26 giugno 2024
Plotino Enneadi
Ciò che stiamo leggendo di Plotino ci sta aprendo degli scenari fino a qualche tempo fa inimmaginabili. Pone, però, anche dei problemi che questa sera vedremo di affrontare. Innanzitutto, rispetto a questi scenari di cui accennavo prima, al fatto, cioè, che il neoplatonismo sia presente a tutt’oggi anche nel pensiero filosofico, ho trovato in questo libro di Pierre Hadot che, insieme con Puech, Jonas, Beierwaltes, e Reale, sono considerati fra i più attenti e precisi studiosi del neoplatonismo. Dice una cosa interessante, e cioè che una delle grandi lezioni della filosofia di Merlau Ponty, è senza dubbio l’aver dimostrato che è la percezione, ovvero l’esperienza vissuta nel pieno senso del termine, a conferire alla rappresentazione scientifica il suo significato. Quindi, esperienza vissuta nel pieno senso del termine. Significa però ammettere implicitamente che l’esistenza umana trae significato dall’indicibile. Wittgenstein ha osservato acutamente: quella parte di indicibile nel seno stesso del linguaggio scientifico e del linguaggio quotidiano, (prop. 4.121), ciò che nel linguaggio esprime sé noi non lo possiamo esprimere mediante il linguaggio, ma v’è dell’ineffabile, esso mostra sé e il mistico. Siamo in pieno neoplatonismo. Ma non solo Hadot, anche Beierwaltes dice una cosa interessante perché, nell’intenzione di mostrare che il neoplatonismo è quanto di meglio il pensiero abbia mai prodotto fa una notazione interessante su Hegel, accostando il pensiero di Hegel a quello di Cusano, Niccolò da Cusa, XV secolo. Cusano, che è dichiaratamente un neoplatonico, pone gli opposti, essere e non-essere, come coincidenti; infatti, lui parla di coincidentia oppositorium, la coincidenza degli opposti: questa coincidenza viene superata dall’Uno, in cui questi opposti si risolvono. Ora, il discorso che fa Beierwaltes, rispetto a Hegel, è questo: in Hegel l’in sé e il per sé sono opposti, nel senso che il per sé sarebbe il negativo; la dialettica consisterebbe nel ritorno del per sé sull’in sé, perché solo a questo punto c’è l’Aufhebung, il superamento, solo a questo punto l’in sé è autenticamente in sé, è Uno. Ora, Beierwaltes non ha tutti i torti: in effetti, anche in Hegel, nonostante sia stato l’unico o quasi l’unico che abbia tentato di uscire dalla metafisica classica, cionondimeno, Beierwaltes nota che la sua dialettica… In sé, per sé, che torna sull’in sé, ma a questo punto l’in sè diventa il vero e proprio in sé; questo non è che cancella il per sé, naturalmente, ma il per sé viene superato e rimane solo l’in sé, l’Uno. Questo dove ci porta? Non soltanto a considerare il fatto che questo neoplatonismo ha pervaso, invaso tutto il pensiero fino ad oggi, come abbiamo visto anche in Wittgenstein, i suoi enunciati sono neoplatonici; non solo lui ma anche altri, si potrebbero fare molti esempi. Ma cosa abbiamo noi da opporre a questo? Usiamo i termini di Hegel. Hegel, attraverso questa dialettica, giunge all’Uno, che poi per Hegel è lo Spirito assoluto, il pensiero assoluto, e cioè l’Uno in fondo, anche se lui a differenza di Plotino o di Cusano, che Beierwaltes accostava a Hegel… Per Cusano questo Uno che supera la contraddizione, che permane, viene però superata da Dio; per Hegel no, per Hegel è il pensiero e rimane pensiero (lo spirito è il pensiero). E qui sta la differenza sostanziale tra Hegel e Cusano, l’impianto del pensiero hegeliano non a torto Beierwaltes lo accosta al neoplatonismo. Anche Hegel usa questa triade (tesi, antitesi, sintesi): la sintesi sarebbe il superamento della tesi e dell’antitesi, che vengono superate dalla sintesi, che per Hegel è lo