26 luglio 2017
M. Heidegger, Essere e Tempo
Le ultime battute di questa sezione sono sulla realtà e, quindi, sulla verità. Quando si parla di realtà è inevitabile che si giunga alla verità. Siamo a pag. 253, punto b – La realtà come problema ontologico. Se l’espressione “realtà” significa, come infatti significa, l’essere dell’ente (res) semplicemente-presente dentro il mondo, l’analisi di questo modo di essere dovrà attenersi al seguente principio: l’ente che è dentro il mondo, l’ente intramondano, è determinabile ontologicamente solo se è stato chiarito il fenomeno della intramondanità. Ma quest’ultima si fonda nel fenomeno del mondo, il quale, da parte sua, in quanto momento essenziale della struttura dell’essere-nel-mondo, rientra nella costituzione fondamentale dell’Esserci. (pagg. 253-254) Questo è forse il punto più importante di queste pagine. Heidegger ci sta dicendo che se la realtà è posta così come è comunemente intesa, come un ente del mondo, un ente intramondano, allora dobbiamo intendere che cosa diciamo quando parliamo di intramondanità. Ma, per parlare di intramondanità, occorre sapere di che cosa parliamo quando parliamo di mondo e quando parliamo di mondo, ci dice, teniamo conto della struttura dell’essere nel mondo e ciò che è nel mondo, per Heidegger, è l’Esserci. Quindi, per potere dire che qualche cosa è nel mondo è necessario che ci sia l’Esserci o, detto diversamente, soltanto l’Esserci può dire che qualcosa è nel mondo. In effetti, sono soltanto gli umani che possono parlare di realtà, per i quali la realtà esiste, è qualche cosa, per un animale non c’è nessuna realtà. La realtà è un concetto che è stato inventato dagli umani. A che scopo? Per la volontà di potenza: se so che cos’è la realtà so manipolarla, so che cos’è, so come dominarla. Poi, accenna alla realtà come resistenza, come ciò che resiste. Questo tavolo resiste a me, se voglio andare avanti trovo qualcosa che resiste. Questo è uno dei modi di intendere la realtà, come ciò che resiste, ma per potere affermare una cosa del genere devo aver già dato per acquisite una serie notevole di cose. Perché possa darsi questa resistenza, questo resistere della realtà, innanzitutto devo dare per acquisito che ci sia qualcosa, devo sapere cosa significa resistere, devo in un certo senso credere che sia così, occorrono una serie di informazioni che sono quelle che ci fornisce la doxa, l’opinione. Potremmo dire con Wittgenstein che il fatto che qualcosa mi resista, ad esempio questo tavolo, l’ho imparato, mi è stato insegnato che le cose stanno così, cioè, si dice, si pensa che sia così. Se dovessi dimostrare questo, potrebbe essere complicato. Come sappiamo, tornando a Wittgenstein, chi dimostrerà la dimostrazione? Qualunque cosa io dimostri non avrò fatto nient’altro che attenermi scrupolosamente alle regole che ho stabilito, nient’altro, ma l’ultima formula della dimostrazione non dice come stanno le cose, dice soltanto che è corretta, se è corretta, in base alle regole che abbiamo stabilito per procedere nella dimostrazione. L’esame analitico del fenomeno della resistenza è ciò che vi è di positivo nell’opera menzionata… Si riferisce a un’opera di Dilthey. … e fornisce la convalida più soddisfacente dell’idea di una “psicologia descrittiva e analitica”. Ma lo svolgimento fruttuoso dell’analisi del fenomeno della resistenza è compromesso dalla impostazione gnoseologica del problema della realtà. … “La volontà e il suo ostacolo sorgono dentro la medesima coscienza”. Questa affermazione, che dice “La volontà e il suo ostacolo sorgono dentro la medesima coscienza”, per Heidegger costituisce un problema e, infatti dice tutto ciò avrebbe bisogno di una determinazione ontologica. Questa determinazione manca perché Dilthey lascia la “vita”, “oltre” la quale certo non si può