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26 maggio 2021

 

L’essenza della verità di M. Heidegger

 

Tutto ciò che facciamo non è che un’ulteriore riflessione intorno a come è sorto il pensiero, in che modo e come si è strutturato dall’inizio. Cosa che rende conto, o che può farci rendere conto, del motivo per cui gli umani pensano quello che pensano, e anche il modo in cui pensano. Ciò che sappiamo è che questo modo di pensare non è casuale ma è il risultato della struttura del linguaggio e, quindi, della volontà di potenza. La volontà di potenza si manifesta sempre in un modo: gli umani hanno una irrefrenabile, irriducibile necessità di dire quello che pensano, e nessuno riesce a fermarli. Questo è il modo in cui si manifesta la volontà di potenza, perché dicendo si produce qualcosa, si produce qualcosa proprio nel senso greco della ποίησις, produzione, si produce qualcosa che da quel momento c’è. Affermando ciò che si pensa si afferma o si crede di affermare una verità; affermando una verità si produce necessariamente, insieme con la verità, ciò che verità non è, ciò che la verità nega e, quindi, questa continua produzione di cose è ciò che rende per gli umani impossibile non dire continuamente quello che pensano. La volontà di potenza li costringe, per dirla così, a produrre continuamente affermazioni e, quindi, a produrre, a creare qualche cosa: una creazione continua, un’autoproduzione o, come la chiamava Gentile, autoctisi.

Intervento: Gentile come l’ultimo dei presocratici…

Capita spesso che un pensatore, quando arriva verso la fine della sua vita, ritorni agli antichi, a quelle domande più autentiche che hanno poste gli antichi e che rimangono ancora, da sempre, le domande più importanti da considerare. Negli antichi, nei presocratici in buona parte, ci sono le domande più autentiche, quelle più essenziali, quelle che si interrogano sulle condizioni stesse del pensare e, quindi, dell’esistere – pensare ed esistere in fondo è lo stesso. Questo è uno dei motivi per cui siamo tornati agli antichi, in questo caso accompagnati da Heidegger, perché lui è preciso attento sulle questioni che riguardano i termini che gli antichi hanno utilizzato. Lui si domanda proprio il perché di quei termini e ci ha spiegato bene perché άλήθεια è il disvelato. E, infatti, dice a pag. 161. La via percorsa da Platone per chiarire l’essenza della non verità va ora ripresa semplicemente ripercorrendola. A questo tentativo facciamo precedere, come nell’interpretazione del mito della caverna, un’opportuna preparazione. Là ci interrogavamo dapprima sulla parola che indica la verità, άλήθεια, e sul suo significato. Allo stesso modo adesso chiediamo: quale espressione linguistica adoperano Platone e i Greci per denominare il contrario della verità, dell’άλήθεια? La parola greca per indicare la non-verità in questo senso, divenuta poi termine tecnico, è: τό ψεύδοϚ. A pag. 164. Abbiamo già qui a che fare con variazione della velatezza che sono fra loro connesse e che si riferiscono a fenomeni davvero centrali. Menzioniamo qui ancora un solo significato di ψεύδοϚ (avendo presente ciò che incontreremo in seguito nel Teeteto: il μή ν (non-essere). Ci sta dicendo qualcosa che forse nemmeno Heidegger ha preso in considerazione a sufficienza, e cioè che il contrario dell’άλήθεια, cioè dell’essere, – sappiamo che per il greco l’άλήθεια è l’essere, è ciò che appare manifestandosi – è il falso, ciò che non è, il non-essere. Questo ci induce a riflettere bene perché se con verità intendiamo l’apparire, il manifestarsi di qualche cosa, allora con il falso dobbiamo intendere il sottrarsi di qualche cosa. Quindi, abbiamo l’άλήθεια che pone qualche cosa e lo ψεύδος che lo fa sparire. È un po’ come se ci fosse già in nuce l’idea di ciò che si pone dicendo e del posto che invece dilegua: io pongo una cosa, ma questa cosa che pongo scompare. È chiaro che non c’è una separazione tra il posto e il porre – Hegel direbbe che sono due momenti dello stesso, inseparabili, così come non posso separare il mio dire da ciò che il mio dire dice. E così il porre, il posto, l’άλήθεια è lo ψεύδος possiamo intenderli allo stesso modo. A pag. 166. Abbiamo così davanti a noi questa situazione: ciò che sta nell’opposizione verità/non verità è, linguisticamente, del tutto indipendente: άλήθειαψεύδος. Il fatto apparentemente indifferente che la parola che sta per non verità abbia una radice diversa da quella che indica la verità diventa della massima portata per la storia del concetto di verità. Viene spontaneo