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26 luglio 2001

 

Tempo fa dicevamo di uno dei massimi luoghi comuni, quello della realtà. Può essere una via. In effetti, se considerate bene la questione, potete intendere che generalmente una persona sta male, qualunque sia il malanno, perché c’è un qualche cosa nel suo discorso che è considerato straordinariamente reale. Dicevamo qualche tempo che se potesse considerarlo invece come un elemento assolutamente gratuito, prodotto dal suo discorso, non ci sarebbero questi effetti devastanti. Pare che qualche cosa abbia tali effetti quando è pensato essere reale, cioè fuori del linguaggio; è a questo punto che sorgono i problemi, dai problemi teorici ai problemi psichici, a problemi di qualunque sorta. Il porre qualcosa fuori del linguaggio comporta nell’elaborazione teorica l’insorgere di paradossi insolubili. Anche nel discorso di una persona, ma questi paradossi sono intesi come tali, intesi come problemi insolubili, problemi che comportano disagio, malesseri di qualunque genere.

La realtà non è niente altro che ciò che ciascuno ritiene tale, ovviamente, non è che sia definibile in qualche modo particolare o di qualche interesse. La realtà è generalmente intesa come ciò che cade sotto i sensi, però di fatto la realtà è ciò che ciascuno ritiene che sia e cioè il cosiddetto mondo che lo circonda. Ora, la volta scorsa abbiamo inteso porre questo obiettivo, che un a persona giunga a potere pensare e quindi a non avere più paura, a non avere più bisogno, diciamo così, di credere. La realtà è uno dei pilastri di questa struttura di pensiero religioso. Potremmo dire che è il discorso religioso per eccellenza, quello che pone la realtà fuori del linguaggio. Nel momento in cui si pone la realtà fuori del linguaggio incominciano i guai, i problemi di qualunque tipo. Sta lì la genesi dei  malanni, come dicevo prima di qualunque tipo, da quelli teorici a quelli psichici. Questione non marginale. Tuttavia, molte persone sono disponibili a pensare che ciascuno possa modificare o modifichi in qualche modo la realtà. Questa è una questione che molti sarebbero disposti a sottoscrivere, il fatto che il percipiens modifichi il perceptum, tant’è che molti considerano che alcune cose sono soggettive, sono personali, che ciascuna persona vede le cose in un modo, un’altra le vede in un altro, questo è quasi un luogo comune, del quale luogo comune potremmo avvantaggiarcene. Quindi, la questione della realtà, poi il fatto che la realtà possa essere modificata da qualcuno, cioè da qualcuno che la percepisce, senza chiamare in causa Heisenberg. Molto più banalmente, dicevo prima, ciascuno ritiene a modo suo che le cose le vede in un modo e Cesare le vede in un altro, per dirla in termini banali. Poi, passaggio successivo, chi è che vede queste cose, chi è il percipiens? Qui, dobbiamo porre le cose in modo tale che risulti evidente che il percipiens non è altro che il linguaggio, e questo potrebbe essere un po’ più complicato. Quando dico “Io ho fatto questo”, “Io ho pensato”, ecc., questa, come la chiama Heidegger, fatidica categoria grammaticale in effetti potete intenderla come uno shifter, un indicatore di direzione che il linguaggio mette a disposizione per orientare ciò che sta dicendo, nient’altro che uno shifter, un operatore deittico. Abbiamo detto un sacco di volte che “Io parlo” non è nessun altro che il linguaggio, non è che sono un effetto del linguaggio, sono il linguaggio tout court, nient’altro che questo. Dovremmo solo porre la cosa in termini più articolati, sto soltanto indicando i punti. Una volta che abbia stabilito che il percipiens non è altro che il linguaggio a questo punto riflettere sul fatto che modifichi il perceptum. Lo modifica in toto o in parte? Se è in parte allora c’è qualche cosa che non è modificato, se qualcosa non è modificato allora questo qualche cosa è fuori del linguaggio. A questo punto, attraverso una serie di passaggi, mostrare che necessariamente che è vero che il percipiens modifica il perceptum continuamente ma che lo modifica in toto, che non c’è elemento del perceptum che non venga modificato o più propriamente, e questo è il punto cui occorre giungere, non è prodotto dal percipiens, cioè da colui che percepisce. Colui che percepisce è il linguaggio, appunto.

