INDIETRO

 

 

26 giugno 2019

 

Fenomenologia dello spirito di G.W.F. Hegel

 

Nell’Introduzione Hegel si pone due questioni: la prima riguarda il metodo, cioè, se sia possibile un metodo in filosofia; la seconda questione riguarda il metodo della trattazione della filosofia. Il metodo sarebbe un qualche cosa che dà accesso alla verità, però è sempre un medium e questo comporta, anche se Hegel non lo dice, l’argomento di Aristotele del terzo uomo, cioè un medium – un qualcosa che sta in mezzo e che consente di raggiungere l’obiettivo – ma che cosa ci garantisce che dal mezzo all’obiettivo ci sia la possibilità di raggiungere la cosa? Ci vuole un altro elemento che si faccia garante, e così via all’infinito. Ma veniamo alle parole di Hegel. A pag. 65. Secondo una rappresentazione naturale, prima di affrontare la cosa stessa, ossia la reale conoscenza di ciò che è in verità, nella filosofia ci si dovrebbe preliminarmente intendere circa quel conoscere che viene considerato come strumento con cui ci si impadronisce dell’Assoluto o come mezzo con cui si possa scorgerlo. Quindi, ci sono io, c’è la conoscenza e la cosa che devo conoscere. Sembra giustificata la preoccupazione che, da una parte, ci possano essere diverse specie di conoscenza delle quali l’una sia più idonea dell’altra al raggiungimento di quel fine supremo; - giustificata, cioè, dalla possibilità di una falsa scelta fra esse;… La conoscenza può essere corretta ma anche scorretta. …d’altra parte, che essendo il conoscere una facoltà di specie e comprensione determinate, si possa senza una più precisa determinazione della sua natura e del suo limite, incappare nelle nubi dell’errore invece di raggiungere il cielo della verità. Questa preoccupazione deve mutarsi fin nella convinzione che tutta l’impresa del conquistare alla coscienza, mediante il conoscere, ciò che è in sé, sia, nel suo concetto, un controsenso, e che tra il conoscere e l’Assoluto interceda una netta linea di divisione. Ci sono io, c’è il conoscere e la cosa. Tutto è ben distinto. Se infatti il conoscere è lo strumento per impadronirsi dell’Assoluto,… Potete intendere l’Assoluto in Hegel come la realtà. …vien fatto di pensare che l’applicazione di uno strumento a una cosa, anziché lasciarla com’essa è per sé, vi imprima una forma e inizi un’alterazione. Questa cosa, il mio conoscere, come so che non modifica la cosa e anche me? Oppure, dato che il conoscere non sia uno strumento della nostra attività, ma un mezzo passivo attraverso il quale giunga a noi la luce della verità tuttavia nemmeno così riceviamo quest’ultima com’essa è in sé, anzi com’essa è in e mediante tale mezzo. Questo è ciò che accade con la scienza: lo strumento consente di vedere una certa cosa; ma c’è di mezzo lo strumento e io vedo l’immagine nello strumento, non vedo la cosa. Nei due casi noi facciamo uso di un mezzo che produce immediatamente il contrario del suo scopo;… Anziché farci vedere la verità, ce la impedisce, ce la inibisce, ce la nega. …ossia il controsenso sta addirittura nel far uso di un mezzo. Questo è importante. A tutt’oggi c’è l’idea che il mezzo, potremmo dire oggi la tecnica o, meglio ancora, la scienza, sia quello strumento che consente di conoscere come stanno le cose; ma se è un mezzo, noi conosciamo quello che facciamo dire alla scienza, non ciò che vogliamo conoscere. Questo è un argomento molto fine di Hegel, che a tutt’oggi non è stato inteso da molti. Sembra bensì che a questo inconveniente si possa ovviare con la conoscenza nel modo come lo strumento agisce; infatti tale conoscenza renderebbe possibile di detrarre dal resultato l’apporto dovuto, nella rappresentazione che noi con lo strumento ci facciamo dell’Assoluto, allo strumento stesso, ottenendo così il vero al suo stato di purezza. Cioè: io ho quello strumento che mi dà una certa immagine; poi, da quella