Spirito assoluto, qualcosa di abbastanza simile a ciò che diceva Aristotele rispetto al pensiero che pensa a se stesso, o più recentemente Gentile e il pensiero pensante. Tutto questo, dicevo, muove comunque sempre dalla tripartizione tesi, antitesi, sintesi. Ora, verrebbe da domandarsi, e io me lo sono domandato anche se non ho trovato una risposta così immediata, circa la tripartizione, che poi è una tripartizione un po’ particolare, proposta da Aristotele: δύναμις, ἐνέργεια e έντελέχειᾳ. Dove c’è tripartizione sorge un problema: perché il tre? A che cosa serve? Si potrebbe in teoria dire che non serve a niente, ma il tre pone l’uno e il due come individuabili e individuati, li istituisce. Come ipostasi? Forse, ma li pone come elementi perfettamente individuati. Ma se noi ponessimo invece una struttura differente, che non necessita più del tre, e non necessita più del tre perché l’uno e il due non sono più individuati, né individuabili; allora il tre non serve più a niente, se non eventualmente a garantire che siano individuati. Ma questo è un altro discorso che vedremo dopo. Prendete una qualunque parola, possiamo usare anche i termini che usava Hegel: l’in sé è determinato dal per sé, quindi il per sé è il significato dell’in sé, ciò che l’in sé, è: l’in sé è questa cosa che lui chiama per sé; quindi, l’in sé è il per sé, perché non è altro che il significato dell’in sé, è ciò che l’in sé è. È come dire che per determinare l’uno occorrono i molti, perché la determinazione è fatta di vari elementi, quindi sono molti. Quindi, quando dico che l’uno è questa cosa sto dicendo che l’uno è i molti. Ma questi molti che cosa sono? Sono l’uno, perché ho appena detto che sono l’uno. L’uno è i molti, esattamente come aveva stabilito Eraclito: ἒν πάντα εἰναι A questo punto, del terzo elemento che cosa ce ne facciamo? Se nessuno dei due elementi è individuabile, perché ciascuno è l’altro simultaneamente, il tre cosa ci rappresenta? Ci rappresenta il tentativo di un’ipostasi, messa al di sopra di tutto, che è quella che garantisce che invece l’uno e il due siano individuabili perché, se c’è il tre, ci sono necessariamente l’uno e il due; mentre ciò che stiamo dicendo è che non ci sono né l’uno né il due, perché l’uno è il due e il due è l’uno. Ora, a questo punto, ciò che appare immediatamente è l’impossibilità del linguaggio: il linguaggio è impossibile, non si può parlare; tuttavia, noi parliamo, come facciamo? Qui la risposta ce l’ha fornita Aristotele su un piatto d’argento: certo che parliamo, perché il fatto che l’uno sia il due e che il due sia l’uno cancella totalmente la fantasia, l’illusione di una verità epistemica, ma c’è la verità della δόξα o, più propriamente ancora, il δοξάζειν, il credere di sapere. È questo che risolve il problema: non so, non posso sapere perché non c’è la verità epistemica, ma credo di sapere.
Intervento: Faccio come se…
Sì, faccio finta di sapere…
Intervento: Tra l’altro conferma anche quello che dicevamo circa l’uno come principio di ragione… la premessa maggiore…
Esattamente. Sì, il principio di ragione come quella ipostasi che dovrebbe garantire tutto quanto, mentre per Aristotele questa garanzia non c’è, non può esserci perché siamo nella δόξα; infatti, Aristotele pone la δόξα come principio di ragione. Chiaro che non può servire come dimostrazione.
Intervento: Ciò che stiamo dicendo implica anche il fatto che non ci sia più calcolabilità. A questo punto, però, interviene anche un’altra questione, quella del tempo. Noi percepiamo il tempo perché calcoliamo, il tempo è la calcolabilità per eccellenza. In questo caso c’è una percezione del tempo in tutt’altro modo.
