Saussure, per semplificare: un significante, ponendosi, dilegua nel significato. Qui c’è il διχῶς, il due. Il significante, sottraendosi, diventando significato, viene a mancare; non lo posso determinare se non nella sua mancanza, cioè nel suo significato, e il significato non è il significante. Quindi, questi due movimenti, più l’έντελέχειᾳ, comportano sempre la στέρησις, comportano sempre la mancanza. Eraclito, φύσις κρύπτεσθαι φιλεῖ, ciò che appare, apparendo, dilegua. Che è esattamente ciò che dirà de Saussure rispetto al significante: il significante dilegua nel significato, e il significante non c’è più in quanto significante, è diventato significato; il quale significato, per essere detto, pensato, compreso, deve essere significante, cioè deve volgersi verso dei significanti. Se io incomincio a dire dei significati dico in realtà dei significanti, il significato non lo dico mai: ecco un’altra στέρησις, un altro dileguare. Il linguaggio funziona così, con una στέρησις, con un dileguare continuo di ciò che si pone, ma qualcosa deve porsi, perché se non si pone nemmeno può dileguare. Infatti, è ponendosi che dilegua. “Il movimento è l’έντελέχειᾳ, il presente dell’ente che “ci” è in quanto presente del “potente-esserci”,… Potente-esserci è la δύναμις. …e precisamente il presente nella misura in cui tale “potente-esserci” ci può essere”. Qui non la cita ma è presente anche l’ἐνέργεια. Il potente-esserci, ciò che può essere, diventa un qualche cosa con l’ἐνέργεια, l’atto. Ma questo atto è tale perché c’è qualcosa che gli consente di poter essere atto, cioè, la δύναμις, che consente all’ἐνέργεια di essere ἐνέργεια. Questi due termini si coappartengono e la coappartenenza è l’έντελέχειᾳ, così come per Hegel era l’Aufhebung. Il movimento è il presente del poter-esserci in quanto tale. Il poter-esserci, che si è sviluppato nell’ἐνέργεια, nell’atto, e che può effettivamente essere. Il legno può essere un cofanetto, ora anzitutto semplicemente opinato. Il poter-essere del legno opina il poter-essere cofanetto. Nella misura i cui “ci” è, il legno è in movimento. Nella misura in cui è utilizzabile per qualcosa. Questo perché il movimento è sempre connesso con l’utilizzabile. Qualcosa è in quanto utilizzabile; se non è utilizzabile, praticamente non è. Ogni cosa che interviene è utilizzabile, non nel senso del cacciavite come utilizzabile, ma della parola, è la parola che è utilizzabile per altre parole, e quindi deve essere finita, deve essere έντελέχειᾳ per potere essere utilizzabile. Quando il falegname ce l’ha in lavorazione, il legno “ci” è nel suo poter-essere. Il poter-essere è attualmente presente nell’“essere in lavorazione”, nella misura in cui il falegname ce l’ha sottomano. È per questo che Aristotele, in ciò che segue, può definire il movimento anche in quanto ἐνέργεια. Intesa come un modo dell’esserci, l’ἐνέργεια non significa che l’“essere in lavorazione”… L’ἐνέργεια è l’essere in lavorazione per qualche cosa, per essere utilizzato. Ma per potere essere utilizzato occorre che questa cosa, che è in lavorazione, possa essere questa cosa che è in lavorazione, cioè occorre la δύναμις. In quanto cosa essente giacente-davanti, il legno “ci” è, ed è nel contempo utilizzabile per un cofanetto. Esser-ci in quanto legno ed “essere utilizzabile per…” non sono la stessa cosa. Inoltre, l’utilizzabilità stessa, in quanto carattere ontologico dell’ente che “ci” è, non lo caratterizza ancora in quanto trovantesi in movimento. Qui fa qualcosa che nella tragedia antica si chiamava catastasi, che è quel momento di sospensione della tragedia che rallenta il procedere della tragedia stessa e crea quell’effetto di attesa rispetto alla catastrofe finale. La catastasi è questo momento di attesa, di sospensione, in cui si aumenta la tensione. È una tecnica molto utilizzata oggi nel cinema. Se ne potrebbe dedurre che la definizione dell’esserci dell’essere del mondo in quanto significatività qui propriamente non funziona, nella misura in cui, a ben vedere, l’utilizzabilità “ci” è solo se e quando il legno è in lavorazione. Si tratta però di un errore. Un’analisi più approfondita ci consente di comprendere