certa immagine detraggo la deformazione dello strumento, ma sono daccapo. Infatti, dice Se non che, questa correzione ci riporterebbe, in effetto, al punto di prima. Ho di nuovo questa cosa che devo conoscere. O la conosco attraverso il mezzo, e allora conosco il mezzo e non la cosa, oppure se tolgo il mezzo sono daccapo, cioè non conosco niente. Se da una cosa formata togliamo l’apporto dovuto allo strumento, essa allora, - nel nostro caso l’Assoluto, - e di nuovo ciò che già era avanti questa fatica la quale, dunque, è superflua. Se mediante lo strumento l’Assoluto, come un uccello preso alla pania, dovesse solo venirci avvicinato alquanto, senza che nulla vi si mutasse, qualora in sé e per sé non fosse e non volesse essere già presso di noi, esso si farebbe beffe di questa astuzia;… Qui dice la questione: è già presso di noi. Qui sta tutta la questione, e cioè: se voglio conoscere la verità e mi ingegno a trovare uno strumento che mi consenta di conoscere o anche solo di avvicinarmi alla verità, già me la nego in questo stesso operare. Perché? Perché noi siamo già nella verità. O siamo già nella verità o non la troveremo mai, e non la troveremo mai per i motivi che ci sta dicendo: sarà sempre un’altra cosa rispetto ai mezzi e agli strumenti che mi ingegno di trovare per raggiungerla. Quindi, se c’è la verità è perché noi siamo già dentro, siamo già da sempre nel concreto, il concreto come la verità dell’essente, cioè come il manifestarsi dell’esser sé dell’essente, per usare le parole di Severino. Sono già da sempre nel concreto, non devo adoperarmi per raggiungerlo, anzi, se mi adopero vuol dire che devo astrarre dal concreto delle cose e, quindi, non sono più nel concreto. Per cogliere il concreto, l’Assoluto, l’intero, se io mi adopero ad astrarre delle cose, perdo il concreto. Io sono già da sempre nel concreto: “questa lampada che è sul tavolo” è già da sempre “questa lampada che è sul tavolo”: questo è il concreto, l’intero, cioè la verità. Punto 2. Frattanto, se la tema di cadere in errore insinua sfiducia nella scienza che senza preoccupazioni di questo genere si accinge da sé all’opera e realmente conosce, bisogna vedere come mai, per contro, in questa diffidenza non si debba insinuare una diffidenza e non s’abbia a temere che una tale paura di errare non sia già essa stessa l’errore. La scienza non può e allora diffido della scienza; ma questo diffidare delle cose, dice, è già un errore di per sé. In effetto quella paura presuppone come verità qualcosa, anzi molto, e ne fa base delle sue apprensioni e delle loro conseguenze;… Questa paura presuppone che la verità sia qualche cosa di conoscibile e che devo conoscere attraverso un mezzo, uno strumento. Una tale paura presuppone, cioè, rappresentazioni del conoscere, inteso come strumento e mezzo; presuppone anche una differenza di noi stessi da questo conoscere;… Ecco, qui c’è il conoscere e qua ci sono io; senza tenere conto che questo conoscere sono io. Immagino il conoscere come un’altra cosa, come se astraessi il conoscere, per cui ci sono io, c’è il conoscere e la cosa da conoscere. Ma, sopra tutto, presuppone che l’Assoluto se ne stia da una parte e il conoscere dall’altra, per sé e separato dall’Assoluto, pur essendo qualcosa di reale;… Se è qualcosa di reale, io, la conoscenza e l’Assoluto siamo la stessa cosa, cioè, io sono già nell’Assoluto, nella realtà – realtà nel senso in cui la intende Hegel, ovviamente. …ovverossia presuppone che il conoscere, il quale fuori dell’Assoluto è indubbiamente anche fuori della verità, sia poi tuttavia veridico:… Il conoscere, se lo metto fuori della realtà lo metto allo stesso tempo fuori dalla verità, non posso dire che una cosa è reale ma non è vera, se è reale è anche vera – nella tradizione funziona così. E, quindi, compio questa operazione in cui dico che il conoscere è fuori