INDIETRO

 

 

26 aprile 2023

 

I concetti fondamentali della filosofia aristotelica di M. Heidegger

 

Siamo a pag. 229. Aristotele paragona νούς (pensiero) e φῶς (luce). Come un colore perviene al suo esser-ci solo grazie alla luce, è nel suo “Ci” solo in quanto sta nella luce – esser-ci in quanto illuminazione caratteristica – così ogni ente che “ci” è, in quanto ente, necessita, per esserci, di un’illuminazione di fondo. L’ente stesso, in quanto ente che “ci” è, deve avere la possibilità dell’essere-aperto. Questa possibilità altro non è che il νούς. È il pensiero che rende aperte le cose per cui sono accessibili. La determinazione fondamentale del νούς, il “pensare” qualcosa, è il δυνατόν, la “possibilità” tout court dell’essere-aperto, del “Ci” di qualcosa – in esso si muove e si trattiene ogni cogliere concreto. Avete inteso bene quello che sta dicendo qui Heidegger? Il pensiero è la possibilità stessa che ci sia qualunque cosa, che qualcosa “ci” sia. In quanto tale, il νούς è άπαθές, “non gli può capitare nulla”: piuttosto, esso è la condizione della possibilità che al vivente capiti qualcosa, che per la vita qualcosa “ci” sia. Vi rendete conto di che cosa sta dicendo? Heidegger stesso non si stava rendendo conto di quello che andava dicendo, e cioè che il νούς è la condizione perché qualcosa esista. Di conseguenza, in riferimento all’essere-aperto dell’essere-in,… Per Heidegger l’essere-in sta per essere nel mondo. Essere-aperto significa essere nel linguaggio, perché senza linguaggio non c’è né apertura né chiusura, non c’è niente. …il νούς è più di quanto l’uomo possa essere, poiché il modo in cui l’uomo afferra questa possibilità, il νούς, è il διανοεῖσθαι (conoscenza). Nella misura in cui costituisce l’essere-aperto dell’uomo, il νούς è un διά (divisione)… La conoscenza comporta una divisione delle cose. …essendo la vita determinata da λύπη (dispiacere) e ήδονή (piacere). È interessante che qui dica una cosa del genere, perché la vita, in effetti, è fatta di questo, di piacere e dispiacere, ma potremmo dire di soddisfazione e insoddisfazione: se sono insoddisfatto vuol dire che le cose non vanno come voglio io, mentre sono soddisfatto quando vanno come voglio io. Il νούς è la condizione fondamentale della possibilità dell’“essere nel mondo”, che, come tale, sovrasta l’essere di volta in volta concreto del singolo uomo. Essere nel mondo è il modo con cui ciascuno c’è, e questo lo si deve al νούς, al pensiero, cioè, al λόγος, in definitiva. Va tenuto presente che Aristotele nella spiegazione condotta dal capitolo 3 al 5, mantiene un approccio totalmente descrittivo: la sua dottrina del νούς non è un qualche genere di teoria, ma nasce dall’esperienza concreta; egli l’ha sviluppata solo entro certi limiti del modo in cui vedeva di fatto la questione. Ha lasciato cadere l’indagine del νούς perché oggettivamente non era in grado di proseguire. Noi oggi possiamo anche dire il perché. È chiaro che se non ci si accorge che il νούς non è altro che λόγος, allora si va a cercare il νούς da qualche altra parte e non lo si troverà mai. In quanto δυνατόν (possibile), il νούς è definito in modo più preciso δεκτικόν τοῡ εἳδους, “capacità di accogliere” il relativo εἶδος, l’“aspetto” di un ente. Il νούς viene cioè definito come la capacità di accogliere l’ente. Bisogna però tenere conto di ciò che diceva prima, e cioè che il νούς è la possibilità che ci sia l’ente, quindi è la possibilità che ci sia l’ente e insieme a questo è anche la possibilità di conoscerlo. Il νούς è la luce in cui si vede l’aspetto di qualcosa. Non c’è nessuna indagine sulla luce in quanto tale, la luce è il pensiero, è il pensiero che dà luce. Ma, allora, quando lui parla di quel raggio di luce che illumina, che sarebbe l’essere che illumina e consente di cogliere l’ente, questo essere, tenendo conto di ciò che sta dicendo qui, non è altro che il λόγος o il νούς, che sono la stessa cosa. Ciò che viene detto della luce in riferimento al colore (αἴσθησις (percezione) viene detto in