che ci imbattiamo qui in un elemento del carattere ontologico dell’esserci cui non si presta attenzione: quando il falegname ha lasciato la sua bottega e il cofanetto iniziato se ne sta lì, è vero che il legno non è lì presente in movimento, però non se ne sta nemmeno lì come prima della lavorazione, non è cioè meramente δύναμει nel primo senso, bensì è lì presente in quiete. La quiete è solo un caso limite del movimento. Può essere in quiete soltanto qualcosa che implica di per sé la determinazione ontologica di essere – o di poter essere – in movimento. Molte cose del mondo – la maggior parte di quelle con cui abbiamo a che fare – ci si fanno incontro per lo più in stato di quiete. Non mi sembra che questo elemento della quiete sia mai stato tenuto nella dovuta considerazione. Invece, non si può assolutamente comprendere l’essere dell’ente se non si tiene conto 1. della medietà dell’esserci del mondo… Di ciò che accade per lo più. e 2. del carattere dell’essere per lo più lì presente in stato di quiete. La quiete è un carattere fondamentale dell’esserci del mondo in cui mi muovo – essa è solo una determinata άκίνησία (non movimento). Non ogni άκίνησία è già ήρεμία (quiete). Una figura geometrica, il cui essere è caratterizzato dall’άκίνησία non è in quiete, poiché non può muoversi. La quiete è un’άκίνησία del tutto particolare. Asserire la quiete ha senso solo nel caso di un ente che si può muovere. Qui verrebbe da fare una postilla. La figura geometrica non si muove perché è un’idea platonica, che se ne sta lassù, immobile, ed è per questo che non si muove, non si muove perché, in fondo, io ho deciso che non si muove. Questi fenomeni sono stati trascurati nell’interpretazione corrente, cioè nell’interpretazione di ciò che qui Aristotele interpreta come movimento: movimento da intendersi in quanto modalità eccellente dell’“essere attualmente presente” di un ente che compare nel mondo. Con semplici concetti verbali come “realtà” e “irrealtà” non si ha alcuna possibilità di accedere al movimento. A pag. 341. Passiamo al capitolo 2: distinzione per la chiarificazione dell’έντελέχειᾳ e della δύναμις. De anima B 7: definizione del colore semplicemente come όρατόν, “ciò che diviene accessibile mediante la vista”. Il colore è ciò che ha in sé la costituzione ontologica di essere percepito solo tramite lo sguardo. Come il colore può essere attualmente presente in quanto colore solo tramite il διαφανές (trasparenza), così la luce – la luce del sole – è definita in quanto ἐνέργεια τοῦ διαφανοῦς διαφανές (atto del traslucere di qualche cosa). L’ἐνέργεια è definita παρουσία (mostrare), l’oscurità è definita στέρησις (mancanza), assenza di luce, che può essere compresa anch’essa soltanto in base alla presenza del trasparente. Benché il χρῶμα (colore) vada concepito come όρατόν, “essere colore” e “poter essere visto” non sono la stessa cosa. Questo serve a vedere come si muove Aristotele. Sta ponendo delle questioni che apparentemente non c’entrano niente con il movimento – cosa a che fare il colore con il movimento? – e, invece, lui ci sta parlando del movimento, nel senso che anche il colore si muove. Infatti, il colore può essere percepito solo nel movimento, come dice lui, nello sguardo, nel volgersi verso qualche cosa. Nel capitolo 2 Aristotele offre in un certo senso una conferma di ciò che ha proposto come definizione nel capitolo 1. A pag. 342. L’essere in base a cui gli antichi volevano definire il movimento è la έτερότης, l’“essere altro”, l’άνισότης, l’“essere ineguale”, il μή ὅν, il “non essere” – formalizzazione determinata e crescente. Ci si chiede perché gli antichi abbiano postulato proprio questa definizione del movimento. Il movimento stesso si mostra come qualcosa che “non è determinabile, delimitabile”: è άόριστον (indeterminabile). Si domanda: perché? Che cosa hanno visto nel movimento per risolversi a spiegarlo in questo modo? Si pone l’ulteriore questione: da che cosa dipende, propriamente, che il movimento si mostri in quanto άόριστον (indeterminato)? Aristotele tratta del fatto che per lo più ciò che muove è anch’esso in movimento. La conclusione non è chiara. Abbiamo