chiedersi se i Greci non avessero anche un concetto opposto a ά-λήθεια. Se in greco il concetto opposto a ά-λήθεια fosse concepito in modo linguisticamente corrispondente come accade per noi (semplicemente: velatezza), allora la parola opposta dovrebbe essere formata sulla stessa radice in modo tale che il dis-, l’alpha privativum, verrebbe semplicemente a cadere: “λήθεια”. C’è qualcosa del genere in greco? Assolutamente no! I Greci conoscevano λήθη, λάθω, λήθομαι, λανθάνω, λανθάνομαι. I significati di questo intero gruppo di parole gravitano intorno al significato fondamentale dell’esser-velato e del rimanere-velato (esso vi traspare) – ma nel senso di una strana e decisiva variazione, di un indebolimento che dobbiamo avere chiaramente davanti agli occhi e di cui dobbiamo tenere conto per comprendere ora fino in fondo l’effettivo significato di άλήθεια: per lo più λήθη viene intesa come dimenticanza. A pag. 168. Ora però sappiamo, o (detto on cautela) dovremmo considerare con maggiore insistenza di prima, che per i Greci l’essere dell’ente significa presenza. Ciò che di più grande, e perciò di più pericoloso, può accadere all’ente è questo: che esso sia assente, non ci sia, sia via: l’insorgere dell’assenza, l‘esser-via dell’ente. Questa è la cosa più drammatica, dice Heidegger, che possa accadere all’ente: di sparire, di cessare di essere svelato. Non nel senso che si vela un’altra volta, ma nel senso che non c’è; perché ciò che è scomparso è ciò a cui non si ha accesso. Potrebbe essere per noi immediatamente evidente l’accostamento di tutto ciò con l’immanente e il trascendente: il trascendente è ciò che è via, che non c’è, che non c’è nel senso dell’άλήθεια, della svelatezza, che non è dis-velato, è in questo senso che non c’è, non che non esista in assoluto; non è dis-velato, non è presente. Come diceva prima, per i Greci l’essere è l’ente così come appare; se non appare, non è. Il trascendente non appare, nessuno lo vede, per es. il significato: qualcuno ha mai visto un significato? Neanche il significante vedo, ma quanto meno lo sento, c’è una percezione, c’è qualcosa di immanente. Il significato no; tuttavia, sappiamo che senza significato il significante non esiste. A pag. 170. Il vero è ciò che non è via, ossia che è presente; ma ciò che è presente è per il Greco l’ente. Così l’ente, in quanto ciò che è reale, è al tempo stesso il vero in quanto “non-via”. Così capiamo perché per i Greci άλήθεια possa essere presenza e sinonimo di essere (posto che non smettiamo di pensare anche al fatto che per i Greci essere significa: presenza). Che realtà e verità vengano equiparate non è affatto una cosa ovvia, ma scaturisce dal significato del tutto specifico che “essere” e “verità” hanno in greco. Infatti, nel momento del non-via in quanto non-velato e del non-via in quanto presente, i significati greci di verità ed essere si incontrano. “Non-via”, dunque “non velato”, dunque “vero”; “non-via”, dunque “presente”, dunque “ente”. Perciò il Greco può dire ντως ν (essere in quanto tale) e άληθς ν (verità in quanto tale) con lo stesso significato. (Anche noi diciamo : “realmente e veramente esistente”, ma senza pensare ciò che diciamo. A pag. 180. Qui incomincia a parlare del Teeteto, uno dei dialoghi platonici dove si parla della conoscenza. Incontriamo Socrate, il matematico Teodoro e il giovane Teeteto che dialogano, nell’atto in cui Socrate dice a Teeteto: –Inoltre dunque, o Teeteto, in riferimento a quanto detto, considera questo: percezione è sapere (costituisce l’essenza del sapere), hai risposto così, non è vero? “Sì”. Qui sentiamo che Socrate si richiama a quanto detto finora. Nella discussione precedente Teeteto ha dato una risposta il cui contenuto è il seguente: l’essenza del sapere consiste nella percezione. Ne ricaviamo che la domanda guida del dialogo suona: τί έστιν έπιστήμη; che cos’è il “sapere”? Nell’intento di ottenere risposta a questa domanda, Socrate l’ha formulata fin dal principio del dialogo in modo del tutto chiaro, e ha esortato Teeteto: “Ma dimmi francamente: che cosa ti sembra che sia il “sapere”? A pag. 181. Come ascoltatori – ascoltatori veri, cioè che pongono a loro volta questioni – lasciamoci coinvolgere in questa domanda: che cos’è il sapere? Una domanda strana, e in fondo anche stravagante. Che cosa sia “il sapere” può interessare gli studiosi, ma neppure costoro rivolgeranno il loro interesse primario a una domanda del genere né la prenderanno particolarmente sul serio. Al contrario essi concentreranno i loro sforzi su un determinato