linea di principio del νούς, in riferimento alle determinazioni ontologiche di ogni ente in quanto tale. Cioè, è il νούς, il pensiero, che fa esistere le cose in quanto tali. La domanda concreta che Aristotele, introducendo l’argomento, pone è la seguente: fino a che punto il νούς appartiene o men al concreto essere dell’uomo? Esiste un ἳδιον πάθος τῆς ψυχῆς (una sensazione specifica relativa alla ψυχή)? Qui ψυχή non è altro che l’essere vivente in quanto vivente, in quanto parlante. Il modo in cui il νούς costituisce l’essere del vivente… Ecco, qui il νούς è diventato l’essere. Non dico che ci sia arrivato miracolosamente, adesso arriva alla questione, ma è diventato l’essere, né più o meno. Infatti, concorda con ciò che dicevamo prima: il νούς come ciò che dà luce e illumina, ciò che illumina è l’essere, ed è l’essere che apre all’ente. …è tale che questa determinazione caratterizza l’essere del vivente facendone un ente proprio? La pone come domanda, la domanda di Aristotele. Il νούς è da intendersi come μέρος ψυχῆς χωριστόν? Cioè come se fosse parte di un tutto, di una qualche altra cosa. Aristotele decide la questione badando a ciò che ha sotto gli occhi – e ciò che ha sotto gli occhi gli dice che un vivente, in quanto essente nel mondo, nella misura in cui viene riguardato dal mondo, viene riguardato anche nella sua corporeità: dunque, tutto mira al vivente nella pienezza del suo esserci. Questa è un’altra questione che svilupperà e che pone come questione fondamentale: non c’è nessuna separazione tra la psiche e il soma, cioè, tra il pensiero e il corpo, sono due momenti dello stesso. Qui insisterà molto su questo aspetto della impossibilità della separazione. Aristotele ha sempre cercato il tutto, un qualche cosa che rendesse conto del tutto, già nella Metafisica con la ricerca del principio primo, e cioè qualche cosa che potesse spiegare il tutto. Il tutto è sempre stato presente in Aristotele come ciò che in fondo è da ricercare, non le singole parti ma il tutto, e come funzionano questi singoli aspetti relativamente al tutto. Si è accorto che non esistono gli astratti senza il concreto. Qui Severino poteva intendere qualcosa di più, perché questo tutto, di cui sta parlando Aristotele, non è un qualche cosa da raggiungere, ma è qualcosa che è già qui, presente, e non lo pone, come fa Severino, in un futuro ipotetico. … Egli lo mostra facendo riferimento all’essere dell’uomo, che è determinato dal νούς. Qui di nuovo Aristotele, per bocca di Heidegger, sottolinea che l’essere dell’uomo è determinato dal νούς, cioè, l’essere è il νούς. Il νοεῖν dell’uomo non è puro. Il pensare a qualcosa che non ho attualmente lì davanti si basa sulla φαντασίαQualche volta fa parlavamo della rappresentazione. La rappresentazione è il rendersi presente al pensiero qualche cosa che non è immediatamente presente, sottomano, come direbbe Heidegger. …è possibile soltanto grazie all’immaginazione che richiama alla mente, e il richiamare alla mente, in quanto tale, altro non è che la ripetizione di ciò che era già stato presente una volta, ripetizione di un passato presente. Questa è la particolarità del linguaggio: è perché abbiamo il linguaggio che possiamo rappresentare. Rappresentare significa potere pensare il futuro. Un animale non può pensare il futuro, pensare il futuro significa avere la possibilità di desiderare qualcosa. Se io non posso pensare il futuro non posso desiderare niente perché non posso raffigurarmi niente da desiderare, ciò che non ho ma che voglio avere. La φαντασία non è necessariamente un ricordo – il ricordo è un particolare richiamare alla mente; il ricordare è un richiamare alla mente tale da implicare il sapere circa l’“avere a quel tempo fatto esperienza” di ciò che viene ripetuto. Insomma: il νούς dell’uomo è riferito alla φαντασία, quindi all’αἴσθησις e al πάσχειν (patire) del σῶμα (corpo). Fermiamoci un momento. Dice che il νούς dell’uomo è riferito alla φαντασία, quindi alla percezione e al patire del corpo. Il corpo subisce un