Questo come schema, come una traccia di passaggi da compiere, muovendo come dicevo dalla questione della realtà, che direi è il luogo comune per antonomasia. La realtà fuori dal linguaggio, una volta stabilito questo incominciano i guai, le cose cioè diventano inspiegabili, diventano misteriose, magiche a seconda dei casi oppure minacciose o in linea di massima ignote. Il famoso “ignoto”: gli umani non possono accedere a tutto, è la religione che dice questo, c’è qualche cosa che rimane al di là. È ovvio che ponendo la realtà fuori del linguaggio c’è sempre qualche cosa che rimane al di là inevitabilmente perché non è più possibile spiegare l’origine delle cose e gli umani da sempre cercano questo, che cosa dà origine alle cose, e questo rimane sempre inaccessibile. Mentre ponendo la realtà come una produzione del linguaggio al pari di qualunque altra allora questo problema non esiste più. Non esiste più per un paio di motivi almeno. Il primo, che cercare l’origine delle cose non ha più alcun senso, è come cercare l’origine del linguaggio, l’origine del linguaggio posso cercarla attraverso il linguaggio e ciò che trovo sarà comunque qualcosa di arbitrario, sarà comunque una costruzione. L’altro motivo è che potrebbe porre l’origine semplicemente nel linguaggio, cioè nella sua esistenza, lì è l’origine di ogni cosa …non si porrebbe più a questo punto il problema dell’origine delle cose.

Questo è più un orientamento didattico che propriamente clinico, però per il momento seguiamo le cose che mano a mano incontriamo. Tutto sommato potremmo costruire due tipi di discorsi, uno più propriamente didattico e uno più propriamente clinico, anche se ovviamente sono due facce della stessa cosa, solo che la seconda probabilmente tiene conto di aspetti di cui la prima non ha bisogno di tenere conto, e cioè il racconto di qualcuno. In effetti, la volta scorsa ci si chiedeva che cosa farsene di questo racconto, ci si poneva la domanda se utilizzare questi luoghi comuni, che sono i quattro discorsi, oppure no. Probabilmente si, è possibile. Utilizzarli nel senso che indicano indirettamente quali sono le cose che la persona crede più fortemente, questo può essere utile. Però per quanto riguarda l’aspetto didattico la cosa potrebbe essere di qualche interesse.

Muovere dalla questione della realtà è muovere dal discorso religioso, cioè dal discorso più praticato.

In effetti, le due cose si intrecciano perché, come dicevo prima, la persona che viene da voi lamenta dei malanni dice qualcosa in cui crede fermamente, se non ci credesse non avrebbe tali malanni. E così la questione della realtà. Faccio un esempio stupidissimo: se una persona ritiene che il suo destino sia quello di essere abbandonato per questa persona questo fatto è una realtà, la realtà dei fatti, le cose stanno così. Se invece non stessero affatto così la persona non si porrebbe affatto il problema. Appare semplicissimo e in effetti lo è, la difficoltà sta nell’accorgersene. E quindi la questione della realtà può costituire un buon punto di partenza. Chiaro che clinicamente la questione viene posta in termini più soft.

Cosa potremmo aggiungere a questo, visto che entrambi questi discorsi, sia quello didattico sia quello clinico, iniziano tutto sommato dalla stessa cosa, dalla realtà posta come religione, come superstizione, anche la scienza non è che la ponga in termini molto diversi dal discorso religioso.