della realtà ma poi, indicandolo come vero, dico che questo conoscere è nella realtà. …assunzione per cui ciò che si chiama paura dell’errore si fa invece piuttosto conoscere come paura della verità. La paura della verità, cioè, la paura connessa con l’accogliere il fatto che siamo già nella verità. La verità, come dicevo prima, non è altro che l’apparire dell’esser sé dell’essente, l’apparire delle cose così come mi appaiono. Questa conseguenza risulta dal fatto che l’Assoluto solo è vero, o il Vero solo è assoluto. Contro tale conseguenza si potrebbe sollevar l’eccezione che un conoscere il quale non conosca, - come la scienza invece richiede, - l’Assoluto, è tuttavia anche vero;… Si potrebbe sollevare questa eccezione, e cioè che ci sia un Assoluto che non si conosce ma che è vero. …e che il conoscere, in generale, quando pur fosse incapace di attingere l’Assoluto, potrebbe tuttavia esser capace di altra verità. Ma noi vediamo appunto che un tale dibattito va a finire in un’oscura differenza tra un Vero assoluto e un Vero comune, e che l’Assoluto, il conoscere, ecc., sono termini i quali presuppongono un significato che occorre da prima industriarsi di attingere. Si parla di vero assoluto, di vero comune, ma di che cosa stiamo parlando, si chiede. Invece di rompersi il capo con simili inutili immaginazioni e chiacchiere intorno al conoscere come strumento per impossessarsi dell’Assoluto, o come mezzo attraverso il quale ci sia dato scorgere la verità, ecc., … invece di ricorrere a quelle scappatoie che l’incapacità di lavorare secondo criteri scientifici trae dal presupposto di quelle posizioni medesime, a scansare la fatica della scienza, dandosi nello stesso tempo l’aria di una operosità rigorosa e scrupolosa; e invece di rompersi il capo per trovare delle risposte a tutto ciò, sarebbe meglio rifiutarle senz’altro come immaginazioni accidentali e arbitrarie; e l’uso a ciò congiunto di termini, - come qui l’Assoluto o anche l’oggettivo, il soggettivo e innumerevoli altri, il significato dei quali si presuppone comunemente noto, - potrebbe essere considerato a dirittura un inganno. Utilizzare dei termini presupponendo di sapere che cosa significhino, ecco, questo l’errore più comune: il non farsi carico del concetto, il non farsi carico del pensare il concetto. Quando dicevo tempo fa che intendo il pensiero come il farsi carico del problema che è il linguaggio, intendevo praticamente questo, e cioè il farsi carico del problema che, per es., ciascun termine comporta: la sua storia, i significati che può assumere a seconda dell’impiego che ne viene fatto, e che quindi, quando dico una cosa, quella cosa è evanescente; e se non la determino, cioè se non do una definizione, resta tutto assolutamente vago e, quindi, si può dire tutto e il contrario di tutto; ma se do una definizione devo anche mostrare, precisare, perché do quella definizione anziché una qualunque altra. Questo ha a che fare in qualche modo con la fatica del concetto. Infatti, il simulare e che il loro significato è comunemente noto, e che se ne ha perfino il concetto, sembra piuttosto un modo per esimersi dal compito principale, che è di dare il concetto. A maggior ragione si potrebbe, per contro, evitare la fatica di prender atto di tali immaginazioni e chiacchiere mediante le quali si vuole tenere in scacco proprio la scienza. Scienza intesa qui come la intende lui, naturalmente. Esse infatti costituiscono solo una vuota apparenza del sapere, che dilegua immediatamente dinanzi al sorgere della scienza. Io credo di sapere una certa cosa, ma questa dilegua immediatamente di fronte alla scienza, di fronte al farsi carico del concetto. Se io sono “sicuro” che il termine Assoluto significhi una certa cosa, se non mi faccio carico, se non interrogo quel termine, continuerò a usarlo immaginando di sapere che cosa vuol dire in