pensiero. Anche se apparentemente non si pensa così, il nostro corpo subisce i pensieri, si altera in seguito ai pensieri, cioè alle fantasie. E qui lui dice bene: il νούς è riferito alla φαντασία; potremmo intendere la φαντασία come la rappresentazione: un’idea di qualche cosa che non è presente. È chiaro che a questo punto la questione si amplia, perché ciò che io dico che è qui presente è anch’esso una rappresentazione oppure no? Se non è una rappresentazione sarebbe come dire che ho accesso diretto alla cosa, ma ho questo accesso diretto alla cosa, so che cosa veramente è? Se non lo so, allora non posso che averne una rappresentazione, ma a questo punto rappresentazione di che? La cosa in sé non è accessibile, ho accesso soltanto ad altre rappresentazioni, cioè, ad altre fantasie. Come dicevo, la φαντασία non è altro che una rappresentazione; dunque, tutto ciò con cui ho a che fare è una φαντασία, è una rappresentazione. È da intendersi così ciò che dicevamo qualche volta fa: è perché parlo che ho accesso alle cose; le cose alle quali ho accesso non sono altro che parole, le parole del mio discorso. Siamo a pag. 231. Ciò che ci interessa è il modo in cui Aristotele caratterizza il peculiare intreccio tra l’essere dell’uomo nella pienezza del suo esserci e il σῶμα. Tra il pensiero e il corpo. Tale questione determina il modo in cui vengono trattati i πάθη in quanto tali. L’analisi dei πάθη sviluppata nella Retorica è tale da porre in evidenza – senza occuparsi della loro specifica peculiarità – l’εἶδος dei πάθη... Cioè, la forma di queste passioni, come si manifestano, come le vedo. Tenete sempre conto che per il greco antico il vedere era la cosa più importante. …il fatto cioè che essi, in quanto così evidenti, sono κίνησις τοῡ σώματος (movimenti del corpo), qualcosa che accade in un vivente e che, accadendo, ne richiede al contempo anche la corporeità. Aristotele si accorge che non possiamo disgiungere il corpo dal pensiero, sono la stessa cosa. È una cosa che ancora oggi non si è intesa; certo, si è inteso che il pensiero influisce sul corpo, e viceversa, ma che siano la stessa cosa, che non siano separabili e che se non considero l’uno cessa di esistere anche l’altro, ecco, questo nessuno è mai arrivato a dirlo. In un primo momento Aristotele lascia aperta la questione se esista un ἳδιον πάθος (specifica passione) dell’anima come tale; egli preferisce piuttosto mostrare che tutti i πάθη sono μετά σώματος (rivolti al corpo), e lo fa in modo duplice: in ogni “essere in collera con…”, “essere benevolo nei confronti di…”, “avere paura di…”, ecc., è coinvolto in un certo modo anche il corpo. Emerge il fatto peculiare che a volte, anche quando siamo riguardati da παθήματα, cioè da accadimenti e circostanze molto forti provenienti dal mondo, ciò nonostante non cadiamo in preda alla paura; altre volte, invece, avviene che siamo motivi assai esili a metterci in agitazione. Qui siamo ventisei secoli prima di Freud. È già tutto qui. Quindi, il fatto di cadere in preda a questo o a quel πάθος non dipende esclusivamente da ciò che ci capita, poiché la γένεσις (sorgere) dei πάθη (stati d’animo) si dà anche tramite la corporeità. Capita che qualcuno vada fuori di matto per questioni futili. Perché? Qui tra poco Aristotele ci dà una direzione. Tale γένεσις si mostra in modo ancora più chiaro nel fatto che qualche volta cadiamo in preda alla paura senza che nulla di pauroso ci capiti direttamente, sicché in un certo senso l’avere paura nasce dentro di noi, il nostro essere reca implicitamente in sé la possibilità della paura e dell’angoscia. Ciò indica però che, in effetti, la corporeità concorre alla γένεσις dei πάθη: “Se le cose stanno così, è chiaro che i πάθη sono λόγοι ἒνυλοι . “Eνυλοι: ἒν e ὕλη, la materia, quindi, discorsi che sono nel corpo; questi discorsi, queste parole, sono nel corpo. Capite come Aristotele dia quasi per certo che le parole sono il corpo, che il corpo è fatto di parole. Ecco che torniamo alla questione, di cui dicevamo tempo fa: ciascuno, avendo