Sì e no, perché se praticassimo il linguaggio attenendoci all’impossibilità di praticarlo, allora effettivamente il tempo si dissolverebbe. Ma, siccome ci affidiamo alla δόξα per parlare, ecco che anche il tempo è quello della δόξα, è quello che ci serve, cioè, il tempo è definito in quanto quello che ci serve per le cose che dobbiamo fare.
Intervento: Senza contare che poi la δόξα cambia…
Sì, è vero, ma forse c’è qualche cosa che permane nella δόξα, e cioè l’idea che debba esserci un ordine nelle cose, perché questo ordine delle cose da dove lo traggo? Hadot, Beierwaltes, ecc., sono plotiniani, credono effettivamente, ma perché credono una cosa del genere? Il discorso che fanno è questo, quello che a tutt’oggi supporta il neoplatonismo: c’è un ordine. Cosa lo prova? Non lo posso dimostrare, ma lo provo a posteriori, e cioè per il fatto che parlo e, se parlo, parlando c’è un ordine: soltanto se c’è un ordine posso parlare. C’è una consequenzialità nelle parole, quindi, posso costruire un discorso, se le parole costruiscono un discorso vuole dire che c’è un ordine. Posso dimostrare questo ordine? No, perché per dimostrarlo debbo già metterlo in atto e quindi faccio una sorta di petitio principi…
Intervento: Ma lo sento…
Non lo posso dimostrare, però, non posso neppure affermare che non c’è perché, se non ci fosse, non potrei parlare. Il discorso di Wittgenstein, citato da Hadot, che il linguaggio non può dire se stesso, è falso. Il linguaggio dice solo se stesso, non può fare altro, così come aveva intuito benissimo Gentile: io posso pensare soltanto il pensiero, non ho altro, e così il linguaggio non può che dire il linguaggio, non può che fare che questo. Non c’è nessun enigma, il linguaggio non fa altro che dire se stesso, ininterrottamente. Ciò a cui alludevo prima, al fatto che l’uno è il due e il due è l’uno, non comporta nessun mistero, nessun enigma, nessun abisso. Non è altro che ciò che ci consente di procedere parlando perché, se l’uno fosse assolutamente l’uno, non ci sarebbe il movimento verso il due. In questo Aristotele nel De anima aveva ragione: è l’έντελέχειᾳ che consente il movimento e che, quindi, è alla base di tutto: questo movimento è il fondamento di tutto. Così come l’ho posta prima, certo, questo movimento è come se si autoannullasse, ma si autoannulla nel momento in cui io tendo verso una verità epistemica, cioè, pretendo di bloccare uno dei due, e, allora, mi scontro con il fatto che quello che voglio bloccare, in realtà, è un’altra cosa.
Intervento: È sempre il paradosso di Zenone: si tratta di vedere il movimento fermandolo.
Proprio così. E, allora, in assenza di verità epistemica c’è la verità doxastica, cioè la verità della δόξα, il credere di sapere. Non posso fare altro che raccontare dei miti, cioè, raccontare cose, non posso provare niente. Anche Wittgenstein lo aveva inteso: non posso provare, con che cosa lo provo? Con la dimostrazione? E la dimostrazione la provo con che? È un racconto, un racconto che in fondo gira intorno all’origine, è una cosmogonia; ogni mito, in fondo, è una cosmogonia, è un racconto intorno alle origini e, quindi, dove andiamo, chi siamo, che facciamo. Dunque, questi scenari, di cui parlavo prima, sono il pensiero attuale, anche quello filosofico. Diceva prima Sandro di una conferenza di Cacciari, un filosofo contemporaneo, che ancora parla di qualcosa di indicibile, di misterioso, di mitico, a fondamento naturalmente di qualcosa che non si può dire. Sì, non posso dire l’uno se non dicendo il due e non posso dire il due se non dicendo l’uno, ma non c’è nessun mistero in tutto ciò, non c’è nessuna enigma, non c’è