qui, però, un rimando. A pag. 406. Fisica Γ 2. Tema: considerato unitariamente 1. “in base a ciò che gli interpreti precedenti hanno stabilito nella discussione”, nel senso che2. “non facile da spiegare altrimenti”. In quale γένος (ceppo, origine) lo hanno posto? Che nome ontologico hanno adottato? Caratteri ontologici: “essere altro”, “essere ineguale”, “non essere”. “Aιτιον nel fenomeno della κίνησις per questa provenienza ontologica: άόριστον, dunque, conformemente a ciò, le άρχαι (έτέρα συστοιχία (mettere insieme cose diverse)). “Anche ciò che muove è in movimento”, però soltanto ciò che è esso stesso un alcunché di “mobile”, qualcosa che può essere mosso. “Mobile”: ciò che talvolta non è in movimento e la cui άκίνησία è “quiete”; il che significa: il “non essere in movimento” è determinato, non è cioè uno stare assolutamente al difuori del “poter essere mosso”. Non è al di fuori, cioè, della δύναμις. A pag. 409. Ciò che nel suo essere è determinato dall’“essere altro”, dall’“essere ineguale” e dal “non essere”, non è determinato in quanto “essere in movimento”. Non c’è quindi motivo che lo si definisca ente-mosso. Viceversa, il movimento va spiegato in modo tale da determinarlo in quanto “come” di un ente – un ente che, visto in questa determinazione, è colto in quanto ente-mosso. Per Aristotele è il come di qualche cosa che implica il movimento. In pratica, sono le categorie, sono queste che indicano il modo del movimento di questo ente, che non è fermo, perché si dice in tanti modi. Perché queste άρχαι? Qual è il motivo (statico) di questa concezione categoriale? Movimento in alcunché di immobile! Che cos’è, fenomenicamente inteso, il συνεχές (continuo)? Lo statico di quella determinazione sembra cogliere questo dato fenomenico. Nessuna di tali άρχαι determina un ente nel senso delle categorie (si tratta soltanto di determinazioni ontologico-formali), e la κίνησις non è un ente obiettivamente determinato (obiezione fondamentale contro Platone). Ci si può dunque rivolgere all’essere-mosso in quanto mosso, “avente parte del movimento”, – si può cioè voler definire il movimento in base a una κοινωνία, eppure sbagliare tutto! In Aristotele, al contrario, le categorie costituiscono il filo conduttore dell’analisi ontologica dell’ente-mosso, il che significa: esperire concretamente l’ente che “ci” è in quanto tale. La spiegazione dei movimenti non è in antitesi, bensì una questione del corretto “vedere” originario. εἶδος οϊσεται: avere per conseguenza un “aspetto”, un “presentarsi con un determinato aspetto”, a seconda delle categorie – chiaramente la predisponibilità del movimento. A pag. 410. Pervenire nel “Ci” e svanire da esso in quanto “come” dell’esserci stesso… Le categorie sono lo svanire dell’ούσία, cioè, il qualcosa svanisce in queste categorie. Qui lo dice chiaramente: svanire da esso in quanto “come” dell’esserci stesso: γένεσιςφθορά (deperimento, distruzione)… Movimento, άόριστον: “Esserci”, essere nel proprio luogo, stabilmente finito nei limiti. Se stabilisco dei limiti, il movimento si arresta, non ce l’ho più. L’essere è essere nei propri limiti, l’essere è qualche cosa che è in un luogo. L’esserci, per esempio Cesare, è qui in un luogo preciso, determinato. Il movimento, invece, è άόριστον, è indeterminato, e se io stabilisco dei limiti per determinarlo non è più movimento. Per poter essere concepito nel suo “non essere stabilmente nel suo luogo”, in quanto cambiamento di luogo, mutamento, esso dev’essere descritto nelle categorie della indeterminatezza. Questo era il problema di Zenone: se voglio determinare il movimento devo arrestarlo, non c’è niente da fare, vale a dire: il movimento non è determinabile. Zenone lo aveva capito benissimo: la freccia sta ferma. A modo suo anche Severino dice la stessa cosa quando parla dell’eterno, per cui ogni elemento è eterno. È eterno perché non posso non vederlo se non come fisso, come fermo, come eterno, come qualcosa che “ci” è in modo determinato: se lo determino lo fermo. Quindi, ogni elemento, se lo determino, quindi, lo penso, lo dico, è eterno. Questo essente, dice Severino, è quello che è in quanto è fermato, solo così è eterno, e