accesso a una qualunque cosa, ha accesso unicamente al suo dire, alle sue parole, le cose sono parole. Λόγοι ἒνυλοι: letteralmente, parole nella materia, cioè, parole che sono la materia. Se vuole cogliere i πάθη in ciò che sono, l’analisi del fenomeno deve considerare ciò da cui i πάθη nascono e ciò in cui si situano. Era questa l’idea di Aristotele: da dove vengono questi sentimenti, queste emozioni, ecc.? La loro ὕλη altro non è che il σῶμα, la corporeità dell’uomo. La materia di queste passioni è il corpo, perché è lì che io le provo. Se è questa la via prescelta per l’indagine sui πάθη, a ciò debbono corrispondere gli ὅροι (limiti), atti a delimitare il relativo fenomeno in sé. Entro che cosa devo fermare, fissare la cosa. Questo è lo ὅρος dell’όργή (sensazione forte, collera): “L’essere in collera è qualcosa come un “essere in movimento” del corpo fatto così e così, cioè di una corporeità (o di una parte del corpo) situata in un modo determinato, un movimento determinato conseguente alla pressione esercitata da questa o da quella cosa, da determinate circostanze e causate da questa e quella faccenda”. Questo era il modo di Aristotele per cominciare a porre la questione, ne parla nel De anima. Da un lato si considera la ὕλη, che sta nel τοιουδι σώματος (corpo stesso), dall’altro l’εἶδος, l’essere-così dell’essere-riguardati. Da una parte, dice, c’è l’emozione stessa in quanto tale, dall’altra il modo in cui si manifesta. Li distingue, ma solo per poterne parlare; di fatto, sta dicendo che sono due momenti dello stesso. In tal modo viene chiamato in causa anche il λόγος. Aristotele ne deriva una fondamentale definizione teoretico-scientifica: “Perciò spetta al φυσικός prendere in esame ciò che rientra nell’ambito del tema dell’essere di un vivente”. Φυσικός: colui che indaga la natura nel senso più ampio. Nel fenomeno del πάθος è costitutivo il σῶμα, come qualcosa che implica la possibilità dell’“essere in un mondo”; σῶμα inteso come una ὕλη del tutto determinata, caratterizzata dal fatto di rendere possibile la vita. Questa materia, di cui lui sta parlando, non è altro che ciò che rende possibile la vita; quindi, corpo e pensiero, che non sono separabili, sono la stessa cosa. Per Aristotele ne risulta che il φυσικός considera i πάθη in modo diverso dal διαλεκτικός (retore): costoro “delimitano i πάθη di volta in volta in modo differente, ad esempio la collera: mentre il primo (il διαλεκτικός, che pratica la retorica) considera la collera come la tendenza a vendicarsi (un certo accanimento come modo di “essere verso gli altri”), il φυσικός definisce la collera come un determinato ribollire del sangue nel cuore e del calore”. Il primo λόγος fornisce il vero e proprio εἶδος, dice che cosa la collera propriamente è. Quest’ultima però, in quanto determinazione dell’essere dell’uomo nel mondo, è necessariamente codeterminata dal fatto di essere una ζέσις, cioè un “ribollire” del sangue. Sono i modi di Aristotele per dirci che le due cose non si separano. Quello che vedi, sì, certo, è la collera di qualcuno che dà in escandescenze, ma il suo essere in escandescenze lo riguarda corporalmente, è il suo corpo che dà in escandescenze, quindi il suo pensiero, il suo discorso. Vi è quindi un duplice modo di considerare, e sorge la domanda: qual è propriamente il compito del φυσικός in riferimento alla ψυχή? Esempio: che aspetto ha una casa? Possiamo considerarla in quanto riparo, copertura, che impedisce l’essere colpiti in modo nocivo e danneggiati da vento, pioggia e calura. Un altro dirà: pietre, mattoni, legno. Un terzo invece: l’aspetto, l’εἶδος, di questa casa in legno, pietre e mattoni ha per scopo la creazione della necessaria protezione, del riparo… /…/ Chi è dunque il φυσικός? È forse colui che si limita a parlare del materiale (che dice: quello che abbiamo davanti è pietra e legno), senza badare a che aspetto abbia propriamente il materiale in questione? Oppure colui che parla solo dell’εἶδος? O infine colui che parla dell’έξ άνφοῖν (riferendosi