nessun Dio nascosto in tutto ciò, è tutto assolutamente palese e alla luce del sole; dice soltanto che la verità dell’epistéme non c’è e, quindi, non posso che raccontare; qualunque cosa non è altro che un racconto. Il mito è un racconto delle origini, cioè all’origine c’è questo o quest’altro. Se so cosa c’è all’origine allora effettivamente c’è un ordine, tutto segue consequenzialmente da quel punto di origine e, quindi, è ordinato, oltre che ordinabile e, in fondo, matematizzabile. Quindi, tutto ciò che si racconta è un racconto intorno all’origine, a ciò che si crede necessario, fino al discorso più banale, cioè, le cose stanno così perché magari…, non so se stanno proprio così o cosà, però, in un modo devono stare, per forza. Quindi, questo ordine c’è: noi parliamo = c’è un ordine. Ora, tutto questo, porta facilmente al misticismo, perché si tratta di trovarsi di fronte al fatto che questo ordine non può essere provato, quindi deve essere creduto. Ma il fatto è che in tutte queste disquisizioni io utilizzo parole, utilizzando parole ecco che immediatamente ciascuna di queste parole è quella che è a condizione di non esserlo. Quindi, anche affermando che deve esserci necessariamente un ordine, io non sto affermando niente, sto affermando una fantasia, qualche cosa che io credo che sia; infatti, per esempio, Democrito affermava tranquillamente il contrario, per lui non c’è nessun ordine. L’ordine serve unicamente a mantenere intatta la fantasia di onnipotenza: io devo pensare che ci sia un ordine perché, se non c’è un ordine, io non ho più potere su niente E non mi basta a questo punto la δόξα, perché la δόξα è l’opinione, è quello che dice la nonna; come posso mettere questo a fondamento universale? L’universale deve essere dimostrato, oltre che dimostrabile, ma sappiamo già con Aristotele che questo tentativo è fallimentare, perché l’universale non è altro che un insieme di particolari, quelli che servono a me per dimostrare di volta in volta quello che mi pare. Volevo tornare alla questione di prima, degli scenari che si spalancano di fronte a noi in questa lettura, perché a questo punto ciò che stiamo dicendo condizionerà necessariamente, almeno in parte, la lettura che continueremo a fare di Plotino, nel senso che ci costringerà a fermare l’attenzione su alcuni dettagli, perché quello che ha detto Plotino appare sempre più presente in tutto ciò che si dice, non solo a livello filosofico o scientifico ma universalmente: ciascuno parlando ha la necessità di credere che ci sia un ordine. Questo viene da Plotino, mentre non era una necessità ai tempi di Eraclito o di Parmenide o dei sofisti, i quali non avevano questa necessità di stabilire un ordine; in effetti, l’abilità retorica dei sofisti consisteva anche in questo, e cioè nel mostrare che qualunque affermazione non era fondabile e, quindi, non era certa; dunque, tutto il discorso che si muoveva da quella certa cosa, non era sostenibile in nessun modo. Però, questo lo ritroviamo nella necessità di qualunque discorso di fondarsi a questo punto su un mito, su un mito dell’origine: tutto quanto ha un ordine, quindi all’origine di tutto c’è un ordine. Chi lo stabilisce? Ecco Plotino: è dall’Uno che procedono tutte quante le cose. L’Uno è dimostrabile? No, questo indimostrabile è ancora presente, lo abbiamo visto in Merlau Ponty, in Wittgenstein e in moltissimi altri, in parte anche in Hegel, perché Beierwaltes ci ha fatto notare che anche la dialettica hegeliana non è poi così lontana dal neoplatonismo. E non ha neanche tutti i torti: tesi, antitesi e sintesi, il per sé che torna sull’in sé, facendo diventare l’in sé