Mettete un solo elemento fuori del linguaggio e immediatamente avete costruito un discorso religioso, immediatamente. Ed è esattamente questo che ha fatto la persona che si trova a parlare con voi, per esempio in un’analisi, ha compiuto questa operazione, assolutamente gratuita, assolutamente inutile però straordinariamente diffusa. Tant’è che ci siamo posti la domanda com’è potuto accadere che gli umani si siano messi in testa una cosa del genere. Domanda bizzarra, certo, domanda retorica, che mostra una sorta di stupore di fronte a qualche cosa che avviene in modo assolutamente sorprendente se ci si pensa bene. È straordinariamente semplice intendere la questione, basti pensare a qual è la condizione perché qualunque considerazione possa farsi e considerare in seguito come questo elemento, che è la condizione di qualunque considerazione, non solo possa modificare ma produca qualunque considerazione e quindi qualunque cosa. È così semplice, però non è avvenuto se non molto recentemente.

Talvolta ho la sensazione, che in quanto sensazione vale quel che vale, che possa bastare molto poco variare definitivamente una struttura di discorso, modificare, come dicevamo, il sistema operativo. È una sensazione quindi vale molto poco. Ma rimane il caso che in alcuni casi questo avviene, una persona viene a sapere un qualche cosa di un’altra persona e da quel momento quest’altra persona è totalmente un’altra persona né potrà più essere quella di prima. Avviene questo miracolo, si verifica con una certa frequenza, perché non riprodurlo? È sicuramente possibile anche se molto difficile, almeno per il momento.

Proviamo a riflettere bene, perché una persona considera reale il suo pensiero, le cose che vede, anche distinguendo come avviene generalmente tra fantasia e realtà, che poi non sono altro che l’applicare delle regole differenti a uno stesso gioco, cioè o si mutano le regole  e si mantengono gli elementi o si cambiano gli elementi e si mantengono le regole. Questo è ciò che distingue la realtà dalla fantasia come luogo comune: il bambino che gioca con le macchinine, per esempio, utilizza le stesse regole del traffico, si muove esattamente nello stesso modo, anzi fa di tutto perché le regole siano esattamente le stesse, cambiano gli elementi, anziché macchine grosse …

Ecco, ma allora come avviene che una persona creda che le cose che immagina, che pensa, che incontra, siano fuori dal linguaggio, come può avvenire una cosa del genere? Cos’è che tiene ancorata una persona a questa superstizione? Qualcuno ha qualche ipotesi?

Non è soltanto perché non ci sono gli strumenti, in alcuni casi si possono fornire questi strumenti, ma è come se le persone non potessero utilizzarli. Non so se è una questione che porti da qualche parte però merita forse di rifletterci qualche minuto. Perché una persona non pensa?

Interventi vari.

Tutte queste cose, dunque, fa il linguaggio, costruisce delle proposizioni che affermano che qualcosa è fuori dal linguaggio. È curioso, non tanto che possa produrlo ovviamente ma che producano una struttura tale a cui venga creduto, cioè una struttura tale per cui che c’è una proposizione che non può più essere messa in discussione, produce una serie di proposizione di cui l’ultima è quella che afferma che questo non può essere messo in discussione, produce delle proposizioni tali per cui non si può più accorgere che è il linguaggio che le ha prodotte. È curioso.

Come non ci si accorge più? Sono poste delle proposizioni tali che negano che qualunque cosa sia una produzione del linguaggio. È una situazione ben bizzarra.