al tutto)? Il vero φυσικός è colui che considera la casa rivolgendosi al suo aspetto, che implica di per sé il riferimento a ciò di cui la casa è fatta –… Oggi diremo che il primo esempio sarebbe l’ingegnere, che si occupa dei materiali; l’altro, l’aspetto, è di competenza dell’architetto. …colui quindi che prende primariamente in esame che cos’è la casa che ha lì di fronte, come essa è fatta in se stessa. Questa decisione dimostra la superiorità di principio di cui Aristotele gode nei confronti di tutto il naturalismo precedente. L’essere della natura è determinato, nel suo aspetto, non solo dalla ὕλη, ma primariamente dall’essere-mosso. L’essere-mosso, cioè, l’essere in divenire, in divenire qualcosa. Ne parlerà ancora: il divenire come τέλος, come fine di qualche cosa. Solo l’ente così determinato è il tema autentico e sicuro del φυσικός. Egli indaga i σώματα (corpi) considerandone gli ἒργα (atti) e i πάθη (emozioni), questi ultimi intesi in senso assai ampio, cioè nel primo senso del capitolo 21 di Metafisica Δ. Il φυσικός assume i σώματα come fatti così e così. Per esempio, egli considera il legno nella misura in cui esso entra in questione in quanto determinazione ontologica dell’albero,… L’albero è in quanto è legno. Codeterminando l’essere della pianta. Il τεχνηίτης (tecnico), invece, non considera il legno – ad esempio un timone – in quanto codeterminante per l’albero, ma in quanto possiede una certa durezza, con particolare riguardo alla sua idoneità a fornire un buon timone. Quindi, in definitiva, il φυσικός, per Aristotele, è colui che si occupa del tutto, che cioè vede la cosa e la considera tenendo conto che è fatta di materia e di pensiero. A pag. 234. Per la definizione ontologica dei πάθηPer definizione ontologica si intende che cosa sono le emozioni in se stesse, qual è l’essere dell’ente. …è importante ribadire che essi vengono compresi in se stessi soltanto se sono intesi in quanto πάθη del σῶμα (emozioni del corpo); il loro εἶδος si definisce primariamente in quanto determinazione del vivente in riferimento all’“essere in” nel mondo. Il riferimento all’essere nel mondo è sempre presente. Tutto questo accade sempre tenendo presente che parliamo di qualcuno che è nel mondo, quindi, fatto di tutte le cose, di tutte le parole, di tutti i pensieri, di tutte le emozioni. Θυμός (coraggio) e φόβος (paura) sono qualcosa che accade a un corpo fatto in un modo determinato – le due cose “non sono separabili”. Non esiste qualcosa come una paura pura, da intendersi come un comportarsi astratto nei confronti di qualcosa. Sta dicendo che la paura in quanto tale non è isolabile ma si può considerare soltanto come qualcosa che avviene nel mondo da parte di qualcuno, che è nel mondo. È ciò che per Aristotele dovrebbe fare il φυσικός. Si tratta piuttosto, in sé, di un comportamento dell’uomo nella sua globalità, con la sua corporeità. Vedete come insiste continuamente sulla questione del tutto. Ciascuna cosa coappartiene a un’altra al punto tale che se io ne togliessi una toglierei anche quell’altra: questo significa coappartenere. Ma questo “non poter essere astratto e detratto” è diverso da quello delle oggettualità matematiche. È interessante questo non poter essere astratto, dal concreto, ovviamente. Qui sembra essere riferito a Severino, anche se Aristotele non conosceva Severino. I πάθη non possono essere identificati con la linea e la superficie del corpo in senso matematico. Il greco vede una linea non primariamente in sé: γραμμή (segno) è sempre piuttosto il limite di una superficie, la superficie è il limite del corpo, la superficie non ha alcun essere senza il corpo – dunque anche qui si ha un “non potere essere separati”. Non è possibile separare nulla da nulla, è questa la questione. Il fatto che nulla sia separabile da alcunché avrebbe potuto suggerire a Severino l’idea che gli astratti non possono comunque essere separati dal concreto, mai, per nessun motivo, perché se li separo scompare anche il concreto. Ma questo non lo ha pensato.