verità, per cui significa esattamente questo. Se me ne faccio carico mi rendo conto che l’uso che sto facendo di questo termine è assolutamente personale, utilizzato all’interno di un sistema che io ho deciso di usare, per cui, in definitiva, il significato che do a un certo termine è qualcosa di cui devo assumermi la responsabilità; mentre, se suppongo che quella cosa significhi “naturalmente” quella cosa lì, io non devo assumermi nessuna responsabilità, è quella e basta. Assumersi la responsabilità potete intenderla come il farsi carico, come la fatica del concetto, così come ne parla Hegel. Ma nel momento del suo sorgere la scienza è essa stessa apparenza; il suo sorgere non è ancora essa attuata e dispiegata nella sua verità. Ecco da dove Heidegger ha preso la sua questione della chiacchiera. Quando dice che nasciamo nella chiacchiera non fa altro che ripetere le parole di Hegel. Dice Hegel che nel momento del suo sorgere la scienza è essa stessa apparenza, non c’è nessun concetto ancora. Noi nasciamo lì, nella chiacchiera. Rappresentarsi la scienza come apparenza perché compare accanto ad altro, oppure chiamare sua apparenza quell’altro non vero sapere, è qui indifferente. Ma la scienza deve liberarsi da tale parvenza, e lo può fare soltanto col volgersi contro quella parvenza medesima. Cioè, uscire dalla chiacchiera è puntare all’autentico, direbbe Heidegger. Per uscire dalla chiacchiera, come primo passo occorre rilevare la chiacchiera in quanto tale, accorgersi della chiacchiera. Se io suppongo di usare un certo termine con un certo significato, perché quello è “il” significato, questa è chiacchiera. La scienza infatti non può né gettare via un sapere che non è verace, considerandolo soltanto come una visione volgare delle cose, assicurando se stessa essere una conoscenza di tutt’altro tipo e dichiarando che per lei un tale sapere è assolutamente nullo;… È chiaro che tutto il suo lavoro consiste in questo: non c’è il negativo da eliminare. …né può appellarsi a quel barlume di un miglior sapere che aleggia nel sapere non verace. Dice: sì, questo sapere non è del tutto vero, però c’è un barlume di verità anche lì. Sta dicendo che non è questo che ci interessa. Con tale assicurazione essa affermerebbe come propria forza il proprio essere… La propria forza che sono; sono nel senso che sono una verità, magari anche parziale, irrilevante, ma ci sono. …ma anche il sapere non verace fa altrettanto appello al fatto che esso è; ed assicurare che la scienza per lui non è niente: ma una secca assicurazione non conta più dell’altra. Punto 5. Ora, poiché questa presentazione ha per oggetto soltanto il sapere apparente o fenomenico… Qui apparente sta per ciò che appare. …sembra ch’essa stessa non sia la libera scienza moventesi nella sua figura peculiare; anzi, da questo punto di vista, può venir considerata come l’itinerario della coscienza naturale, la quale urge verso il vero sapere; o come l’itinerario dell’anima percorrente la serie delle sue figurazioni quali stazioni prescrittele dalla sua natura perché si rischiari a spirito e, mediante la piena esperienza di se stessa, giunga alla conoscenza di ciò che essa è in se stessa. Questo è ciò che vuole fare nella sua Introduzione, cioè la piena esperienza della coscienza. Come si fa esperienza della coscienza? Come so di essere cosciente? Come vengo a sapere le cose? Queste sono le domande da cui è partito Hegel. La coscienza naturale… Quella non filosofica, quella non speculativa, la chiacchiera, in definitiva. …mostrerà di essere soltanto concetto del sapere, ossia sapere non reale. La chiacchiera ha a che fare con un sapere non reale. Ma giacché quella ritiene sé, immediatamente, il sapere reale, questo itinerario ha per lei significato negativo e, rispetto a lei, ciò che è realizzazione del concetto vale più tosto come perdita di se