sapere circa determinati ambiti del sapere, per averne una visione d’insieme, per penetrarli e dominarli. Qui ci avviciniamo alla questione, che Heidegger dice ogni tanto ma non coglie mai per l’importanza che ha, e cioè che la conoscenza è potere. Ma che cosa sia il sapere in generale è una domanda del tutto vuota. Questa è certamente la risposta che darebbero i “filosofi”, soprattutto quelli di oggi; ma proprio questa è l’autentica domanda filosofica! In che cosa consiste infatti tale scienza, la filosofia, a differenza di altre? Filosofia nell’accezione di Heidegger, naturalmente. Le scienze si sono suddivise tra loro, per il loro lavoro di ricerca, i singoli ambiti dello scibile, cioè tutto l’ente. Per la filosofia non resta più alcun particolare ambito del sapere. Ma le rimane una cosa: interrogarsi sul sapere stesso in quanto tale, sulla possibilità del sapere stesso in quanto tale, sulla possibilità del sapere in generale, e ciò significa per essa: sulla possibilità della scienza in quanto tale. Perché è possibile la scienza? Che cosa la rende possibile? Ecco, è questa la domanda. Il sapere in quanto tale, che cosa esso sia: questo è l’ambito della teoria della scienza, il cui compito più generale è ricercato in una teoria della conoscenza. A pag. 182. La domanda che pone Platone non soltanto non è una domanda gnoseologica; la domanda su che cosa sia il sapere non riguarda nemmeno solo il sapere come conoscenza teoretica e come un’occupazione degli studiosi. La domanda τί έστιν έπιστήμη chiede: che cos’è, nella sua essenza, ciò che conosciamo sotto il nome di έπιστήμη? Di fronte a questa domanda sorge per noi un interrogativo preliminare: che cosa significa έπιστήμη per i Greci, prima di questa domanda platonica? Dobbiamo tenere conto – Heidegger ce lo ha suggerito – che già in Platone, e ancor più in Aristotele, alcuni concetti, come ad es. άλήθεια, vengono posti come già dati, come acquisiti, non sono più interrogati. Vediamo se accade lo stesso con έπιστήμη. Dobbiamo prima rispondere all’interrogativo preliminare; soltanto dopo possiamo determinare, per un aspetto, su che cosa ci si interroghi in questo importante dialogo. Τί έστιν έπιστήμη: se Platone pone questa domanda, allora egli comprende già che cosa significhi έπιστήμη, nel senso che per ogni Greco έπιστήμη dice qualcosa. Come accade per noi: chiunque parla di scienza, cioè, per chiunque il significante scienza dice qualcosa – che cosa dica esattamente, questo è un altro discorso –, però se usa questa parola, se la sa usare, se ha imparato a usarla, è perché questo termine “scienza” ha quantomeno un rinvio. Questo significato così ovvio di έπιστήμη nel dialogo non viene discusso, ma presupposto. Vedete come abbiamo già perso l‘autenticità del domandare “presocratico”. Noi però dobbiamo innanzitutto fare chiarezza su che cosa significhi έπιστήμη nel suo significato consueto, prima di ogni discussione filosofica, e quindi come punto di partenza del dialogo filosofico. ‘Επισταμαι significa: mi metto di fronte a qualcosa, mi avvicino a una cosa, me ne occupo, e invero per venirne a capo ed esserne all’altezza. In questo, cioè nel por-si-di-fronte-a-una-cosa (per esserne all’altezza), c’è al tempo stesso un venire a stare al di sopra di una cosa…Επι, sopra, στήμη, stare, quindi, stare sopra. Potremmo ricordare la nozione di verità di cui parla Heidegger nel Parmenide: la pone etimologicamente connessa con l’albero, ben piantato per terra, Wahr, da cui poi verità in tedesco Wahrheit, la veritas latina come qualcosa che è ben piantato per terra e che dall’alto domina tutto. …uno stare al di sopra di essa e quindi un intendersene di essa (verstehen) (=σοφία); ad esempio intendersene della cosa e della conservazione di qualcosa: agricoltura, allevamento; oppure intendersene della realizzazione ed esecuzione di qualcosa: strategia di guerra, arte bellica. Tutto questo significa fin da principio έπιστήμη: l’intendersene che padroneggia una cosa (scritto in corsivo) e il modo in cui trattarla e in cui comportarsi in essa. Da questo significato fondamentale di έπιστήμη ricaviamo due cose: 1. Tale intendersene che padroneggia qualcosa si estende attraverso tutti i possibili comportamenti dell’uomo a tutti gli ambiti possibili e secondo tutti i rispettivi modi d’approccio possibili;… Quindi, ricalca in effetti la questione della veritas latina, cioè il sapere veramente qualcosa con certezza. A tutt’oggi con έπιστήμη si intende questo: un sapere certificato, verificato, quello scientifico, per intenderci.