noi abbiamo a che fare solo con eterni. Qui, naturalmente, sorge un problema, perché lui compie un’operazione pericolosa. Interpretando Parmenide, separa il movimento, dice che l’essere è l’unica cosa che c’è, mentre il non essere, cioè il movimento, il divenire, non c’è. Però, se non c’è l’uno non c’è nemmeno quell’altro. È questa l’obiezione più grave che può muoversi a Severino, e cioè l’avere separato l’ente dall’essere o, come dice lui, il concreto dall’astratto. È questa separazione che crea i problemi e, infatti, gli crea dei problemi. Anche Aristotele, se avesse tenuto separati δύναμις ed ἐνέργεια, si sarebbe trovato di fronte a dei problemi. Come fa il poter essere di qualche cosa diventare qualche cosa? Perché il qualche cosa, che il potere essere diventa, diventando qualcosa è simultaneo, coappartiene al poter essere. Non sono due cose distaccate, non c’è prima l’una e poi l’altra, si coappartengono necessariamente. A pag. 342. Precisiamo più nel dettaglio l’analisi svolta nel capitolo 2. Ciò che è stato spiegato tramite le precedenti determinazioni categoriali di έτερότης (alterità), άνισότης (non uguaglianza), μή ὅν (non essere) definisce un ente che, in base a tali determinazioni, in senso proprio non è necessariamente in movimento: un ente definito tramite l’essere-altro può in verità essere un ente-mosso, però le asserzioni ἕτερον, άνισον, μή ὅν, in quanto tali, non determinano l’ente dal punto di vista del suo essere in movimento. Nella definizione bisogna mettere in risalto quei caratteri ontologici che sono in grado di determinare l’ente che intendono come un ente che deve necessariamente essere colto in tali caratteri in quanto trovantesi in movimento. Έτερότης e άνισότης non soddisfano questa definizione. Vedete come fa Aristotele: mette una tesi e poi l’antitesi. Molti enti che ci si fanno incontro nel mondo ci sono dati come altri, ma non per questo sono in movimento. Io stesso sono un ἕτερον, un “altro” rispetto a un cane – ma tramite questo essere- ἕτερον non sono necessariamente in movimento. Inoltre, il numero 10 è ineguale al numero 5 – tuttavia questo essere-ineguali non significa che essi siano in movimento o che tra di essi sussista un movimento. Ora, si potrebbe dire: la έτερότης (alterità) non è intesa così, anzi viene concepita come una determinazione dell’ente stesso, sicché l’essere-altro è implicito nell’ente come tale, nel senso che un ente ha in sé la possibilità di essere “da… a…”, cioè di essere caratterizzato in riferimento a una determinazione tramite l’assenza di questa stessa determinazione. Questo ente, che ha in sé la possibilità di essere la relazione, cioè di essere caratterizzato in riferimento a una determinazione tramite l’assenza di questa stessa determinazione. Per determinare A devo dire che A non è non-A; quindi, questa A è un’altra cosa. Anche nel cosiddetto principio di identità, A=A, perché ho bisogno della seconda A per determinare la prima? Cosa accade in questo movimento, potremmo dire, che dalla prima A passa alla seconda A, la seconda poi torna alla prima facendola esistere? È accaduto che proprio questo movimento, cioè questa alterità che è intervenuta nell’uguaglianza, che determina l’esistenza, oltre che l’essenza, della prima A, questo movimento è necessario per determinare la prima A. La seconda A, che non è la prima, ci dice che per determinare la A occorre qualcosa che non è la prima A, è un’altra cosa, è la seconda. Diceva bene Peano: nel principio di identità, A=A, c’è già una differenza, perché la prima A è in prima posizione, la seconda A è in seconda posizione, mentre l’uguaglianza dovrebbe prevedere la presenza di tutte le caratteristiche simultaneamente in entrambi. Ma questo non si può verificare perché, per esempio, una A sta a sinistra e l’altra a destra, e questa è già una differenza, quindi, non c’è uguaglianza. Ecco il concetto di στέρησις, è questo più propriamente, è questa la mancanza, e cioè il fatto di passare dall’uno all’altro, mentre passo dalla prima A alla seconda, la prima dilegua e la seconda, stabilendo, confermando la prima, dilegua, per cui in teoria non ho più né la prima né la seconda.