stessa. La chiacchiera fa esattamente questo: considera sé come il sapere assoluto, un sapere vero, reale, accertato, e, quindi, teme lo speculativo perché lo speculativo la mette in discussione; quindi, lo teme come il maggiore dei mali. Infatti, dice In questo itinerario, infatti, tale coscienza perde la sua verità. Perde, cioè, le sue superstizioni. Adesso c’è una frase che vi leggo perché molto famosa. Può quindi venir considerato come la via del dubbio o, più propriamente, la via della disperazione. Via della disperazione perché scompiglia la chiacchiera, la butta per aria. Ci sta dicendo che il dubbio non è qualcosa da togliere e poi tornare alla certezza di prima. Anzi il dubbio è il consapevole discernimento della non verità del sapere apparente, per il quale la realtà più piena consiste in quello che, per vero, è invece il concetto non realizzato. Il dubbio è il consapevole discernimento, cioè la consapevolezza della non verità del sapere apparente. Sta dicendo che questo dubbio ci serve, intanto per indicare la non verità del sapere apparente, per il quale la realtà più piena consiste in quello che, per vero, è invece il concetto non realizzato. Cioè: per questo sapere la verità più piena è il concetto non realizzato. Cos’è il concetto non realizzato? È il concetto che non ha passato la fatica del concetto, cioè, dell’in sé che va verso il per sé e torna nell’in sé; come dire che non si è posto in termini dialettici. Prosegue dicendo che è inutile appoggiarsi al sapere altrui quanto enfatizzare il proprio; entrambi non garantiscono nulla. Più avanti verso la fine di pag. 70. Invece, soltanto lo scetticismo rivolgentesi all’intero ambito della coscienza apparente, rende capace lo spirito di esaminare che cosa la verità, inducendo a disperare delle così dette rappresentazioni, pensieri e opinioni naturali;… Quindi, occorre rivolgere questo scetticismo, questo dubbio, di cui parlava prima, all’intero ambito della coscienza apparente. …è indifferente chiamarle rappresentazioni proprie o altrui; di esse è ancora grossa e inficiata la coscienza che senza preamboli si accinga all’esame; ma per questo appunto è davvero incapace di ciò che vuole intraprendere. È irrilevante che io prenda dagli altri o sia convinto delle mie asserzioni. Punto 7. Il ciclo completo delle forme della coscienza non reale resulterà dalla necessità stessa del processo e della concatenazione. Per accorgersi della non realtà del mio sapere occorre la dialettica. Per render ciò concepibile si può preliminarmente notare in generale che la presentazione della coscienza non verace nella sua non verità, non è un movimento meramente negativo, qual è invece secondo il modo di vedere unilaterale della coscienza naturale; e un sapere che di tale unilateralità faccia la propria essenza, è una delle figure della coscienza imperfetta e, come tale, rientra a sua volta nel corso di tale itinerario, e ivi verrà a mostrarsi. La coscienza naturale considera il negativo come qualcosa da scartare. Questa figura non è che lo scetticismo… Sappiamo che questo negativo, che sarebbe da scartare, per Hegel è invece fondamentale. …il quale nel resultato vede sempre soltanto il puro nulla, e astrae dal fatto che questo nulla è per certo il nulla di ciò da cui resulta. Qui prende di mira anche lo scetticismo nel senso filosofico del termine; scettiscismo che giunge a considerare il nulla come ciò cui tutto converge, cioè, non c’è nessuna possibilità di stabilire la verità, la verità è nulla. Il nulla dello scetticismo non è il nulla di cui parla Hegel. Rileggo. Questa figura non è che lo scetticismo il quale nel resultato vede sempre soltanto il puro nulla, e astrae dal fatto che questo nulla è per certo il nulla di ciò da cui resulta. Qualcosa, quindi, che giunge al nulla ma che è fatto di nulla, che viene dal nulla, perché il nulla è tutto