Intervento: È un utilizzabile…

Esattamente. Proprio lì volevo arrivare. Il sapere nel pensiero mitico non è certificato, verificato: Dio ha voluto questo, ma come lo verifichiamo? Magari con le budella dell’agnello, però non è una verifica così decisiva. Quindi, ecco, come accennava Gabriele, il sapere come il rendere qualcosa un utilizzabile, uno strumento, Gestell, diceva Heidegger, e cioè un dispositivo, qualcosa che serve. Per che cosa? Sì, certo, per altro, ma Gestell è proprio la parola giusta perché, per es., prendete un treppiede, viene costruito per qualche cos’altro, non per se stesso. In quanto tale un treppiede non significa niente, ma serve perché sul treppiede ci posso mettere delle cose. Quindi, il sapere, inteso come έπιστήμη, è, sì, certo, uno stare sopra e dominare, ma questo intendersene, questo sapere come fare, è un sapere utilizzare. È questo che ci sta dicendo: esserne all’altezza, sapere come fare, come utilizzare. In effetti, potremmo tradurlo così: un sapere da utilizzare. Qui siamo in piena tecnica. A pag 184. La nostra lingua conosce in effetti un significato di “sapere” che corrisponde esattamente all’originario significato di έπιστήμη; noi diciamo: qualcuno sa comportarsi (oppure no), sa imporsi, sa rendersi benvoluto. Continua a insistere questo aspetto dell’imporsi, del dominare su qualcosa o su qualcuno. Questo per Heidegger è il significato più autentico di έπιστήμη. A pag. 185. Qui sta parlando del che cos’è qualche cosa e fa l’esempio del libro: che cos’è un libro? Dice che è un aggeggio fatto in un certo modo e che serve per certe cose. Bene, quella che all’inizio era la risposta viene messa a sua volta in questione; ma dove sta scritto che cosa sia un “libro in generale”? In che direzione domandiamo, domandando in questo modo? Da dove dobbiamo desumerlo? Sembra facile: prendendo e confrontando singoli libri! Singoli libri? E donde noi sappiamo che sono dei libri, se prima di tutto domandiamo proprio che cosa sia un libro? Qui sta dicendo una cosa straordinaria, ma per il momento proseguiamo. Così, con la domanda apparentemente innocua e semplice “che cos’è?”, ci cacciamo in una confusione senza limiti. Quando sottoponiamo qualcosa alla domanda “che cos’è?”, dobbiamo da un lato conoscere già questo “che cosa” per addurre degli esempi utili al confronto e tuttavia, dall’altro, è proprio questo ciò che vogliamo sapere. Ma non è l’unica difficoltà. Nel porre la domanda “che cos’è?” su cose che sono presenti, può anche essere relativamente facile prenderne più di una per il confronto – o almeno pensarle come presenti. Ma come la mettiamo con la domanda che cos’è l’intendersene (έπιστήμη)? Non è che questo intendersene possiamo metterlo da parte o confrontarlo con altre cose. Qui non abbiamo a che fare con una cosa che si dà così semplicemente come i libri o i sassi. Di fronte alla multiforme essenza dell’intendersene, come possiamo decidere in generale, e anticipatamente, se nella singola evenienza di un intendersene esso ci sia davvero? … il domandare è la preparazione e la condizione di possibilità di una legislazione. Chiedersi “che cos’è propriamente il sapere?” equivale a interrogarsi su che cosa importa propriamente in esso, cioè: come viene reclamato l’uomo, se vuol sapere, in esso e per esso? Quando Heidegger parla dell’uomo intende l’esserci. Dice Chiedersi “che cos’è propriamente il sapere?” equivale a interrogarsi su che cosa importa propriamente in esso, e cioè: perché l’uomo se lo chiede? Poniamola in modo paradossale: che cosa vuole sapere l’uomo che si interroga sul sapere? Se consideriamo per di più che qui si fa questione di un comportamento umano, e non già di uno qualsiasi, bensì di un comportamento fondamentale dell’uomo, che governa e rende possibile tutto il suo esserci, allora la domanda guida del Teeteto, “che cos’è il sapere?”, diventa la domanda su come l’uomo medesimo voglia o debba prendere se stesso nel suo comportamento fondamentale, quello dell’intendersene delle cose, la domanda sulla condizione in cui egli vuole o deve essere, sotto quest’aspetto, se dev’essere un “sapiente”. Torna l’intendersene delle cose. Ma ce l’ha spiegato prima che cos’è l’intendersene delle cose: è dominarle. In questa domanda: “che cos’è l’έπιστήμη?” l’uomo si interroga su se stesso. Interroga se stesso in quanto