risalire, nell’indifferenza ontologica. L’interpretazione ontologica dell’Esserci non può consistere nel ricorso ontico a un altro ente. Per parlare di realtà devo parlare di qualche cosa che resiste, devo, cioè, riferirmi a un altro ente, il quale ente dovrebbe spiegare la questione della realtà ontologicamente, l’essere della realtà. Ma per Heidegger questo sistema è fallato all’origine perché, anziché parlare della realtà ontologicamente come l’essere, Dilthey la pensa come un ente, e questo per Heidegger è un problema, è la metafisica stessa. A pag. 255. L’analisi ontologica dei fondamenti della “vita” non può neppure essere introdotta in un secondo tempo come un’infrastruttura. Essa regge e condiziona l’analisi della realtà e l’esplicazione integrale della resistenza e dei suoi presupposti fenomenici. La resistenza si incontra nel non-poter-passare-attraverso sotto forma di impedimento al voler-passare. Quindi, è qualcosa che impedisce la volontà di potenza. Ma con ciò è già aperto qualcosa a cui tendono impulso e volontà. Se io parlo della realtà come una resistenza, come impedimento, già introduco la volontà di oltrepassare questo impedimento. Perché è un impedimento? Perché io voglio andare oltre, altrimenti non sarebbe un impedimento. L’indeterminatezza ontica di questo a-cui non autorizza a ignorarlo in sede ontologica o addirittura a ridurlo a nulla. L’a-cui è ciò a cui si riferisce la resistenza, si riferisce a un volere superarla. Il tendere-a…, che urta nella resistenza e che solo può “urtare” in essa, esiste come tale rispetto a un totale di appagatività. Come dicevamo prima, è come dire che esiste soltanto in relazione alla volontà di potenza. Ricordate, l’appagatività è il modo in cui l’utilizzabile ha il suo utilizzo. La resistenza è ciò che impedisce l’utilizzabilità di qualche cosa. Tenete conto che l’utilizzabile, per Heidegger, è anche una proposizione. La resistenza caratterizza l’essere dell’ente intramondano. Le esperienze di resistenza determinano unicamente l’ampiezza e la direzione dello scoprimento dell’ente che si incontra dentro il mondo. Il loro sommarsi non conduce però all’apertura del mondo, bensì la presuppone. Lo star “contro” e “di fronte” trovano la loro possibilità ontologica nell’essere-nel-mondo già aperto. Insomma, parlare di realtà ponendo la realtà come ciò che resiste a me, secondo Heidegger presuppone che ci sia già un’apertura del mondo e l’apertura del mondo è il fatto che c’è già un utilizzabile che io voglio utilizzare, cioè, c’è già una volontà di fare qualche cosa. Perché possa darsi questa volontà di fare qualche cosa occorre che intanto ci sia questo qualche cosa e che questo qualche cosa sia utilizzabile e, a sua volta, perché tutto questo possa darsi, dice Heidegger, occorre che ci sia già l’apertura nel mondo. Quindi, nulla può stargli contro, nulla può resistere se non c’è già un’apertura nel mondo, come dire che la realtà non è originaria. La realtà esiste a condizione che ci sia già un’apertura nel mondo. Passiamo a pag. 256, al punto c – Realtà e Cura. “Realtà” è una designazione ontologica dell’ente intramondano. Se è presa come la designazione di questo modo di essere in generale, l’utilizzabilità e la semplice-presenza divengono modi della realtà. Se si lascia invece a questa parola il suo significato tradizionale, essa designa l’essere concepito come la semplice-presenza-della-cosa. Tradizionalmente, la realtà è la semplice presenza di qualcosa. Ma non ogni semplice-presenza è semplice-presenza. La “natura” che ci “circonda” è certamente un ente intramondano, ma non presenta né il modo di essere dell’utilizzabile né quello della semplice-presenza nel senso della “cosa di natura”. In qualunque modo si interpreti l’essere della “natura”, tutti i modi di essere dell’ente intramondano