Intervento: …

Lui distingue in questo modo l’astratto dal concreto per indicare che l’astratto è l’unico modo in cui il concreto si manifesta. Il concreto si manifesta come tutto e l’unico modo che ha per manifestarsi appunto concretamente sarà quando sarà tutto, cioè, quando tutti gli astratti saranno partecipi del concreto; solo allora il concreto sarà tutto. Perché era questo il suo problema: sì, c’è il concreto e poi gli astratti, ma questo concreto non è tutto. Invece, per lui deve essere il tutto, perché solo se abbiamo il tutto allora le cose hanno un senso. E questo è curioso perché lui diceva che siccome di fatto non aveva raggiunto il concreto, il tutto, perché tutti gli astratti non sono ancora partecipi del concreto, allora questo tutto non c’è, quindi, tutto questo non ha senso, e non ce l’ha finché non ha raggiunto il tutto, solo allora c’è il senso. Come dire che tutto quello che lui ha detto non significa niente, è senza senso, perché il senso lo aspettiamo… Anche l’εἶδος dell’avere paura, insomma, è primariamente riferito a un sentirsi-situato del corpo. La differenza sta in ciò, che, mentre nel caso della non separabilità matematica la specifica costituzione dei σώματα (corpi) non svolge alcun ruolo – per esempio l’essere bruno o graffiato del corpo fisico –, nel caso dei πάθη il fatto che l’essere sia costituito in questo e in quel modo è essenziale. Perché io cambio se sono arrabbiato, se sono contento, angosciato, felice, ecc. Entrambi sono λόγοι ἕνυλοι (discorsi che sono materia) ma in un senso completamente diverso. È questo il terreno per il modo in cui la Retorica considera i πάθη in riferimento all’εἶδος. La retorica sa benissimo che se io vedo una persona che ha paura di ciò che io voglio che abbia paura, allora il mio discorso è stato efficace e sono vicino al punto in cui l’altro farà quello che voglio io. Ciò che importa è che Aristotele non perviene alla definizione fondamentale del vivente basandosi su considerazioni fisiologiche. L’εἶδος dei πάθη (figura delle passioni) è un comportarsi nei confronti degli altri uomini, un “essere nel mondo”. Sta dicendo semplicemente che se sono arrabbiato è perché qualcuno mi ha fatto arrabbiare. Soltanto a partire da questo assunto può essere correttamente indagata la ὕλη dei πάθη (la materia delle emozioni). La materia delle emozioni non è altro che l’essere arrabbiati con qualcuno, cioè, per il fatto che siamo nel mondo c’è sempre qualcuno che può fare arrabbiare. Nel libro I, capitolo 1, del De anima si tratta di verificare fino a che punto il νούς, in quanto determinazione fondamentale dell’essere dell’uomo,… Il pensiero è di fatto l’uomo. …costituisca una caratteristica fondamentale di questo essere, e in che misura l’uomo rappresenti solo una possibilità determinata dell’essere del νούς. Come se il νούς andasse oltre, ma non ci va. La base per tale verifica consiste nel fatto che Aristotele nota che il νούς, il “pensare”, contrariamente a tutte le altre modalità di coglimento, è una possibilità di cogliere che non è limitata a un ambito ontologico determinato, come l’udire, il vedere, ecc. – bensì – in quanto νούς – mira a τά πάντα (tutte le cose)… Ricordate il suggerimento di Heidegger di tradurre ἒν πάντα εἰναι di Eraclito: questo πάντα non va tradotto con “tutto” ma con “tutte le cose”. …è insomma una possibilità di cogliere che coglie ogni possibile ente in modo tale che l’ente in questione non deve nemmeno essere necessariamente presente. Ciò che compie questo miracolo è il λόγος. È la parola, il linguaggio, che determina la possibilità di rappresentare. Il rappresentare è ciò che ci rende umani, gli animali non possono rappresentare niente. Infatti, siamo noi umani che abbiamo inventato il cinema, il teatro, tutte le cosiddette rappresentazioni. Questa universalità della possibilità di coglimento è qualcosa che non va fatto coincidere con il concreto essere dell’uomo che sempre, di volta in volta, è. Ciascuno, di volta in volta, è diverso, mentre il νούς riesce a cogliere il tutto. Ma, allora, su che cosa si fonda questa possibilità di cogliere tutto, che cresce e si sviluppa al di là dell’uomo e del suo essere concreto? Ovvio che