interrogante, cioè, si chiede perché si sta chiedendo una cosa. Ecco la questione delle domande fondamentali, domande antiche, essenziali, originarie. Questo interrogare conduce l’uomo stesso dinanzi a nuove possibilità. La domanda “che cos’è?”, in apparenza innocua, ci si rivela come un’aggressione che l’uomo fa a se stesso, al suo provvisorio perseverare in ciò che è a tutta prima usuale e alla sua smania di ciò che a prima vista gli basta; un’aggressione dell’uomo a ciò che sulle prime crede di sapere e al tempo stesso un intervento determinante in ciò che egli stesso può essere, ovvero vuole o non vuole essere. Vuole o non vuole essere: volontà di potenza. Potremmo dirla così: l’aggressione, di cui parla Heidegger, è l’aggressione che mette in atto la volontà di potenza, che vuole essere in un certo modo. Prima dicevo di questa irrefrenabile necessità di dire ciò che si pensa: ciascuno vuole in modo irrefrenabile produrre qualcosa, perché è fatto di linguaggio, è linguaggio, e il linguaggio si pone e ponendosi pone anche il posto, cioè, ciò che il porre non è. A pag. 189. L’intima preparazione alla comprensione di questo dialogo (e degli altri lavori di Platone) comporta, accanto al chiarimento di che cosa è in questione e di come se ne fa questione, anche l’esposizione del modo in cui sono connessi fra loro ίδεν e έπιστασθαι – ovvero il vedere una cosa e il padroneggiarla nella comprensione – L’idea è come si padroneggia, come si utilizza qualcosa. A questo punto del pensiero siamo già nella tecnica, perché è già questa la domanda: come lo utilizzo? Come funziona questa macchina? Come faccio girare la rotellina? …nell’unità dell’essenza della conoscenza e del sapere in senso lato, così come questa essenza viene intesa in senso greco. Cioè come l’essere, la presenza di qualcosa. Noi offriamo questa esposizione solo nei suoi tratti principali, mirando in tal modo a rendere nuovamente visibile la nostra domanda sull’essenza della verità in quanto svelatezza. È chiaro che gli atteggiamenti in sé fondamentalmente diversi del “vedere” e del “padroneggiare” qualcosa possono prefigurare assieme (unitariamente) l’essenza del conoscere e del sapere solo qualora essi stessi concordino in qualcosa di essenziale. E che cos’è questo qualcosa? Lo cogliamo se concepiamo entrambi, ίδεν e έπιστασθαι, in modo più originario. Sta ponendo questa questione: l’idea di qualcosa e il vedere questa cosa sono lo stesso, sono cioè volontà di potenza? Sono la volontà di dominare qualche cosa? Cominciamo con il vedere. Perché per i Greci l’atteggiamento con cui il conoscere si rappresenta per così dire sensibilmente è il vedere con gli occhi, e quindi una determinata attività dei nostri sensi, come diciamo noi? Si potrebbe pensare che sia perché il vedere è un modo di cogliere che consente anzitutto di appurare differenze piuttosto nette e precise, inoltre rende accessibile in un ambito multiforme nella sua molteplicità. In realtà non è per questo, ma piuttosto per il fatto che il vedere offre più di ogni altro senso la corrispondenza con ciò che, anticipatamente e anzitutto in termini preconcettuali, vale come momento fondamentale del conoscere, cioè che esso è in qualche modo un coglimento dell’ente. L’ente però significa per i Greci, come non ci si deve stancare di ribadire, ciò che è presente. Il modo di cogliere e determinare l’ente deve predisporsi a e regolarsi su ciò che va colto. Il cogliere e il conoscere ciò che è presente in quanto tale, ovvero ‘ente nella sua presenza, dev’essere un avere-presente. E il vedere, l’avere-sott’occhio, il tenere-in-vista, è in effetti la modalità predominante, più appariscente, più immediata e al tempo stesso più efficace e più ampia dell’avere-presente qualcosa. Tenere in vista: tenere sotto controllo. A causa del suo carattere distintivo del rendere-presente, il vedere sensibile assume il ruolo di paradigma della conoscenza, intesa come coglimento dell’ente. L’essenza del vedere è: rendere presente e tenere presente, tenere qualcosa nella presenza, cosicché esso sia manifesto, ci sia nella sua svelatezza. Tutti questi termini, come il tenere, il mantenere, la presenza, richiamano ciò che diceva prima, cioè del sapere come utilizzare. Il vedere e il mantenere qualcosa presente, che cosa significa questo? Impedire che dilegui, e cioè averne