sono fondati ontologicamente nella mondità del mondo e quindi nel fenomeno dell’essere-nel-mondo. Dal che risulta che la realtà non h alcun primato fra i vari modi di essere dell’ente intramondano e non può caratterizzare in modo ontologicamente adeguato né il mondo né l’Esserci. (pagg.256-257) La realtà non è originaria, la realtà si dà unicamente se c’è già un’apertura. Se c’è già questa apertura dell’essere, se c’è già questo orizzonte, che altro non è, come abbiamo visto altre volte, che il significato, allora non c’è realtà prima del linguaggio. Non lo sta dicendo, lo dico io, però, la questione è questa. Che la realtà si fondi ontologicamente nell’essere dell’Esserci, non significa che il reale possa essere ciò che è soltanto se, e fintanto che, esiste l’Esserci. Qui distingue tra realtà e reale. Certamente solo fintanto che l’Esserci è (ist), cioè fintanto che è la possibilità ontica della comprensione dell’essere, “c’è” (gibt es) essere. Sta dicendo che soltanto se c’è l’Esserci, se c’è l’uomo, c’è l‘essere. Perché ci sia l’essere, perché cioè ci sia il significato, questa apertura, perché, in definitiva ci sia linguaggio, occorre che ci sia io. Il problema è che questo io, questo Esserci, in quanto progetto sempre preso nella sua gettatezza, cioè, nelle sue possibilità, non potrebbe essere pensato in assenza di linguaggio. Quindi, o poniamo l’Esserci come un oggetto metafisico, e quindi ritorniamo a porlo come un ente, cancellando la differenza ontologica, oppure l’Esserci, cioè, io in quanto progetto gettato, sono tale per via di quella struttura che chiamiamo linguaggio e che mi consente di pensarmi progettante. È il problema che si riscontra da sempre quando si arriva a un certo punto per cui è come se si dovesse prendere una decisione, cioè, o ciò di cui si sta parlando è posto come un oggetto metafisico, e allora sorgono grossissimi problemi, oppure, per dirla tutta, è un atto di parola, con tutto ciò che questo comporta, e cioè il fatto che questa è una costruzione linguistica determinata da altre costruzioni linguistiche. Anche il problema che lui affronta, certamente importante, della deiezione, della chiacchiera, dell’autenticità, non si sarebbe mai potuto porre in assenza di linguaggio. Questo significa che questo problema, e il modo in cui è posto, è una conseguenza della struttura stessa del linguaggio, cioè, del modo stesso in cui è fatto il linguaggio. Questo potremmo anche intenderlo come il “limite” del pensiero di Heidegger, non solo suo ovviamente, perché quando si arriva alla questione essenziale, così come sta facendo in questa prima sezione intorno all’essere, ci si trova nella necessità di dovere stabilire se questo qualche cosa esiste di per sé oppure no. Certo, per Heidegger l’Esserci è la gettatezza in cui ciascuno si trova, però, per giungere a dire questo, anche lui ha la necessità di dare per acquisito che ci sia un ciascuno, che la gettatezza, di cui lui parla, sia quello che sia, cioè, ha bisogno di un supporto, che è il linguaggio, che utilizza in un certo modo e che, ogni volta che lo utilizza, deve bloccare ogni termine in modo che significhi quello che lui vuole che significhi. Tutto il discorso che lui fa, cioè, l’uomo è questa gettatezza, questa possibilità sempre aperta, e l’essere non è che il trovarsi dell’Esserci sempre in una possibilità, apparentemente ci allontana dalla metafisica, ma c’è qualcosa a cui Heidegger non ha pensato, e qui introduciamo qualcosa che è caro a Heidegger, e cioè che cosa resta ancora da pensare, e cioè immagina un essere fatto in questo modo, un’apertura all’interno della quale avviene questo darsi delle varie possibilità e il trovarsi in queste possibilità è ciò che caratterizza l’Esserci. Tutto questo o lo poniamo come un oggetto metafisico, come dire che le cose