non si sviluppa al di là dell’uomo, del λόγος: al di là del linguaggio non c’è nulla. Nel contesto di tale questione Aristotele tratta dei πάθη come di quei fenomeni grazie ai quali si può mostrare che il concreto essere dell’uomo può essere inteso solo se lo si assume nella sua pienezza, in base a una varietà di considerazioni. Heidegger sta dicendo che Aristotele parla delle passioni soltanto perché voleva farci intendere che soltanto se intendiamo l’uomo comprensivo delle sue passioni riusciamo a pensare qualcosa dell’uomo, e cioè che non c’è linguaggio senza passioni, e viceversa. Il linguaggio è passioni, è soddisfazione, è insoddisfazione. Perché? Perché è volontà di potenza: se io soddisfo la volontà di potenza, se viene soddisfatta in un modo o nell’altro, sono contento, sennò sono inquieto, adirato, infastidito, seccato, amareggiato. Decisivo è soprattutto il fatto che possiamo perdere il controllo provando paura,… La paura è perdita di controllo. Che cosa sono gli attacchi panico? La subitanea e immediata idea di avere perso il controllo sul mondo che mi circonda, per cui mi sento come un turacciolo in mezzo all’oceano. La paura è la perdita di controllo, il non avere più il controllo sulle cose: è di questo che gli umani hanno paura, non c’è un’altra paura. …senza che nel mondo intorno a noi ci si faccia incontro nulla che possa essere motivo diretto di paura. In questo essere colti dai πάθη la corporeità viene in certo modo coinvolta. Perché anche se non c’è un motivo reale di avere paura, il mio corpo reagisce, ho realmente paura; l’oggetto della paura non è reale, ma la mia paura sì, con tutto ciò che questo comporta. Se le cose stanno così… Se cioè non possiamo in nessun modo separare la ψυχή dal σῶμα, il linguaggio dal corpo. …sorge la domanda: in quale campo d’indagine rientra l’ente che ha il carattere del vivente? Il φυσικός non deve avere, come tema, anche la ψυχή? Quando dice così, di avere a tema la ψυχή, intende dire avere a tema il linguaggio, perché la ψυχή non è altro che il vivente che ha qualche cosa che lo rende vivo, e che cos’è che lo rende vivo se non il suo pensiero, il suo dire: è questo che lo rende vivo, per cui diciamo che è vivo. Per ipotesi, ipotesi assurda, anche un cadavere che ci parlasse per noi sarebbe vivo. In effetti è così, dato che in linea di principio per il φυσικός ogni σῶμα è un τοιοῦτον (quello che è), è determinato in questo e quel modo. Ne consegue che egli è tenuto a definire dall’inizio questo τοιοῦτον, la ὕλη nel suo senso positivo. Sta dicendo qui una cosa importante. Il φυσικός deve, sì, tenere conto, ma anche definire dall’inizio questo τοιοῦτον, questo essere quello che è. Perché è quello che è? Che cosa significa dire quello che è? Cioè, la ὕλη nel suo senso positivo: la materia in questo senso, come l’essere dell’ente. Il φυσικός è tenuto a sapere, definire che cos’è ciò con cui ha a che fare. È questo che intende Aristotele quando dice che il φυσικός deve tenere conto del tutto, e per fare questo – definire o determinare qualche cosa – non posso ignorare il fatto che sto definendo con parole e che cosa sono queste parole attraverso le quali io definisco. Tutto questo è ciò che deve essere preso in considerazione. Ed è appunto il compito di fornire questa definizione fondamentale dell’ente a essere sempre stato disatteso dagli antichi φυσιολόγοι. I fisiologi una volta era coloro che si occupavano di un po’ di tutto, del corpo ma non solo. Dobbiamo quindi mettere a fuoco questo stato di cose dalla prospettiva opposta, mostrando fino a che punto il φυσικός deve prendere in considerazione, entro certi limiti, la ψυχή. Un motivo per questa digressione è la connessione con l’analisi del movimento svolta nel libro III, capitoli 1-3, della Fisica. Nel prossimo capitolo 19 parlerà del φυσικός e del suo modo di trattare la ψυχή. Ma in realtà non sta facendo nient’altro che dire che la la ψυχή e il σῶμα sono la stessa cosa, la parola e il corpo sono la stessa cosa. Esattamente ciò che anticipavamo la volta scorsa, e cioè ciò con cui ho a che fare sono sempre e soltanto parole. E il φυσικός deve tenere conto di questo aspetto, che abbiamo a che fare con parole.