Ciò che dicevo è ancora  è ancora al di qua di queste considerazioni. È da tempo che ci poniamo questa domanda, se è qualcosa che è nella struttura stessa del linguaggio per cui per uscirne occorre compiere un passo, occorre qualcosa, che da sé non funziona, potrebbe anche essere. Come se, è un’ipotesi, nella struttura stessa del linguaggio ci fosse un qualcosa che ne impedisce l’accesso. È la questione di cui parlavamo tempo fa, il sistema operativo funziona in questo modo, impedendo l’accesso a se stesso, i virus possono compiere questa operazione nel sistema operativo…

La questione fondamentale in ciò che abbiamo fatto in questi anni è porre un sistema di funzioni ricorsive, per cui ogni volta c’è un ritorno a una proposizione iniziale, cioè a ciò da cui si muove. È questo che impedisce la costruzione di un discorso religioso, in effetti potrebbe accadere qualcosa del genere, cioè utilizzare una proposizione come questa, che dice che nulla è fuori dal linguaggio… Non è possibile farlo se funziona una funzione ricorsiva e cioè si torna al punto di partenza ciascuna volta, cioè si espone questa stessa affermazione come un atto linguistico, in quanto tale gratuito.

La struttura è questa, in modo molto schematico: se dico dico qualcosa, ciò che sto dicendo, qualunque cosa sia non ha importanza, è ciò che c’è, è l’unica cosa che c’è, l’unica realtà su cui posso fare affidamento. A questo punto o posso tornare indietro, al fatto che se dico dico qualcosa, cioè fare un passo indietro, tornare al sistema operativo, al linguaggio, oppure no. Se la funzione ricorsiva non lavora allora effettivamente si può creare una realtà extralinguistica. Qualcosa si è interrotto lì, perché lo sa solo dio, ma ciò che a noi interessa è il funzionamento di una cosa del genere, in effetti parlando qualcosa avverto, se non altro un suono, un rumore, un qualcosa, quindi qualcosa c’è.

L’unica cosa che interessa è che se può darsi una funzione ricorsiva, se cioè è possibile ritornare a qualcosa che ha prodotto tutto, allora ecco che questa credenza a questa realtà extralinguistica cessa. La Seconda Sofistica funziona così, in un certo senso pone in atto ciò che va dicendo continuamente, tornando continuamente all’origine, al punto da cui è partito, cioè che qualunque cosa è necessariamente un atto linguistico, visto che non possibile considerarlo altrimenti. Se qualunque proposizione che si va producendo tiene conto, ha sempre presente questo elemento, allora è impossibile creare un discorso religioso. In caso contrario, non solo è possibile ma è straordinariamente facile. Ora, nel discorso comune ciò che è impedito è questo ritorno, non c’è accesso, a quel punto il discorso religioso è inevitabile, perché la proposizione che si produrrà … usiamo didatticamente 0 e 1, la prima proposizione è 0 poi 1, 2, 3, ecc., lo 0 va a 1 ma questo 1 ritorna a 0 per potere affermare 1, questa è la funzione ricorsiva. Se invece vado da 0 a 1 e poi passo a 2, a questo punto che succede? Succede che lo 0 da cui sono partito non c’è più, c’è soltanto il 2, il quale 2 a questo punto non ha più nessuna origine, da qui qualche problema teorico per gli umani sfociato, come sapete, nella famosa crisi dei fondamenti. Non c’è più il punto di origine né è possibile reperirlo perché qualunque cosa cerchi non sarà mai e se non c’è la possibilità di questa ricorsività nel discorso allora l’origine è cancellata per sempre, non si troverà, e non si troverà perché non c’è, infatti l’ho eliminata.

Questo in effetti rende conto della possibilità di produrre una realtà extralinguistica. C’è l’eventualità che senza questa ricorsione il discorso religioso sia assolutamente inevitabile.

A noi interessa molto poco l’origine delle cose, anzi non interessa per nulla, interessa intendere come funziona, come funziona necessariamente, per cui per esempio questa considerazione che abbiamo fatto che se non c’è la possibilità di ricorsione in un discorso, di tornare a ciò che lo ha prodotto, allora c’è inesorabilmente ciò che chiamiamo discorso religioso, un discorso che non ha più aggancio con ciò che lo fa esistere. Possiamo formulare la cosa anche meglio ma per il momento… è una prima traccia.