autentico in sé, quindi l’uno. Mentre il discorso che abbiamo fatto prima non necessita del terzo elemento, non lo necessita in quanto ciascuno dei due elementi non è individuabile; quindi, se non posso individuare né l’uno né il due, il tre scompare anche lui, non ha nessuna funzione. L’uno e il due non sono individuabili, non c’è verità epistemica, c’è solo la δόξα, c’è il racconto, un racconto che a questo punto potremmo dire che è fine a se stesso, alla messa in atto del linguaggio, al praticare il linguaggio, niente più di questo. Vedete, dunque, Plotino e poi tutto ciò che gli ha fatto seguito, ma già nel protocristianesimo, così come poi nei primi padri della Chiesa, da Gregorio di Nissa ad Agostino naturalmente. Cosa ha fatto Plotino? Di fronte all’eventualità che l’uno non sia determinabile se non come due, ha preso questi due aspetti… che è poi il lavoro che ha fatto tutto il medioevo: trovare quel terzo elemento che governi l’uno e il due e li faccia essere quello che io voglio che siano, cioè, determinabili, cioè, dominabili. Solo con un terzo elemento che sta di sopra, epi-stème, allora l’uno e il due, questa coincidentia oppositorium trova, come in Cusano, la sua Aufhebung, direbbe Beierwaltes, cioè il suo superamento, perché il terzo elemento è quello che è, quello dal quale – questo è in Cusano – procedono sia l’uno che il due; è quello che consente – è questo di “colpo di genio” – l’opposizione, la contraddizione. È l’Uno, è Dio che ha in sé tutto, perché se è tutto non può mancare di qualche cosa, dunque, ha in sé anche la contraddizione. È falso, quindi, dire che Dio non può contraddirsi, può farlo, perché in sé ha anche la contraddizione: questo dice Cusano. Quindi, ha tutto e, pertanto, avendo tutto, poi per riflessione – non si sa bene cosa sia, ma non importa – ecco che tutto quello che ha in sé si manifesta, a seconda delle circostanze, delle vicissitudini, dell’umore, ecc. Ma c’è tutto, quindi, anche la contraddizione; quindi, anche la contraddizione appartiene all’Uno, appartiene a Dio, ed è lui che la consente, perché è nella sua mente. Questo è il modo in cui il cristianesimo ha piegato Plotino alle esigenze del cristianesimo. Poi, lo vedremo bene in Agostino, che è precedente a Cusano. Quindi, dicevo che questo terzo elemento è quello che fa da epistéme, che sta sopra e consente quindi il superamento della contraddizione, cioè dell’uno che è due e del due che è uno; ignorando questo dettaglio, e cioè che per costruire questa idea dell’uno, che sta come epistéme, ha utilizzato questo sistema, che chiamiamo comunemente linguaggio, nel quale l’uno è il due e il due è l’uno, per cui non c’è nulla di determinabile, per cui nessuna parola che viene utilizzata per costruire un pensiero, in nessun modo può enunciare una verità epistemica. È una fantasia, un racconto, δοξάζειν, di ciò che si crede essere vero, ma non lo si può esibire come tale, non è possibile, perché le parole che utilizzo per poterlo definire come tale hanno questa proprietà: per dirsi, per determinare una parola, devo determinarla attraverso altro. Quindi, affermo qualcosa letteralmente negandolo: dicendo che l’Uno è questo, il questo è già il due, è già una determinazione; quindi l’uno è il due, cioè, l’uno, affermandosi, per potere affermarsi si nega inesorabilmente. E questo è un dettaglio che tutta la filosofia medievale ha ignorato, ma anche a tutt’oggi viene ignorata totalmente. Si pensa, invece, più facilmente che esista qualche cosa, che esista un indicibile, il mistero, l’enigma, che offre d’altra parte una serie di vantaggi.
Intervento: Il primo è doverlo sentire interiormente.