il controllo. Ecco perché è importante la vista per i Greci: il vedere è il mantenere in presenza qualche cosa, quindi, tenerlo lì, sotto mano, come diceva prima Heidegger, tenere sotto mano qualcosa. A pag. 193. Capitolo II, Inizio della discussione della prima risposta di Teeteto, έπιστήμη è αϊσθησιϛ (percezione). Delimitazione critica dell’essenza della percezione. Parliamo di percezione, ma sappiamo di che cosa stiamo parlando oppure no? La domanda guida del dialogo suona: τί έστιν έπιστήμη. Il sapere è inteso adesso sempre nel significato dell’intendersene di qualcosa. Questo intendersene è un saperci fare. La prima risposta che viene data è questa: έπιστήμη è αϊσθησιϛ. È la risposta che diede Teeteto: conoscenza è percezione. Noi traduciamo: il sapere è “percezione”. Questa traduzione è corretta nella lettera (dal punto di vista lessicale). Eppure si può mettere in dubbio che con essa esprimiamo l’autentico contenuto del problema specificamente greco insito in questa risposta. Come mai si arriva a questa tesi (il sapere è percezione)? Riflettiamoci sopra sulla base di ciò che siamo venuti a sapere dalle precedenti considerazioni sull’άλήθεια! Se il sapere è in qualche senso possesso di verità… Qui è interessante vedere come Heidegger sta procedendo, richiamando il pensiero antico, interrogandolo, mettendolo sempre a confronto con ciò che pensiamo oggi. Se il sapere è in qualche senso possesso di verità… Possesso di verità: questi termini non sono casuali. …e se la percezione deve costituire l’essenza del sapere, allora la percezione deve portare con sé qualcosa come la verità. Di più: affinché il tentativo di rispondere alla domanda sull’essenza del sapere in generale avanzi nella direzione della risposta or ora data, cioè affinché la percezione venga presentata, in maniera del tutto naturale – cosa che accade anche nel dialogo - come ciò che porta con sé la verità, dev’essere proprio l’αϊσθησιϛ, la percezione stessa, a dare in qualche modo adito a questo. Cioè: la percezione deve portarci al concetto di verità. In essa deve celarsi qualcosa che suggerisce senz’altro di reclamarla come ciò che mostra il carattere di possesso della verità, e che le conferisce perciò l’attitudine a essere in primo luogo “sapere”. Ora, la verità, άλήθεια, equivale alla svelatezza dell’ente, cioè al fatto che l’ente è manifesto, si mostra. Dove accade qualcosa del genere, cioè che l’ente si mostra, lì, per il Greco, c’è άλήθεια. Qui si chiede: dove qualcosa accade, cioè che l’ente si manifesta? Ora, però τό αίσθάνεσθαι, l’essere percepito, non riguarda nient’altro se non φαίνεται, ciò che si mostra, cosicché abbiamo l’equazione: αίσθάνεσθαι = φαίνεσται, essere percepito = mostrarsi. Questo è il gioco che Heidegger fa con i termini greci. Platone designa questo mostrante-si senz’altro come φαντασία. Questa equivalenza di αίσθάνεσθαι con φαίνεται (φαντασία) si trova nel dialogo (152 c 1). Dobbiamo guardarci dal tradurre il termine greco φαντασία con la parola “fantasia”, che da essa deriva, intendendo poi fantasia come immaginazione e questa a sua volta come un’esperienza vissuta e un evento psichico. Così facendo non ci avviciniamo infatti al significato del termine greco φαντασία. Qui φαντασία designa: 1. non un’attività psichico-soggettiva o la relativa facoltà, come potrebbe essere l’“immaginazione”, bensì qualcosa di oggettuale. 2. Da quel che si è detto si potrebbe supporre ora che φαντασία non significhi invero immaginazione (nel senso di un comportamento psichico), quanto il suo correlato oggettuale, ciò a cui l’immaginazione si rivolge: l’immaginato, l’inventato, il non-reale a differenza del reale; come quando diciamo che quello che uno racconta è pura “fantasia”. Ma anche questo non coglie il significato di φαντασία; in senso greco φαντασία è effettivamente e semplicemente il mostrante-si nel suo mostrarsi, comparire, presentar-si, nella sua presenza – proprio come ούσία: ciò che è lì presente (τά χρήματα) nel suo essere lì presente. Χρήμα è la cosa, ma la cosa che ha un valore, che vale, che è importante, perché per la cosa ha un altro termine che è πράγμα, da cui pragmatico, cioè colui che si attiene alle cose. Χρήμα è la cosa che vale, importante, e, infatti, uno dei suoi significati è ricchezza. Dunque, φαντασία è il mostrante-si nel suo mostrarsi, nel suo essere