stanno così, oppure… Qui ci troviamo in bilico tra due posizioni di Heidegger: l’una che afferma che le cose stanno in quel modo; l’altra, che dice invece che il trovarsi di fronte sempre a delle possibilità è ciò che caratterizza l’Esserci, cioè, io, non è altro che il darsi sempre un’altra possibilità di pensiero, di parola, un’altra apertura. Quando si parla di apertura si parla di apertura di pensiero, cioè, che c’è altro da pensare. Se la questione è posta in questi termini allora, sì, in effetti, potremmo anche seguire questa direzione, però, dovremmo allora porla in questo modo: l’Esserci, l’essere gettati verso infinite possibilità di pensiero, l’essere sempre gettati verso un qualche cosa che è ancora da pensare. Ecco che, allora, posta in questi termini, effettivamente ha un altro interesse e un’altra portata, per cui tutto ciò che Heidegger dice intorno all’Esserci non è tanto lo stabilire che esiste questa cosa e che funziona in questo modo, l’Esserci, l’orizzonte, ecc., ma intravedere una modalità per pensare ancora, per mettere in atto, anche se non è che mi piaccia molto il termine, un superpotenziamento intellettuale. Tutta l’opera di Heidegger è una via che indica per il superpotenziamento intellettuale, cioè, l’Esserci è quell’ente, di cui ne va dell’essere nel suo essere, ma è soprattutto quell’ente di cui ne va della propria possibilità di reperire nuove aperture, nuove cose da pensare. Però, trovare nuove cose da pensare, va benissimo, però tutte queste cose nuove da pensare hanno qualcosa in comune, e cioè la possibilità di essere pensate è data dal linguaggio. In effetti, tutta l’opera di Heidegger, compresa quella dopo la svolta, non è altro che un tentativo enorme, ben congegnato, ma assolutamente pragmatico di partire dalla vita, dalle cose concrete, come diceva Husserl partire dalle cose stesse, dalla vita, dalla Lebenswelt, per compiere un percorso, un’elaborazione che consente di tornare alla vita ma avendo la possibilità, dopo averla intesa, di uscire dalla chiacchiera e pensare ciò che è da pensare. Ciò che è da pensare sono le condizioni che consentono l’esistenza di tutte queste cose. La volta scorsa abbiamo fatto una connessione fra il pensiero di Heidegger e ciò che avviene in un percorso analitico. Anche in un percorso analitico c’è questo aspetto: abbandonare la doxa, le opinioni, soprattutto quelle personali, che sono quelle che pilotano la propria esistenza nel bene e nel male, per incontrare la possibilità, ecco una delle possibilità che si aprono, di intendere questa deiezione, da cui muove ogni cosa, perché si parte dalla doxa, dalla chiacchiera, e in genere ci si rimane, senza accorgersene. L’apertura che lui propone è, invece, intendere fino a che punto tutto ciò che mi determina e mi caratterizza sia opera della chiacchiera e giungere infine a considerare che, essendo tutto costruito sulla chiacchiera, compreso il pensiero di Heidegger, ciascuna cosa trae il suo fondamento dalla chiacchiera e questo ha degli effetti non indifferenti, perché è come dire che è fondato su niente, non ha alcun fondamento possibile. A questo punto, e questo Heidegger lo sa, la domanda che sorge, come avevamo letto qualche volta fa, non è tanto la ricerca del fondamento ma la domanda è perché si cerca il fondamento. Questo è ciò che interessa, non trovare il fondamento, poi, per quanto riguarda il fondamento, ogni trova quello che gli pare, ma il perché bisogna trovare il fondamento, perché c’è questa domanda di fondamento. Ora, la risposta che manca qui, in Essere e tempo, è che la ricerca del fondamento, così come la ricerca della verità, non è altro che funzionale alla volontà di potenza. Se non ci fosse la volontà di potenza, in effetti, non ci sarebbe nessuna necessità di fondamento. Questo procede da ciò che supporta