Esatto. Infatti, questa è la risposta che dà Plotino: come sai che c’è l’Uno? Non puoi dedurlo. E qui sta la differenza sostanziale da Hegel: per Hegel il pensiero assoluto è un risultato, cosa che in parte era ancora in Anselmo; mentre per Cusano no, non è un risultato, neanche per Plotino lo è; se fosse un risultato sarebbe il prodotto di un calcolo e, pertanto, inesorabilmente confutabile; quindi deve porlo al di sopra, sia della affermabilità che della confutabilità. Da qui la teologia negativa o apofatica, come si diceva una volta, e cioè di Dio possiamo possiamo soltanto dire ciò che non è, fino a ridurlo appunto al nulla. Plotino stesso lo enuncia spesso come nulla, pur essendo questo nulla la causa di tutto. Perché è la causa di tutto? Perché da questo nulla procede l’ordine che è necessario per qualunque cosa; ordine che è dato, per Plotino, dalla processione: Uno, intelletto, anima, e poi a seguire tutto quanto. Diciamo che tutto il pensiero, dopo Plotino, è stato letto, percepito neoplatonicamente, tutto, dai protocristiani ai padri della Chiesa, ai teologi, fino ad arrivare a Leibniz, a Cusano, a Spinoza, a Cartesio, a tutti quanti, fino ad arrivare a Wittgenstein: neoplatonici in tutto e per tutto. Se qualcuno avesse voglia di andare a rileggersi tutta la filosofia, da Agostino in poi, fino a oggi, è sicuro che troverebbe in tutti quanti l’impronta del neoplatonismo, e cioè tutto quanto sorge da un qualche cosa che non può dirsi, che non si vede, che però è la causa di tutto: Dio. In fondo, quando Wittgenstein dice che non possiamo interrogare il linguaggio perché il linguaggio non dice se stesso, il che è un falso perché il linguaggio non fa altro che questo, è un po’ come se facesse il verso agli illuministi, alla ragione. C’è la ragione, ma da dove arrivi questa ragione, cosa la sostenga, non si sa bene, ma la ragione c’è, e attraverso la ragione eritis sicut dii, che è un detto gnostico – lo gnosticismo e il neoplatonismo sono sempre andati a braccetto. Anche l’Illuminismo e poi, di fatto, la scienza, fino a Popper: possiamo avvicinarci alla verità sempre di più; ma questo è Plotino: ci avviciniamo all’Uno attraverso l’estasi. C’è poi tutto un discorso da fare ancora, perché Plotino ha avuto moltissime donne nel suo ambito. Lui parla di aprirsi a Dio e così Dio entra dentro di te. Ora, una fantasia erotica del genere non può passare inosservata, soprattutto per le donne: un qualcosa, che non è qualcuno, che però entra dentro e ti pervade e fa trascendere fa andare verso… D’altra parte, sappiamo bene come sia stato il cristianesimo, in fondo, a inventarsi il femminismo, cominciando a dare importanza alle donne. E sappiamo anche perché: perché ha proibito l’omosessualità. Già ancora in Plotino c’è questa idea che con i fanciulli ci si diverte mentre con le donne ci si riproduce; l’importanza delle donne, quindi, è limitata, perché il piacere, il godimento, ecc., non è monopolio delle donne; è stato il cristianesimo a dare alle donne questo monopolio, questo potere immenso che prima non avevano. Poi, Plotino ci aggiunge che entra dentro il Dio… In fondo, è quello che dice lui: aprirsi a Dio e lasciare che Dio entri dentro di me. È una bella fantasia erotica.
Intervento: Il quadro del Bernini con l’estasi di Santa Teresa…
Sì, era Lacan che diceva: è palese, si vede, proprio dall’espressione di Santa Teresa, che sta godendo, col puttino, con la freccia che la penetra. Tutte queste cose non sono irrilevanti, hanno contribuito all’enorme successo che il neoplatonismo ha avuto attraverso il femminismo, che è neoplatonico.
Intervento: È la sua forza retorica. Non solo arriva questo uno deve essere sentito, ma sentirlo porta un ampio beneficio.