lì presente. Una φαντασία è per esempio la luna che appare in cielo, cioè che vi compare e vi è presente; essa è qualcosa che si-mostra. Schleiermacher traduce molto appropriatamente φαντασία con “Erscheinung” (fenomeno); solo che non bisogna fraintendere il termine nel senso dello “Schein” (parvenza). Si tratta dell’autentico concetto kantiano di “fenomeno”: ciò che si mostra. Questo libro è un fenomeno: qualcosa che si mostra da se stesso. Questo è il senso di φαντασία. Il termine si è in seguito trasformato. A pag. 196. (Teeteto, che mette insieme la percezione con il sapere) Lo fa perché intende l’αϊσθησις da greco: perché l’essere percepito sembra essere la modalità più immediata della svelatezza di qualcosa,… Ecco come Heidegger arriva alla questione: perché per il greco, per Teeteto, che era lì, ai suoi tempi, l’essere percepito significa che c’è qualcosa di disvelato. Così diventa chiaro perché una mente lucida giunga spontaneamente anzitutto a questa risposta, che solo a un “filosofo” degenerato appare una mostruosità. Se pensiamo in senso greco, presentare innanzitutto l’αϊσθησις come possesso di άλήθεια, cioè come sapere, è la cosa più ovvia.

Intervento: …

Due passaggi. Il primo è quello di cui dicevo la volta scorsa e che è avvenuto con Parmenide, e cioè il porre qualche cosa di stabile, di fisso, da cui muovere: l’essere è per virtù propria. Però, la domanda, essendo lui presocratico, riguarda ancora la questione essenziale “che cosa c’è?” e “perché è così com’è?”. Il passaggio successivo, Platone e Aristotele, “è così!” e da lì si parte: è così, come l’άλήθεια, è la verità e chiuso il discorso. Non c’è più un interrogare l’άλήθεια, viene data come un significato ovvio, scontato. A pag. 204. Per prima cosa bisogna ricordare in breve il significato generale della parola ίδέα già trattato in precedenza; ίδέα è ciò che è avvistato, e precisamente nel suo essere avvistato. Dove c’è ίδέα, là ci sono vista e visibilità (visività, qualcosa che forma la vista). “Vista” è un termine ambiguo: indica ciò che è vedente, la vista come possibilità di vedere – e ciò che si-mostra, la vista come veduta. Entrambe sono “alcunché di visivo”, cioè che offre veduta, presenza. Il vedere è vedere una veduta, avere-una-veduta-su… Ciò che è comune a entrambe e le unifica come fondamento è il visivo. Che per i Greci, come sappiamo, è fondamentale. A pag. 206. Per il momento dobbiamo solo stare a vedere e chiarire questo: dobbiamo tenere presente, prima di ogni teoria, che in generale ogni percetto che ci si fa incontro si trova assieme, si estende sempre assieme in un ambito dell’apprendibile che ci circonda; esso deve, estendendosi, trattenersi, e, più precisamente, raccogliersi in un’unità, che è qualcosa come un’ίδέα. Questa unità non sorge da, con e attraverso singole percezioni e il loro percetto, il loro colore e il loro suono, bensì quest’ambito unitario dell’apprendibilità è tale είς … - è “qualcosa in vista di cui…”, che dunque c’è già. Esso attende, per dir così, ciò che si estende assieme e si ritrova assieme in esso e al suo interno, e che di quando in quando, e in fondo costantemente, ci si fa incontro nella percezione. Ci sta dicendo che ciò che viene percepito è già da sempre presente, perché se è nel linguaggio non può comparire ex nihilo, perché il linguaggio non è nihil ma è qualcosa. Occorre che ci sia il linguaggio perché qualcosa compaia. Per Platone, che non ha dimestichezza con la questione del linguaggio, sono le idee, ovviamente. La cosa diventa uno nell’idea; idea che è quella cosa che consente la presenza dell’ente, così come il linguaggio consente la presenza di ciò che si dice, così come il concreto consente la presenza dell’astratto. A pag. 207. Più precisamente: nella misura in cui è ogni volta quell’unica e identica cosa che tiene davanti e sostiene per il nostro sé l’ambito di una apprendibilità unitaria, l’anima in quanto tale, secondo la sua essenza, è sempre già entrata in rapporto con il percepibile. Anzi, essa non è qui nient’altro se non appunto questo rapporto con il percepibile che prospetta l’ambito di possibile apprendibilità, questo rapporto con l’apprendibile, che apre quest’ambito e lo mantiene aperto. Solo un tale rapporto con l’apprendibile in generale ha l’attitudine di porre al proprio servizio, nel suo apprendere, qualcosa