tutta la volontà di potenza, che Nietzsche non ha colto forse perché non aveva gli strumenti, e cioè la struttura stessa del linguaggio: la necessità che un qualche cosa sia affermato, sia quello che è per potere fare il passo successivo. Ma perché sia quello che io devo imporlo, perché non può esserlo, non significa niente: se io dico che questa cosa è questa e mi attengo a questo, che come dire “questa carta che ho in mano è il re di fiori e ogni volta che avrò in mano questa carta sarà un re di fiori e la userò in questo modo. È la stessa cosa. È da questa necessità di imporre a una parola, a una cosa, di essere quello che è per fare il passo successivo, che si supporta quella Nietzsche chiamava la volontà di potenza. Questo è il supremo atto di volontà, volontà di potenza: imporre a una parola, a una cosa, di essere quella che è, perché se non lo faccio non posso fare il passo successivo. La ricerca di un fondamento è la ricerca di qualche cosa che giustifichi in qualche modo il fatto che quella cosa è quella che è. La stessa ricerca dell’essere, da Parmenide in poi, è stato un immenso e straordinario tentativo di trovare un fondamento a questo fatto, che quando parlo devo imporre qualche cosa, però, scarto l’idea che sia io a imporre questa cosa, perché altrimenti non sarebbe una necessità, sarebbe una contingenza, perché sarei io a decidere che qualcosa è così in questo momento e, quindi, non sarebbe utilizzabile per la volontà di potenza. Per essere utilizzabile dalla volontà di potenza io devo mostrare che le cose stanno così, non perché lo dico io ma perché “sono” così. Tutta la ricerca intorno all’essere, dicevo, cioè, ciò che garantisce all’essere di essere quello che è, ha questa funzione: stabilire che le cose stanno così, che l’utilizzabile, una proposizione, una parola, è quello che è, non per una mia decisione ma per virtù propria. Solo allora posso dominare, perché se avessi l’opportunità di considerare che, per usare le parole di Heidegger, l’appagatività di un utilizzabile è determinata unicamente dalla mia volontà, rende questo utilizzabile un qualche cosa che può essere utilizzato anche in un altro modo: a me fa comodo utilizzarlo in questo modo ma lui non è così. È questo il punto. Questo ente non è quello che è se io lo utilizzo di volta in volta come mi pare. Come posso dominarlo se mi sfugge ogni volta? Sono io che debbo fermarlo ma lo fermo arbitrariamente, in modo surrettizio, perché lui non è né così né cosà, né in nessun altro modo. Mi toglie radicalmente e definitivamente ogni possibilità di avere il dominio sulle cose, perché le cose cessano di essere quelle che sono. Qui, certo, Heidegger sta dicendo che la realtà non esiste fuori dal mondo in cui l’Esserci si trova, l’Esserci è il mondo. Possiamo tranquillamente accogliere questa questione; in effetti, dà da pensare che tutto ciò che io ho di fronte non è esente, e qui è Freud, dalle fantasie attraverso e per cui vedo quello che vedo. Quando Heidegger dice che qualunque ente intramondano, cioè qualunque cosa, è quella che è perché è nel mio mondo, nel mondo che io sono, sta dicendo che il modo in cui la vedo, il modo per cui quella cosa è quella che è per me, è determinata dalle mie fantasie, cioè, da tutto ciò che mi ha portato a essere qui in questo momento e a essere quello che sono in questo momento. La questione è interessante perché, a questo punto, si toglie ogni possibilità, intanto, di fondabilità delle cose, ma per togliere questa possibilità di fondabilità delle cose occorre una riflessione sul perché c’è la ricerca di un fondamento, non se il fondamento è vero oppure no, non ha nessun interesse, ma il perché lo si ricerca, a che cosa serve un fondamento? C’è la possibilità, allora, di accorgersi che la ricerca di un fondamento è la ricerca della