ciò con cui abbiamo a che fare. È questo che dice lo scetticismo, non si può stabilire niente con certezza. Ma il nulla preso come il nulla di ciò da cui resulta non è, in effetto, se non il resultato verace;… Ci sta dicendo che il nulla preso come il nulla di ciò da cui resulta… ecco, questo è un altro discorso, perché questo nulla, dice Hegel, risulta invece da un processo dialettico, dove ho messo ciò che pongo, il positivo, a fianco del negativo; dove cioè tengo conto del fatto che qualche cosa è quello che è in relazione a ciò che non è. …quindi è esso stesso un nulla determinato e ha un contenuto. Non è il nulla dello scetticismo antico, il puro nulla, quel nihil absolutum, di cui parla anche Severino, di cui non si può dire niente, se ne parlo è già qualche cosa. È quello che sta dicendo Hegel: è un nulla determinato, ha un contenuto, è una negazione, si pone come una negazione e non come il puro nulla. Lo scetticismo che termina con l’astrazione del nulla o con la vacuità, non può da questa procedere oltre, ma deve aspettare se gli si possa mostrare un che di nuovo per gettarlo nel medesimo vuoto abisso. Lo scetticismo si installa in questo nulla e da lì non può più fare niente. Una volta che ha stabilito che nulla ha senso, che nulla esiste, dove vado? Non resta, come dice Hegel, che spettare che sorga un qualche cosa di nuovo per ricondurre anch’esso nel nulla. Se invece il resultato viene inteso come in verità esso è, come negazione determinata, ecco che allora è immediatamente sbocciata una nuova forma, e nella negazione è stato aperto il passaggio pel quale avviene lo spontaneo processo attuantesi attraverso la completa serie delle figure. Cioè: pongo il nulla non come fa lo scetticismo ma come una negazione determinata, una negazione che dice qualche cosa, che nega qualche cosa di preciso, nega precisamente ciò che è stato affermato, nega il positivo, ciò che è stato posto; quindi, è una negazione determinata, non è il nulla assoluto. Ma al sapere è di necessità inerente non meno la meta che la serie del processo; la meta è là dove il sapere non ha più bisogno di andare oltre se stesso, dove trova se stesso, dove il concetto corrisponde all’oggetto e l’oggetto al concetto. Dove, cioè, si è attuata la sintesi totale e, quindi, non c’è più nulla che non sia la sintesi di positivo e negativo. Il processo verso questa meta non può quindi subire arresti, né appagarsi di alcuna precedente sosta. Ciò che è ristretto a una vita naturale non ha il potere di andare oltre il proprio esserci;… L’individuo non può andare oltre il proprio esserci, non è immortale. …ma ne è tratto fuori da un Altro, e questo esserne tratto fuori è la sua morte. Ma la coscienza è per se stessa il suo concetto, ed è quindi, immediatamente, l’arte del sorpassare il limitato, e, poiché questo limitato le appartiene, del sorpassare se stessa. Quindi, la coscienza è il suo stesso concetto, non c’è la coscienza e poi il concetto della coscienza. Quando io parlo di concetto della coscienza è già coscienza, cioè, la coscienza è coscienza di sé, ha già in sé il proprio concetto. Dice l’arte del sorpassare il limitato è ciò che è la coscienza immediatamente, è questo atto del sorpassare il limitato. In che modo la coscienza sorpassa il limitato? Il limitato è ciò che qualunque concetto pone; è limitato in quanto non è l’Assoluto, non è la realtà ma un aspetto della realtà. Ci dice, però, che la coscienza sorpassa questo limite, perché punta all’universale. Ogni concetto che riguarda un qualche cosa è limitato a quella cosa ma la coscienza è invece qualcosa che sorpassa il suo limite. Il concetto della coscienza non è un concetto al pari di altri ma è un concetto particolare. Nel momento in cui si pone la coscienza in quanto concetto, questo concetto è reso possibile dal fatto che c’è la coscienza. Qui sarebbe più