come gli organi sensibili. Infatti anima, così intesa, ha in se stessa il carattere del rapporto, è estesa-verso… L’anima, intesa come un rapportarsi, è chiaro che è sempre estesa-verso, è una relazione, è un rinvio. Potremmo dire così: l’anima, lo psiché, in accezione greca è un rinvio. …e in quanto è questa estensione è già un possibile “tra” che permette l’inserimento di qualcosa come l’occhio, l’orecchio, ecc. Solo poiché è possibile un tale inserimento, qualcosa del genere diventa ciò che possiamo caratterizzare come διο, ciò attraverso cui qualcosa viene percepito. La questione qui è interessante perché il ciò attraverso cui qualcosa viene percepito è il linguaggio, cioè è relazione. Dicendo che il linguaggio è relazione, in effetti si è già detto praticamente l’essenziale. Si è già detto che è un rinvio, si è già detto che ciascuna cosa è quella che è in virtù di ciò verso cui rinvia, verso cui tende; vale a dire, è ciò che è per via del suo fine. Ma sappiamo qual è il fine: è la volontà di potenza. È la volontà di potenza che, ponendosi come il significato di qualche cosa, rende il significante ciò che è. A pag. 212. διανοείν non significa affatto “pensare”. Come si traduce generalmente. Piuttosto: νοείν significa “apprendere” e διά “attraverso”;… Quindi, apprendere in una relazione, sempre. …prendere una cosa attraverso l’altra, apprendere prendendo attraverso; attraverso fra l’una e l’altra cosa, apprendere questo e quello, ciascuno per sé e nelle loro relazioni. Dobbiamo sentire insieme una duplicità, cioè intendere questa “apprensione” in quella caratteristica e feconda duplicità che la parola ha, e non casualmente, anche nella nostra lingua… A pag. 213. Tradurre διανοείν con “pensare” significa semplicemente non pensare; infatti, si smette di pensare che cosa qui si intende con “pensare”, e per di più non si pensa che Platone, proprio sviluppando la questione posta dell’έπιστήμη, si sforza prima di tutto di definire l’essenza del διανοείν nel senso anzidetto. Certamente da questo lavoro di Platone e dal suo misconoscimento, cioè lungo la via di un decadimento, è scaturito più tardi il concetto del “pensiero” e della ratio, dal quale poi la filosofia occidentale è stata portata sulle vie che hanno condotto all’odierna decadenza. … Siamo ben lontani dall’esagerare se diciamo che in questa breve sezione del nostro dialogo riposa la possibilità della filosofia occidentale fino a Kant. Quanto più tardi fu sviluppato fino a farne delle discipline, in relazione al problema trattato nella breve sezione citata del Teeteto, è certamente “progresso”, ma il “progresso” è in filosofia qualcosa di inessenziale. Infatti, non c’è progresso ma un continuo ritornare all’origine, alla domanda originaria, alla domanda autentica. L’autenticità e la forza del comprendere filosofico possono essere misurate solo da ciò: se e come siamo all’altezza dell’inizio – se, dovendo ricominciare noi stessi, siamo in grado di cominciare dall’inizio. Ma per fare questo dobbiamo prima lasciar perdere tutto quanto è stato escogitato in seguito, tutto ciò che si è letto e solo imparato, in modo da avvertire l’origine di un domandare elementare che parta dalla realtà più viva. Se in filosofia non ritrasformiamo costantemente ogni cosa in questa direzione, restiamo fermi a uno spostare di qua e di là concetti, senza fondamento e utilità – un affare in cui hanno sempre avuto il sopravvento la sregolata agilità del letterato o l’insipida “puntualità” del pedante. Come vi dicevo prima, questo testo è interessante anche per cogliere il modo in cui Heidegger interroga le questioni e procede lungo questo interrogare, facendo lui stesso ciò che dice che occorre fare, e cioè riprendendo il modo greco di pensare le cose, per cercare di intendere, intanto come pensava il Greco, e poi come questo si è via via trasformato nel modo in cui pensiamo ancora oggi. Pensate alla trasformazione del termine φαντασία. Per noi fantasia è un termine negativo, qualcosa di poco importante; per il Greco è lo svelarsi del disvelato, era ciò che appare, quindi, la sostanza, perché lui si accorge che ούσία non è altro che l’abbreviazione di παρούσία, che non è altro che il manifestarsi di qualcosa nel suo essere manifesto. Quindi, la sostanza è l’apparire di qualcosa, il manifestarsi, il divenire presente.