potenza. Se l’Esserci non esiste, allora non “è” né l’“indipendenza”, né l’“in-sé”. Allora queste espressioni non sono né comprensibili né incomprensibili; e l’ente intramondano non è né scopribile né tale da poter esser-nascosto. Non c’è, semplicemente non esiste se non ci sono io, se non c’è l’Esserci, tutte queste cose non ci sono. Allora non si può dire né che l’ente ci sia né che non ci sia. Invece ora, ossia fintanto che c’è la comprensione dell’essere e quindi la comprensione della semplice-presenza, si può dire che l’ente vi sarà ancora anche allora. Questa dipendenza dell’essere, non dell’ente, dalla comprensione dell’essere… L’essere dipende dalla comprensione dell’essere. Comprensione non senso di capire ma nel senso di trovarsi in questa apertura dell’essere. Solo se c’è apertura dell’essere allora incontro l’essere. …cioè la dipendenza della realtà, non del reale, dalla Cura, preserva l’analitica dell’Esserci dalla tentazione, sempre risorgente nonostante la sua acrisia, di interpretare l’Esserci sul modello dell’idea di realtà. Solo l’orientamento nell’esistenzialità… Quindi, nell’uomo, nell’Esserci. …interpretata in modo ontologico positivo, dà la garanzia che nel corso effettivo dell’analisi della “coscienza” o della “vita” non si assuma a base della ricerca un senso della realtà preso a caso o indifferente. Sta dicendo: badate che quando si parla di realtà bisogna sempre tenere conto che la realtà è un effetto dell’Esserci, senza l’Esserci non c’è nessuna realtà. Poco dopo dice …la sostanza dell’uomo è l’esistenza. La sostanza, quella cosa che è sempre stata cercata, anche da Aristotele, per il quale la sostanza è la prima delle dieci categorie che definiscono l’essere, la sostanzialità, ciò che permane sempre, è l’esistenza, dice Heidegger, è l’uomo, è la sua progettualità, questa è la sostanza. La sostanzialità è l’essere continuamente progettato, è l’essere sempre gettato verso il pensare. Come dicevo, tutto ciò sfocia nella questione della verità. Dopotutto, che cosa garantisce della verità? Paragrafo 44, Esserci, apertura e verità. Pag. 258. Parte da Parmenide, dal primo che posto la questione dell’essere. Che significa qui “indagare sulla verità”, scienza della “verità”? In questa indagine la “verità” sarà forse assunta a tema nel senso delle teorie della conoscenza o del giudizio? Domanda retorica, la risposta è no, ovviamente. Manifestamente no, perché “verità” ha qui lo stesso significato di “cosa”, di “automanifestantesi”. Ma che cosa significa allora il termine “verità” se può essere usato come equivalente a “ente” e a “essere”? Se la verità ha a buon diritto una connessione originaria con l’essere, il problema della verità finisce per cadere nell’ambito della problematica ontologica fondamentale. (pagg. 258-259) Diventa, cioè, un problema ontologico, problema avviato da Parmenide. Qual è la verità per Parmenide? Che l’essere è e non può non essere, e cioè che le cose sono quelle che sono e non possono non essere quelle che sono. Questa è la nozione di verità che, tutto sommato, è funzionante ancora oggi. L’analisi muove dal concetto tradizionale di verità, tentando di chiarirne i fondamenti ontologici. Si chiede: cosa è stato inteso fino ad adesso con verità? Sulla scorta di questi fondamenti, sarà posto in luce il fenomeno originario della verità. In base ad esso si potrà stabilire la provenienza del concetto tradizionale di verità. La ricerca farà vedere che al problema dell’”essenza” della verità è legato necessariamente quello del modo di essere della verità. Contemporaneamente avrà luogo la chiarificazione ontologica del senso dell’affermazione che “la verità c’è”… Come sappiamo che la verità c’è? Anche se questo porterebbe con sé una serie di altre domande non indifferenti. … e del carattere della necessità