È essere pieni del bene assoluto, di una luce assoluta. Questa della luce era presente anche negli gnostici, ma sono tante le cose presenti in entrambi. Non so se avete mai letto la Pistis Sofia. È un testo in un rotolo trovato, insieme ad altri a Nag Hammadi nella metà del secolo scorso, reperito nel deserto dentro degli orci; uno di questi rotoli, perfettamente conservati, di tantissimi testi gnostici è Pistis Sofia, dove la questione della luce è presente continuamente, luce che poi diventerà la voce di Dio, la luce che illumina. Ma anche questa è una reminiscenza degli gnostici nei confronti di Platone e il suo mito della caverna nella Repubblica. È lì che Platone aveva imposto questa ideologia della luce, della rinascita o della nascita, cioè, dell’essere tratti fuori dall’oscurità dell’ignoranza. Tenete sempre conto che tutto il testo di Plotino è stato costruito su Platone, lui lo cita sempre come la fonte assoluta, il sapere assoluto, da cui ogni tanto se ne discosta, però, non tantissimo perché è meglio non allontanarsi dalla diritta via, che è stata segnata da Platone. Quindi, è vero, Platone ha dato veramente l’impronta al pensiero occidentale e attraverso il neoplatonismo ha trovato la sua istituzionalizzazione, e poi naturalmente con il cristianesimo: c’è un ordine necessariamente e se c’è un ordine vuole dire che ci si deve attenere a quest’ordine, che non può essere provato, non può essere visto, non può essere dimostrato, ma c’è.
Intervento: C’è un ordine, ma questo ordine è trascendente. Questa idea è sorta con Socrate, poi con Platone, ovviamente. Questa idea di ordine ha dato poi tutto lo slancio al pensiero morale Socrate. Socrate era un moralista.
Socrate è stato, in fondo, il prototipo dell’anima bella. Lui mostra a tutti quanti non sanno, non perché lui sappia, ma perché c’è un sapere che lo trascende; c’è questo sapere, lui non può saperlo, anzi, lui sa di non sapere, ma ciò che dice alle persone è che sbagliano a pensare di possedere la verità perché non la posseggono, non la possiede nemmeno lui, ma c’è, da qualche parte c’è, perché c’è questo ordine. Socrate è la prima figura – che poi è Platone, in quanto non abbiamo niente di Socrate – è la prima figura che pone una verità trascendente, una verità come epistème, che non può essere conosciuta, non può essere vista, non può essere provata. Soprattutto Aristotele ci ha provato, abbiamo visto con quali risultati: il marasma più totale. Questa idea del trascendente, poi, Platone lo pone e lo impone, perché ci piazza gli dei, che non sono più gli dei giocherelloni dei greci, stanno lassù e governano tutto, e sono soprattutto invisibili, indicibili, ineffabili ecc.
Intervento: Questo ordine è anche il fondamento della politica… L’organizzazione della società, il porre le leggi, le regole, che devono rispondere a un ordine trascendente per essere valide, perché non possono rispondere solo a chi le ha date…
Intervento: Socrate Platone e arrivano nel momento di debolezza del sistema delle polis e delle guerre continue… Servono per creare lo stato sociale e, quindi, verrebbe anche quasi da pensare che le altre società umane, non avendo avuto i presocratici e i sofisti che posero le questioni… fossero rimaste al mito e all’esercizio del potere…
Sì, alla gestione del mito. Quando Platone scrive la Repubblica, descrivendo la città ideale, dà delle regole ben precise e le pone perché a suo parere sono quelle che fanno funzionare al meglio la città ma non dà nessuna spiegazione di questa regole, nessuna ragione propriamente, se non che a suo parere le cose vanno meglio così. È il primo ordinamento politico: così pare che le cose vadano meglio, pare, poi chissà… e, difatti, è andato a catafascio tutto, come sempre. Perché tutte le cose vanno a catafascio?
Intervento: Parlavamo, se si ricorda, della differenza tra socialdemocrazia e socialismo reale, dell’utopia e del tener conto, invece, dell’esistente. La socialdemocrazia risponde al fatto che non ci sia un ordine trascendente si lavora con quel che c’è.
Questo ordine non c’è ma bisogna fare in modo che ciascuno creda che ci sia, perché è fondamentale che tutti quanti credano che esista un ordine naturale, che poi può essere il diritto naturale, può essere quello che si vuole, ma questo ordine deve esserci: le cose possono essere così o al contrario, ma in un modo devono essere. Questo è il criterio fondante.