semplice se noi intendessimo la coscienza come il linguaggio. A questo punto diventa molto più chiaro: accorgersi del linguaggio è un qualche cosa che consente, sì, di pensare le cose ma consente anche di pensare il linguaggio, cioè di accorgersi di essere nel linguaggio, ed è il linguaggio stesso che ce lo consente. È questo che Hegel sta dicendo, anche se non parla di linguaggio, ovviamente, però la questione è questa. Il linguaggio è già di per sé il suo contenuto, non è che il linguaggio abbia un contenuto fuori di sé, il linguaggio è il suo stesso contenuto. È ciò che mi consente di pensare il linguaggio, di pensare al concetto, al contenuto. Quindi, cosa fa? Sorpassa il limitato, cioè, il qualche cosa, il quid; lo sorpassa nel senso che è sempre al di là, perché ciò che sta ponendo il linguaggio lo pone sempre al di là della singola cosa che sta dicendo. Potremmo anche dirla così: il linguaggio è sempre l’intero; in questo senso sorpassa il limite della cosa. Sorpassando questo limite, chiaramente sorpassa se stesso perché il linguaggio è sempre un sorpassarsi, è un andare sempre oltre. Ma non è che sorpassi se stesso, non può andare oltre sé. Prosegue parlando dell’angoscia. La coscienza subisce quindi da lei medesima la violenza del guastarsi ogni appagamento limitato. Ogni appagamento di una singola cosa non è mai sufficiente alla coscienza; la coscienza è come se volesse sempre di più, perché il pensiero non può fermarsi alla cosa limitata, va sempre oltre; il pensiero speculativo non si accontenta mai della cosa limitata. Lo dicevo prima: se io pongo un certo significato, una certa cosa, non sono appagato dal fatto di usare questo significato nel modo che io credo sia necessariamente quello, ma devo andare oltre, devo interrogare questa cosa, devo portarla al concetto, alla fine accorgermi che l’uso di questo significato è qualcosa che decido io. Nel sentimento di tale violenza, l’angoscia avrà un bell’arretrare di fronte alla verità, per tentare di salvare a sé ciò, la cui perdita incombe;… È chiaro che se io incomincio a pensare, molte cose a cui credevo vanno perdute, scompaiono. …ma l’angoscia non potrà trovare pace, sia che essa voglia adagiarsi in un’obliosa inerzia, - il pensiero guasta la festa al torpore mentale e la sua inquietudine guasta l’inerzia,… Se uno incomincia a pensare, tutte le cose su cui si era adagiato non reggono più, non tengono più. …sia ch’essa si corrobori in una sensitività la quale assicura di trovare che tutto è buono, a modo suo;… Questa è la chiacchiera. …ma tale assicurazione viene inficiata dalla ragione, la quale intanto trova che qualcosa non è buono, in quanto esso è un modo. Ossia, la paura della verità potrà ben occultarsi a sé e agli altri dietro la finzione che l’ardente zelo per la verità stessa la rende difficile, anzi impossibile, trovare un’altra verità al di fuori di quell’unica della vanità d’esser sempre più intelligente di qualsivoglia pensiero, provenga esso da se stesso o da altri; questa vanità che è capace di vanificare ogni verità per tornarsene poi in se stessa, e che si pasce del suo proprio intelletto il quale, dissolvendo ogni pensiero, non sa ritrovare un contenuto, ma soltanto l’arido Io, questa vanità è una soddisfazione che deve venire lasciata sola a se stessa; essa, infatti, fugge l’universale e cerca soltanto l’esser-per-sé. La vanità è quella di pensare di sapere come stanno le cose. Questa vanità fugge, per dirla con Hegel, fugge il pensiero, fugge qualunque cosa possa metterla in discussione. A questo punto inizia la seconda parte, quella sul metodo della trattazione. Ci ha detto finora che non c’è nessun metodo in filosofia, perché questo metodo ci impedisce per principio di trovare la verità, che è comunque un mezzo tra me e la cosa. Invece, per la trattazione c’è un metodo, che altro non è che la dialettica.