in base alla quale “presupponiamo necessariamente” che la verità “c’è”. Questa è la questione fondamentale, e cioè il fatto che, secondo lui, si presuppone necessariamente che la verità ci sia, però, questo non ci dice niente di che cosa sia la verità, dice soltanto che presupponiamo che ci sia, ma che cosa esattamente? Poi, fa una critica alla nozione di verità come adeguamento. La verità in questo caso sarebbe l’adeguamento della proposizione a ciò di cui la proposizione parla. La proposizione che afferma che in questo momento Cesare è qui di fronte a me è vera perché in questo momento Cesare è qui di fronte a me. Che è la posizione tarskiana: la neve è bianca se e soltanto se…, ecc. Che cosa garantisce che l’intellectus e la res sono adeguati tra loro? Come la risolve Cartesio? Cosa consente alla res estensa di essere connessa con la res cogitans? Cosa c’è che li unisce? Dio. Se dio fosse un malandrino allora questo fatto scombinerebbe tutta la gnoseologia perché non sapremmo più se ciò che vediamo, ciò che conosciamo, corrisponde oppure no alle cose. Cartesio la risolve così: c’è dio che garantisce. La domanda è legittima: cos’è che garantisce che ciò che vedo è ciò che è? Dio. A pag. 264. Sta parlando della giustificazione, di che cosa giustifica che ciò di cui parlo corrisponda all’oggetto di cui sto parlando. È l’ente in questione a manifestarsi così com’esso è in se stesso, cioè a mostrarsi identico a ciò che di esso è mostrato e scoperto nell’asserzione. Qui incomincia a dire una cosa interessante, cioè, che è il mostrarsi stesso della cosa che viene detto, che la proposizione pronuncia, quindi, non è più cartesianamente che la proposizione dice la cosa correttamente, ma la proposizione dice che questa cosa si sta scoprendo, c’è uno scoprimento di qualche cosa e, in un certo senso, testimonia di questo scoprirsi di qualche cosa. La giustificazione ha a che fare soltanto con lo scoprimento dell’ente stesso, con l’ente nel “come” del suo esser-scoperto. Essa trova la sua verifica nel fatto che l’asserito, cioè l’ente stesso, si manifesta come il medesimo. Come si manifesta quest’aggeggio qui? Così com’è, non si manifesta in un altro modo, si manifesta così com’è. Che un’asserzione sia vera significa: essa scopre l’ente in se stesso: enuncia, mostra, “lascia vedere” l’ente nel suo esser-scoperto. Qui ci introduciamo nella nozione di verità così come la pone Heidegger. La verità non è un asserto corretto che dice come sta una certa cosa ma è piuttosto qualcosa che lascia vedere ciò che si sta scoprendo. Esser-vero (verità) dell’asserzione significa essere-scoprente. È la definizione di alètheia, cioè il non nascosto, quindi, viene in luce, si scopre. La verità non ha quindi la struttura dell’adeguazione del conoscere all’oggetto nel senso dell’assimilazione di un ente (il soggetto) a un altro ente (l’oggetto). Questo cartesianamente, l’oggetto viene assimilato dal soggetto, il quale poi ne farà l’uso che ritiene più opportuno, ma si parte sempre dall’idea che ci sia il soggetto e l’oggetto. Qui non c’è più perché la proposizione vera, che dice la verità, dice che si sta scoprendo qualcosa. A sua volta l’esser-vero nel senso di essere-scoprente è ontologicamente possibile solo sul fondamento dell’essere-nel-mondo. (pag. 265) Qui torniamo al discorso che facevo prima: qualcosa si scopre soltanto se è nel mondo, se è preso nell’Esserci, se è nella mia progettualità. Solo allora può essere scoperto e sta qui la differenza fondamentale tra Heidegger e il pensiero classico, tradizionale, cartesiano. Per Cartesio c’è il soggetto di fronte all’oggetto, che il soggetto esperisce, ma sappiamo che ci vuole dio a garantire che questa percezione sia corretta. Per Heidegger no, dice che questa cosa si scopre se è nel mondo, se rientra nel mio progetto.